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giovedì 19 agosto 2021

Allargare la cittadinanza fa bene a tutti di Giuseppe Savagnone


Allargare la cittadinanza fa bene a tutti 
di Giuseppe Savagnone


Un nuovo “medio evo”

Si ha a volte l’impressione che le polemiche sulla possibilità di assumere come criterio decisivo di cittadinanza non più lo ius sanguinis, ma lo ius soli, risentano di una ristrettezza di orizzonti che probabilmente è il “peccato originale” di tutto il dibattito sul fenomeno migratorio.

Questa scarsa lungimiranza è evidente già nel conflitto, sempre risorgente (vedi l’attacco di Salvini alla Lamorgese) tra i fautori dell’accoglienza e quelli dei “respingimenti”, accomunati loro malgrado dalla tendenza a ragionare nella logica del breve periodo, i primi per invocare un “pronto soccorso” ai migranti, i secondi immaginando di poter arginare con misure poliziesche quella che interpretano come un’invasione. La prospettiva prevalente, in entrambi i casi, è stata e spesso rimane quella umanitaria, dagli uni ritenuta doverosa, dagli altri derisa come “buonismo”.

È mancata spesso la percezione che la posta in gioco è piuttosto una profonda ridefinizione del rapporto tra persona e cittadino, in un dato contesto storico che la esige. Si continua a parlare delle ondate migratorie come di “invasioni” e della lotta contro di esse come di una “difesa dei confini”, paragonandole a quelle dei barbari nei confronti dell’Impero romano. E in questo paragone qualcosa di vero c’è, anche se, paradossalmente, porta a conclusioni opposte a quelle dei suoi sostenitori.

Ciò che essi sembrano dimenticare è che il medioevo – frutto di questa crisi epocale delle frontiere – fu il crogiolo in cui si plasmò una nuova civiltà: la nostra. E che la nuova cittadinanza scaturita da quel crogiolo permise al vecchio Impero romano di rigenerarsi profondamente in quel Sacro Romano Impero di cui “barbari” come Carlo Magno non furono solo cittadini, ma guide illuminate, preoccupandosi peraltro di garantire, per quanto possibile, la continuità con la civiltà latina che era tramontata.

Oggi, anche se in un contesto storico ovviamente del tutto diverso, si assiste, come allora, a un duplice fenomeno: da una parte è evidente la porosità dei confini, sempre più incapaci di contenere la spinta di popolazioni minacciate alla guerra, dalla fame o semplicemente dal desiderio di una vita migliore; dall’altra, sui territori che un tempo questi confini delimitavano, si ritrovano a convivere persone provenienti da culture diverse, che non sono di passaggio, ma che si radicano stabilmente nel nuovo ambiente investendo in esso le speranze del loro futuro.

Ripensare il rapporto tra persona e cittadinanza

Da qui l’urgenza di ripensare il rapporto tra persona e cittadinanza, tenendo conto da un lato dell’avvento di un orizzonte planetario originato dalla caduta dei muri e dalla globalizzazione, dall’altro del determinarsi, all’interno delle comunità politiche, di differenze che per certi versi rischiano di frammentarle in una molteplicità di espressioni culturali, religiose ed etiche, per altri, però, possono – se integrate in una comune cittadinanza – costituire una ricchezza.

Nell’antichità era la cittadinanza a definire i diritti della persona. Nel mondo greco-romano si era qualcuno se si era cittadino. Lo straniero, trovandosi in uno spazio in cui non aveva cittadinanza, non aveva diritti. A Polifemo che gli chiede il suo nome, il profugo Ulisse risponde, con verità: «Il mio nome è “Nessuno”».

Nell’età moderna, sotto l’influsso del cristianesimo, ci si renderà sempre più chiaramente conto che esistono diritti che spettano agli individui in quanto esseri umani; e vi sono diritti che spettano loro in quanto cittadini di una comunità politica.

Le due sfere, certamente distinte, non sono però separabili. Anzi è inevitabile che la priorità dell’una all’altra comporti delle conseguenze profonde su entrambe. Nell’età moderna, è stata forte la tendenza a dare la precedenza alla qualità di cittadino su quella di persona. La cittadinanza politica ha assorbito e strumentalizzato senza scrupoli la dimensione umana. Si è concepito lo Stato come “sovrano” (“che sta sopra”) rispetto alla società civile, e non come sua espressione e come strumento per il suo sviluppo umano. La “ragion di Stato” ha giustificato scelte politiche disumane e guerre sanguinose.

L’epoca in cui oggi viviamo – e che molti definiscono “postmoderna” – si è avviata (anche dopo il trauma di due spaventose guerre mondiali e l’esperienza dei totalitarismi) verso un capovolgimento di questa prospettiva. Oggi prevale sempre di più l’idea che il senso della cittadinanza sia di proteggere l’umana fragilità delle persone e di accompagnarle verso il loro pieno sviluppo, che, cioè, i diritti di cittadinanza siano in funzione dei diritti della persona.

Nella nostra Costituzione, all’art. 2, si riconoscono i diritti dell’uomo in tutta la loro estensione; poi, dall’art. 3 in avanti si parla di quelli del cittadino. Non è una discontinuità: l’intento è quello di travasare tutti i diritti umani nel concetto costituzionale di cittadinanza, trasformandone il significato da criterio utilizzato per discriminare, fra gli esseri umani, quelli meritevoli di tutela da quelli che non lo sono, in attributo che deriva immediatamente dalla dignità della persona, che non sarebbe pienamente rispettata senza il riconoscimento della sua partecipazione alla vita pubblica.

Si può parlare, in questo senso di una vera e propria «costituzionalizzazione della persona» Non è l’appartenenza ad una comunità a conferire i diritti di cittadinanza, ma al contrario è l’essere persona a conferire il diritto di questa appartenenza o almeno un’aspettativa legittima ad essa.

I criteri della cittadinanza

Tutto ciò ha un’evidente ricaduta sul problema della maggiore o minore estensione della cittadinanza italiana a coloro che vivono sul nostro territorio. Lo ius sanguinis, attualmente vigente, la restringe a coloro che hanno almeno un genitore italiano, o sono adottati da cittadini italiani, oppure i discendenti di italiani che riescano a dimostrare la catena parentale fino al capostipite cittadino italiano.

La cittadinanza può essere richiesta anche dagli stranieri che risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di determinati requisiti (redditi sufficienti al sostentamento, assenza di precedenti penali e di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica). Si può diventare cittadini italiani anche per matrimonio.

Una debole apertura allo ius soli è costituta dalla norma per cui i figli di cittadini stranieri che nascono in Italia e vi risiedono ininterrottamente fino al compimento della maggiore età possono, entro un anno dal compimento dei 18 anni, dichiarare di voler acquisire la cittadinanza e presentare la relativa domanda.

Lo ius soli è adottato nella sua forma più pura negli Stati Uniti, in Brasile e altri Stati non europei. In Europa lo è, con delle condizioni. Per la legislazione tedesca, per esempio, acquistano la cittadinanza per ius soli i figli degli stranieri nati in Germania, purché almeno uno dei genitori vi risieda abitualmente e legalmente da almeno otto anni e abbia il permesso di soggiorno a tempo indeterminato.

Una terza soluzione potrebbe essere lo ius culturae, secondo cui i minori stranieri possono acquisire la cittadinanza del Paese in cui sono nati o in cui vivono da un certo numero di anni, a condizione che in quel Paese abbiano frequentato le scuole (in genere un ciclo di studi) o abbiano compiuto percorsi formativi per un determinato numero di anni.

Oltre l’“umanitarismo”

Alla luce delle considerazioni di fondo svolte più sopra, è chiaro che arroccarsi sullo ius sanguinis non è un onesto atto di realismo, come pretendono i suoi sostenitori, ma un modo sbagliato di concepire il rapporto tra l’essere umano e la cittadinanza, nonché una forma di cecità sulle dinamiche del nostro momento storico. Si può ancora continuare a “difendere le frontiere” e a negare la parità giuridica a chi nasce nel nostro Paese, ma non si può pretendere di farlo in nome deli interessi degli italiani, perché questi interessi possono essere tutelati solo in base a una visione che da un lato rispetti la dignità delle persone, dall’altro tenga conto delle dinamiche della storia.

A chi si ostina a considerare il problema in termini “umanitari” – la scelta tra il vantaggio anche solo materiale degli italiani e il sacrificio doveroso di questo vantaggio in nome di un eroico quanto astratto altruismo – sarà utile leggere un documento del Fondo Monetario Internazionale, pubblicato nel 2019 e intitolato “Does an inclusive citizenship law promote economic development?”, in cui ci si chiede se una legge che garantisca una cittadinanza inclusiva promuova lo sviluppo economico di una nazione.

La risposta è decisamente positiva. Si legge nel documento del FMI: «I Paesi dove vige un regime di ius soli tendono a essere più sviluppati di quelli che hanno altre regole». E si spiega: «L’inclusione facilitata da opportune leggi di cittadinanza è un motore di crescita economica e un fattore per spiegare perché alcuni Paesi sono più ricchi di altri». Infatti, a maggiore inclusione corrispondono «meno diseguaglianze di reddito, più parità di genere, miglior velocità di adattamento, in una parola più crescita».

Si comprende che la crescita di cui si parla non riguarda solo la sfera strettamente economica, ma coinvolge quella dei diritti: «Distinguendo in modo netto i cittadini di un Paese da tutti gli altri», – osserva il rapporto dell’FMI –, «la legge crea degli ‘in’ e degli ‘out’ con forti tensioni sociali. Viceversa le norme dovrebbero facilitare l’integrazione predisponendo un semplice e trasparente percorso per la cittadinanza che crei un terreno di uguali opportunità per i nuovi arrivati».

L’occhio è comunque puntato principalmente sugli effetti che questo sviluppo civile ha sull’economia: «Se la legge esclude certi cittadini può in casi estremi portare a seri conflitti e danneggiare lo sviluppo economico. Norme inclusive sono un prezioso strumento di crescita, con profonde conseguenze per il mercato del lavoro, i programmi di welfare e le istituzioni stesse».

È accertata, per esempio, la ricaduta sul reddito: «Fra il 1970 e il 2014 i redditi pro capite dei Paesi con lo ius soli sono stati dell’80% più alti che in tutti gli altri».

Insomma, il migliore modo di essere “egoisti” in questo caso (come in molti altri) e di tenere conto dei bisogni e dei diritti degli altri. Se ci si ricordasse di questa semplice verità, si eviterebbero molti guai, nella vita privata come in quella pubblica.
(fonte: Tuttavia 13/08/2021)