Il cardinal Gianfranco Ravasi presenta la
Lettera apostolica «Sacrae Scripturae affectus»
firmata da Papa Francesco a 1600 anni dalla morte di San Girolamo
Il cardinal Gianfranco Ravasi, biblista e Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, presenta la Lettera apostolica «Sacrae Scripturae affectus», firmata da Papa Francesco il 30 settembre 2020, a 1600 anni dalla morte di San Girolamo.
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Come una «biblioteca di Cristo»
L’introduzione al documento
di Gianfranco Ravasi
Era il 30 settembre 420 e a Betlemme, nei pressi della grotta della Natività di Cristo, il dalmata Girolamo chiudeva la sua esistenza terrena, la cui trama era stata particolarmente varia e fin tormentata. A distanza esatta di milleseicento anni da quella giornata autunnale Papa Francesco ha voluto dedicargli un’ampia e intensa Lettera Apostolica che costituisce la sostanza di questo volumetto. Il titolo, Scripturae Sacrae affectus, desunto dalla liturgia della memoria del santo, costituisce una straordinaria sintesi della sua esperienza personale e della sua opera, anzi, quasi un vessillo emblematico di colui che è nella memoria di tutti come il traduttore per eccellenza della Bibbia attraverso quella Vulgata che ha percorso i secoli.
Proprio per questo la sua figura è stata un punto di riferimento capitale per la storia della cultura occidentale e persino per l’arte, ed è veramente sorprendente che il Papa stesso abbia voluto evocare alcuni ritratti «sapienziali» artistici, a partire dal «toccante capolavoro» della tavola di Girolamo penitente nel deserto che Leonardo da Vinci eseguì attorno al 1482 e che ebbe una vicenda dai contorni romanzeschi. Anche le ultime ore vissute dal santo sono state rappresentate dall’imponente pala d’altare nella quale il Domenichino, tra il 1611 e il 1614, fissò l’estrema Comunione di San Girolamo, opera custodita come l’altra nella Pinacoteca Vaticana. In un’atmosfera ieratica il celebre «Leone di Betlemme», ormai debilitato, riceve l’eucaristia circondato dai suoi discepoli e dalla fedele Paola, testimoni delle comunità monastiche da lui fondate.
La Lettera Apostolica è un vero e proprio ritratto storico-teologico di questo appassionato cultore della Parola di Dio, è una guida per percorrere la sua vasta attività esegetica e spirituale, è un appello a seguirne le orme «amando ciò che lui amò». La limpidità del dettato e della struttura del testo papale è tale da non esigere commento, ma solo una lettura attenta: ogni pagina è intarsiata di citazioni molto suggestive desunte dagli scritti geronimiani. Per questo è veramente possibile ascoltare quasi la sua voce, con la molteplicità delle tonalità, degli accenti, degli stessi sentimenti di una personalità così forte e dai lineamenti tipici dei profeti biblici con la loro veemenza e passione.
La complessa sequenza degli eventi biografici distribuiti soprattutto tra Roma e la Terrasanta viene ricostruita in modo accurato eppure vivace, a partire dalla famosa svolta della quaresima del 375 che vogliamo anche noi rievocare. Assopito per la febbre, nella sua mente si era aperta una sorta di visione. Ritto davanti al Giudice divino, «fui interrogato circa la mia condizione; risposi di essere cristiano. Ma Colui che presiedeva quell’assise, mi investì: Tu mentisci! Tu sei ciceroniano, non cristiano!». «Signore — replicai — se ancora avrò in mano libri mondani, se li leggerò, sarà come se ti avessi rinnegato!». Così il santo raccontava la grande svolta della sua vita in una lettera, la 22 del catalogo tradizionale, indirizzata alla fedele discepola Eustochio.
«Divenni, allora — narrerà in un altro scritto epistolare — discepolo di un fratello ebreo convertito per imparare, dopo le sottigliezze di Quintiliano, i fiumi di eloquenza di Cicerone, la gravità di Frontone e la piacevolezza di Plinio, un nuovo alfabeto e per esercitarmi a pronunziare suoni striduli e aspirati. Quale fatica sia stata per me, quali difficoltà vi abbia incontrato, quante volte abbia smesso e poi, per il desiderio di imparare, abbia di nuovo ripreso, lo può testimoniare solo la mia coscienza, che ha sopportato tutto ciò, ma anche quella di coloro che mi erano compagni di vita». Iniziava, così, la grande avventura divenuta celebre col nome di Vulgata, ossia l’elaborazione di una traduzione «popolare» latina della Bibbia.
Il Papa segue da quel momento tutto l’itinerario, per certi versi affascinante e movimentato, dell’esperienza cristiana di Girolamo che ha il suo cuore nell’amore per la Sacra Scrittura affrontata nella sua duplice dimensione di «lettera» e «spirito». L’asse fondamentale della sua vicenda umana e spirituale è nella sua opera di traduttore, incarnata appunto nella Vulgata, «il frutto più dolce dell’ardua semina» dei suoi studi letterari e storico-critici. Papa Francesco offre, al riguardo, non solo una serie di preziose annotazioni sul rilievo di questa operazione nelle sue caratteristiche di fondo, ma anche nell’importanza ecclesiale da essa registrata. Soprattutto ne coglie l’anima molto originale che è alla radice anche di ogni traduzione qualificata che continua ancor oggi a rivelarsi attraverso le incessanti versioni della Bibbia nelle lingue più diverse.
Tradurre, infatti, è un atto di inculturazione e, a questo proposito, recuperando esplicitamente una riflessione significativa sviluppata dal pensiero contemporaneo (P. Ricoeur, L. Wittgenstein, G. Steiner) il Papa stabilisce «un’analogia fra la traduzione, in quanto atto di ospitalità linguistica, e altre forme di accoglienza. Per questo la traduzione non è un lavoro che riguarda unicamente il linguaggio, ma corrisponde, in verità, a una decisione etica più ampia, che si connette con l’intera visione della vita. Senza traduzione, le differenti comunità linguistiche sarebbero nell’impossibilità di comunicare tra loro; noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro. Senza traduzione, in effetti, non si dà ospitalità, e anzi si rafforzano le pratiche di ostilità. Il traduttore è un costruttore di ponti. Quanti giudizi avventati, quante condanne e conflitti nascono dal fatto che ignoriamo la lingua degli altri e che non ci applichiamo, con tenace speranza, a questa interminabile prova d’amore che è la traduzione!».
Con tutte le riserve critiche, spesso comprensibili considerate le diverse coordinate cronologiche e culturali e la nostra diversa sensibilità filologica, la Vulgata ha costituito non solo un monumento letterario del tardo latino, ma ha plasmato la lingua teologica dell’Occidente cristiano. In verità il successo arrise all’opera di Girolamo solo un paio di secoli dopo. Fu san Gregorio Magno, Papa dal 590 al 605, a usare la traduzione di Girolamo per i suoi scritti esegetici e spirituali. Lo seguirono il quasi contemporaneo Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile, morto nel 735. Il fiume delle copie crebbe a dismisura trascinando con sé detriti di ogni genere, cioè errori scribali, mutamenti intenzionali, variazioni marginali, contaminazioni con le altre antiche versioni latine. Si dovettero, allora, operare revisioni e codificazioni che dettero origine a vere e proprie tipologie testuali rappresentate da famiglie di codici, convenzionalmente raggruppate secondo le aree geografiche.
Nacque, così, il cosiddetto modello «italiano», denominato dall’ambito primario di diffusione della Vulgata: non si deve dimenticare che lo storico e teologo Cassiodoro nel vi secolo fu con san Gregorio un artefice dell’adozione della versione geronimiana per la lettura e lo studio della Bibbia all’interno del suo Vivarium, l’«università» da lui fondata nelle sue terre di Squillace in Calabria. Ci fu una tipologia «gallica» legata ad Alcuino, incaricato per questa operazione da Carlo Magno (VIII-ix sec.); altri modelli apparvero in Spagna e Irlanda. Non è necessario ai nostri fini delineare il profilo di questo delta ramificato a cui approdò il fiume della Vulgata né descrivere le revisioni operate da vari personaggi, come ad esempio san Pier Damiani e Lanfranco di Pavia nell’XI secolo. Il testo più diffuso che proseguì il suo cammino nei secoli successivi fino al Rinascimento fu la cosiddetta Biblia Parisiensis, in uso presso l’Università di Parigi, una delle forme però meno perfette della lunga vita della Vulgata.
Fu solo nel concilio di Trento che, dopo essere stata affermata «l’autenticità» della Vulgata come testo biblico ufficiale della Chiesa cattolica (8 aprile 1546) — sul cui valore specifico la Lettera Apostolica offre un’essenziale e puntuale indicazione — si espresse il voto per un’«edizione tipica» più rigorosa. L’auspicio dei Padri conciliari si realizzò solo il 9 novembre 1592, dopo vicende tormentate che coinvolsero ben cinque Papi (Pio IV, Pio V, Sisto V, Gregorio XIV, Clemente VIII). Fu pubblicata allora l’edizione definitiva col titolo Biblia Sacra Vulgatae editionis Sixti Quinti Pont. iussu recognita atque edita. Nell’edizione di Lione del 1604 si aggiunse anche il nome di Clemente VIII e da allora si parlò di «Bibbia sisto-clementina». Incessanti furono nei secoli successivi le revisioni fino alla particolare proposta della Neovulgata promulgata da san Giovanni Paolo II nel 1979 e citata esplicitamente nella Lettera.
Sta di fatto che, pur nella differenza delle epoche, la Vulgata esercita ancor oggi un indubbio fascino letterario, anche per il suo uso nella storia dell’arte e della musica. Inoltre, come si diceva, essa ha condizionato in qualche modo il pensiero e il vocabolario teologico. Ora, lo studioso francese Georges Mounin ironizzava definendo ogni buona traduzione come una belle infidèle, bella, sì, ma con un grado di infedeltà rispetto alla matrice originaria, soprattutto quando tratta di sistemi linguistici e culturali differenti. Egli procedeva sulla scia del grande Cervantes, l’autore del Don Chisciotte, convinto che ogni versione fosse come il rovescio sempre appannato di un bell’arazzo. I problemi sollevati dal tradurre un testo non sono, infatti, solo linguistico-letterari ma ermeneutici, soprattutto quando di mezzo c’è una Scrittura «sacra». Tuttavia Girolamo rimane, ancor oggi, proprio in questo senso, un emblema di merito e di metodo, col suo rigore e la sua libertà, con la sua conoscenza e la sua creatività.
Ma travalicando le questioni strettamente critiche, il Papa quasi in sottofondo a tutto il testo, orienta in questa celebrazione centenaria la comunità ecclesiale a raccogliere l’eredità sostanziale di san Girolamo, ossia l’amore fatto di studio e di adesione vitale alla Parola di Dio. È questo un tema costantemente esaltato dal Magistero ecclesiale. In particolare, affiorano le attestazioni del concilio Vaticano II con la Dei Verbum, l’Esortazione Apostolica Verbum Domini che Benedetto XVI ha emesso proprio nella memoria del santo, il 30 settembre 2010, l’Evangelii gaudium e l’Aperuit illis dello stesso Papa Francesco, né si può dimenticare che nel parallelo XV centenario della morte di Girolamo, nel 1920, Benedetto XV promulgò l’enciclica Spiritus Paraclitus. Infatti, «il tratto peculiare della figura spirituale di san Girolamo rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio, trasmessa alla Chiesa nella Sacra Scrittura».
Altri lineamenti emergono nelle pagine della Lettera Apostolica. In particolare il suo impegno teorico e pratico per la vita monastica, così come il suo vivo amore per la Vergine Madre che «meditava in cuor suo» (Luca 2, 19.51) «perché era santa e aveva letto le Sacre Scritture, conosceva i profeti e ricordava ciò che l’angelo Gabriele le aveva annunciato e ciò che era stato vaticinato dai profeti». Un tratto, solitamente meno sottolineato che invece Papa Francesco sviluppa, è quello del legame del santo con la cattedra di Pietro. Inoltre domina nel Padre della Chiesa quell’asse cristologico che guiderà non solo la sua fede ma anche la sua esegesi. Alla sua figura viene, infatti, applicato ciò che lui stesso scriveva dell’amico Nepoziano: «Con la lettura assidua e la meditazione costante aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo».
Questa nostra premessa — dedicata a un testo veramente luminoso come sono queste pagine consacrate da Papa Francesco a un Padre della Chiesa dal temperamento ardente e persino provocatorio, ma anche dalla fede limpida e calorosa come è stato san Girolamo — potrebbe facilmente avere un suggello nello stesso documento pontificio. La sintesi finale, infatti, è da cercare nell’appello conclusivo della Lettera. Riprendendo l’immagine appena proposta della «biblioteca di Cristo», il Papa ci ricorda che quella di Girolamo è una biblioteca viva che «continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione. Come non ascoltare, nel nostro oggi, ciò a cui Girolamo spronava incessantemente i suoi contemporanei: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”?».