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venerdì 18 ottobre 2019

Papa Francesco, un outsider? di Renato Borrelli

Papa Francesco, un outsider? 
di Renato Borrelli 






Eh sì, papa Francesco, l’enfant terrible, l’outsider che si butta a capofitto come un guastatore per stravolgere l’ordine, l’ortodossia, la morale, la sacralità del papato!

Proprio come un altro enfant terrible di 78 anni che, il 25 gennaio 1959, annunciò ad un uditorio stupito e allarmato il proposito di indire un Concilio che cambiò il paradigma della Chiesa semplicemente rispolverando il vangelo: «Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità… vuol mostrarsi madre amorevole di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà, anche verso i figli da lei separati» (Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio, 11 ottobre 1962).

Esattamente quello che sta facendo papa Francesco. «L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti, nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia» (Misericordiae vultus n.10 ).

«La Chiesa deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG 114).

Ritorno al Concilio
La rivoluzione iniziata da papa Francesco, oltre ad essere frutto della sua personalità e dell’esperienza particolare di arcivescovo di una capitale in cui convivono sfrontate ricchezze ed estrema povertà, è la risposta alle richieste avanzate nelle riunioni preparatorie al conclave.

Anche il concilio Vaticano II, oltre che dal papa, fu portato avanti da illuminati rappresentanti dell’episcopato non solo italiano, ma soprattutto da quello proveniente dalle Chiese diffuse nel mondo, distanti anche mentalmente da una teologia di scuola ligia agli ordini di scuderia e tale da passare sopra la testa della gente.

Un famoso formatore di clero degli anni ’60 diceva, con un tono sarcastico, che d’oltralpe erano calati fior di teologi con le loro carrette colme dei loro libri per “imporre” il loro pensiero.

Il riferimento, non tanto velato, era rivolto a De Lubac, Rahner, Congar, Chenu, Ratzinger, Häring e a tutti quei teologi periti conciliari ai quali si deve la redazione di molti documenti, rifiutando il materiale già approntato da chi pensava di neutralizzare le novità del Concilio.

Chi non accetta papa Francesco non ha accolto o ha digerito male il Concilio. C’è insomma chi tuttora «ha paura del Concilio», a dirla con Ruggieri-Melloni. Papa Francesco invece non ha paura, anzi «riprende la Chiesa esattamente dal punto in cui il Concilio l’ha lasciata, dopo quasi cinquant’anni di traversata del deserto. Egli è un “papa messianico”, perché riprende la promesse messianiche che riguardano i beni più essenziali dell’umanità, la pace, la giustizia, l’unità umana, e perché ripropone, come se fosse annunciata oggi, l’esegesi messianica di Dio fatta dal Figlio, di un Padre di misericordia, di un Dio senza violenza, che, se fosse solo un Dio di giustizia e non anche di misericordia, non sarebbe neanche Dio» (Raniero La Valle).

Posso capire quelli della nuova generazione, ma dove stavano negli anni 50 e 60 e oltre gli oppositori ormai canuti, quando quei teologi elaboravano la nuova teologia anche pagando di persona? Quella teologia non era affatto arbitraria, bensì la risultante di un movimento di rinnovamento che, come un fiume carsico, da tempo spingeva al rinnovamento liturgico, biblico, patristico, ecumenico.

Il fatto poi che un certa fascia di clero giovane si opponga sottilmente al rinnovamento fa capire che la teologia che hanno studiato è passata sopra le loro teste.

Diffidenze immotivate
È impressionante notare, in una rilettura della storia delle reazioni al concilio Vaticano II, la sovrapponibilità di quelle negative di allora con quelle di oggi nei confronti di papa Francesco! Perfino nel sentore che si avverte oggi di uno scisma strisciante, che allora diventò purtroppo effettivo e annovera anche simpatizzanti tra i nostalgici del passato, i quali però ignorano, del passato, quanto enunciato chiaramente dal Vaticano I a proposito del sommo pontefice! Darebbero di lui giudizi più rispettosi della sua autorità spirituale, né starebbero a fare le pulci ad ogni suo discorso per trovarvi il pelo nell’uovo.

Chi, fra i censori, si scandalizza per le aperture di Amoris laetitia ignora che sono il risultato del Sinodo sulla famiglia, con alcune puntualizzazioni che hanno indicato una nuova rotta, ma sempre nel solco del pensiero teologico e morale avente come capofila san Tommaso. Francesco non è un temerario sprovveduto.

Nella Relazione del Sinodo si dà conto dei placet e dei non placet: questi ultimi fanno tuttora sentire il loro peso. Le obiezioni che vengono mosse, a volte, fanno venire il sospetto che non si sia letto a fondo quel documento e che sia sfuggito il paradigma della misericordia, dell’accoglienza, dell’inclusione, dell’accompagnamento, in linea con l’atteggiamento di Gesù e con quanto espresso anche da Giovanni Paolo II in Redemptor hominis («l’uomo è la via della Chiesa» ) e da Benedetto XVI in Deus caritas est. È la logica evangelica che ha guidato i santi della carità di ieri e di oggi.

Anche nei confronti di Evangelii gaudium si manifesta in alcuni settori una certa diffidenza. Evangelii gaudium è la magna carta in cui Francesco ha espresso molto bene le linee guida del suo pensiero e del suo pontificato: una svolta, ma nel solco della genuina tradizione. Basti guardare l’indice delle citazioni. Non si può affermare – come ho sentito dire – che il papa avrebbe “copiato”! Sì, proprio così. Ma da chi? Il saggio sa trarre dal suo cuore cose nuove e cose antiche!

Un papa… sprovveduto?
Ho l’impressione che molti non seguano gli insegnamenti pronunciati dal papa nelle udienze, all’Angelus, nelle omelie in Santa Marta e in altre circostanze. Vanno piuttosto spigolando frasi isolate dal contesto per dimostrare che il papa è… eretico, sorvolando sugli insegnamenti di vita presenti nel grande solco della spiritualità cristiana di cui è sostanziato il suo pensiero.

L’obiezione circa il retroterra teologico di papa Bergoglio non ha senso. Basti pensare che fu mandato dai superiori a Francoforte per preparare la tesi di dottorato su Romano Guardini, teologo e pensatore di grande rilievo e densità. Il fatto che sia stato poi destinato ad altro incarico, dovendo quindi interrompere quella ricerca, sta a dimostrare che il Signore sa scrivere dritto anche sulle righe storte di certe disposizioni dei superiori.

Non tutti i papi sono stati docenti di teologia; comunque Bergoglio ha un curriculum accademico, anche come docente, di tutto rispetto. Basterebbe leggere i suoi testi redatti da arcivescovo e prima ancora, per accorgersi della solidità teologica condita di spiritualità ignaziana, unita alla costante preoccupazione di essere aderente alla realtà, secondo la migliore teologia della liberazione nella quale egli si è formato alla scuola di grandi maestri.

Basterebbe rileggere l’omelia nella cattedrale di Buenos Aires del 25 maggio 2002, quando la crisi economica del Paese era giunta al culmine: «Abbiamo vissuto molte finzioni, credendo di appartenere al primo mondo, siamo stati attratti dal vitello d’oro della stabilità consumistica e folleggiante di alcuni, a costo dell’impoverimento di milioni. Quando oscure complicità interne ed estere si trasformano in un coacervo di atteggiamenti irresponsabili che non esitano a spingere le cose al limite senza badare ai danni. Dobbiamo riconoscere con dolore che sia tra i nostri sia tra gli avversari ci sono molti Zaccheo, con diversi titoli e responsabilità; Zaccheo che si scambiano ruolo in uno scenario di cupidigia quasi autorevole, a volte con travestimenti legittimi».

Parole di fuoco ma dense, rivolte ai governanti e a coloro che detengono il potere, «responsabili delle sofferenze altrui e della distruzione provocate dai loro giochi, e le ricchezze diventano, per loro, solo pedine di una scacchiera, numeri, statistiche e variabili nella pianificazione di un progetto». Così attualizzava l’episodio di Zaccheo, coniugando vangelo e vita reale, mostrando la preoccupazione preponderante per la nazione e per il popolo sofferente, propria di un profeta.

Walbert Buhlmann nel 1974 scriveva: «La Chiesa sta in funzione del mondo e non viceversa. Essa ha il dovere di domandarsi dove e come questo mondo è oscuro, fatiscente e senza salvezza e ha bisogno di essere aiutato. È quindi il mondo che stabilisce l’ordine del giorno. È a partire dai suoi bisogni che la Chiesa deve concepirsi come sacramento della salvezza. Questo mondo in fermento è il luogo teologico della Chiesa, non solo come punto finale, come partner a cui ella si rivolge, ma come elemento costitutivo in cui si attua il lieto messaggio del Vangelo». È un testo che spazza via ogni autoreferenzialità da parte della Chiesa, tema tanto caro a papa Francesco (EG nn. 8.28.95.173.263).

Il testo di Buhlmann fa parte di quella teologia che aspirava al rinnovamento della Chiesa e alla «trasformazione della Chiesa come compito e come chance» (Rahner), e che certamente ha avuto un ruolo importante nella formazione di Bergoglio che, da papa, ha superato le aspettative di chi provava ad «immaginare un sinodo annuale dei presidenti delle Conferenze episcopali continentali intorno al papa. Si tratterebbe di creare un gruppo di otto o dieci persone al massimo, cioè del numero ideale per un effettivo lavoro comune» (Ghislain Lafont, Immaginare la Chiesa cattolica, 1995, pag. 197 ).

Il linguaggio colloquiale: ecco un’altra difficoltà per alcuni. Se si leggono le encicliche di Benedetto XVI ci si accorge che proprio il teologo Ratzinger ha inaugurato quello stile. Certuni forse vorrebbero che si tornasse al “noi”.

Anticipazioni e convergenze
Tornando ai teologi a cui accennavo all’inizio, vorrei in modo rapsodico mostrare le anticipazioni e convergenze al contempo con quanto sta dicendo papa Francesco.

L’argomento richiederebbe ben altro spazio ovviamente: mi limiterò ad un raffronto con quanto va enunciando papa Francesco e quanto scriveva 50 anni fa Karl Rahner, che definì l’evento del Concilio «l’inizio di un inizio», una sorta di moto in continua espansione di una Chiesa attenta allo Spirito che spinge ad una riforma e ad un rinnovamento continuo.

Papa Francesco afferma: «Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (AL 3).

Posso ben immaginare le reazioni che dimenticano o ignorano quello che scriveva Rahner: «Si pensa erroneamente che il papa, qualora non voglia compromettere la sua autorità, debba comunque a brevissima scadenza o quanto meno in breve lasso di tempo, prendere una decisione dogmatica o morale su ogni problema affiorante sul tappeto; mentre, in realtà, tanto per fare un esempio, la cosiddetta questione della grazia che ai suoi tempi eccitava tanto gli animi, da Paolo V non è stato affatto decisa rimanendo aperta fino ai nostri giorni (La grazia come libertà, pag. 252 ).

Quando papa Francesco nel capitolo ottavo di AL (e non solo in esso) applica il paradigma misericordia (non certo in modo semplicistico, ma con i “piedi per terra”) alle situazioni concrete, c’è subito chi vede franare i fondamenti della morale, giungendo «a pensare che la Chiesa possa cambiare i principi dell’intera morale sessuale o i suoi ultimi fondamenti, semplicemente perché, nelle applicazioni concrete di tali principi, per il passato sosteneva (autoritativamente, ma non in maniera dogmatica e quindi definitiva) una concezione, che magari adesso va sottoposta a revisione…

La Chiesa non è affatto un blocco monolitico svettante sopra il tempo e sopra la storia, bensì un’entità genuinamente umana, sia pure fondata da Dio tramite la grazia di Cristo: un’istituzione destinata a portare il peso della storia, evolvendosi coraggiosamente nella sua concezione della fede e adottando coraggiosi cambiamenti nella sua vita pratica, proprio per restare sempre la perenne colonna della verità e lo spazio vitale dell’esistenza umana (Rahner, pagg. 351-352).

Francesco descrive un certo neognosticismo come «elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie per controllare… Ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (EG 94 e 47).

Non bisogna dimenticare che «la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che chiedono con cuore sincero… Sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 296).

Ecco cosa scriveva al riguardo Rahner: «Fra i cristiani c’è parecchio in voga l’idea che, dal lato cristiano, tutto sia in ordine quando la Chiesa non vi eleva contro un’apodittica protesta solennemente scagliata dal pulpito. Una mentalità del genere deve venire eliminata nella Chiesa mediante una paziente e perseverante istruzione. Questo imprescindibile dovere non può venire soddisfatto da una casuistica sempre più sottile, tendente a regolare tutto per via ufficiale fin nei minimi particolari concreti» (pag. 360).

Le circostanze attenuanti
Forti reazioni e dubbi si sono manifestati nei confronti di quanto Francesco afferma al n. 300 di AL: « Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi». Alla nota n. 336 aggiunge: «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che, in una situazione particolare, non c’è colpa grave». Apriti cielo! Eppure, è dottrina morale tradizionale quella delle circostanze attenuanti.

«La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da un’eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere i valori insiti nella norma morale o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa… Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare qualcuna delle virtù…, perché l’agire esterno di questa virtù trova difficoltà» (AL 301,302,303,304 ).

Ed ecco le affermazioni di Rahner al riguardo: «Non è detto che un’effettiva colpa sussista nel singolo individuo, allorché questa coscienza soggettiva viene messa a confronto con la dottrina ufficiale della Chiesa vista come autorità formalmente vincolante; no, perché pure in questo caso, nonostante nel soggetto esista un’intelligenza e un libero arbitrio di normale levatura, la facoltà morale di giudicare le cose (ossia la capacità di “di realizzazione” soggettiva) può lo stesso rimanere al di sotto dell’esigenza oggettiva, sebbene concettualmente l’esigenza oggettiva sia stata compresa a fondo e la basilare autorità della Chiesa non venga contestata… Molti incontrano il Signore già sulla piazza della vita quotidiana, quando sanno prestare ascolto disinteressatamente e sinceramente alla voce carica d’energia trasformatrice della loro coscienza, quantunque – data la situazione in cui versano – non siano ancora giunti a quella sacra mensa della Chiesa in cui il Signore celebra con noi la sua santa cena» (Rahner, pagg. 353-357 e 269).

Certo, gli scritti di Karl Rahner non sono magistero, ma quello dei teologi è pur sempre un “magistero” che, se interiormente orientato al sensus Ecclesiae, ha fatto e fa da propellente.

Rahner nel 1981 in una sua lettera mi ringraziava umilmente per aver idealmente scelto come maestro lui che in Italia, da un certo cardinale, era ritenuto un eretico. Mica solo allora: tuttora c’è chi pubblica libri per dimostrare la stessa cosa estrapolando dal contesto alcune sue frasi. Proprio come fanno con gli scritti di papa Francesco!

Concludo con una poesia di Lothar Zenetti:

– Chiedi a 100 cattolici. Quale è la cosa più importante della Chiesa? Risponderanno: la messa.

– Chiedi a 100 cattolici quale è la cosa più importante nella messa? Risponderanno: la mutazione (del pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo).

– Di’ allora ai 100 cattolici che la cosa più importante della Chiesa è la mutazione. Si infurieranno: No! Tutto deve restare com’è!

Per fortuna, a rendere più sereno l’orizzonte ci sono tutti gli altri che hanno la mente aperta e sanno ben distinguere la Tradizione dalle tradizioni e da sempre sognano una Chiesa che sappia presentarsi e trasformarsi «da museo a giardino».
(Fonte: Settimananews - 13 ottobre 2019)