La mia lettera ai fratelli musulmani:
denunciamo chi sceglie il terrore
di TAHAR BEN JELLOUN*
L'appello di Tahar Ben Jelloun. "Dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci contro Daesh". "Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri"
* TAHAR BEN JELLOUN è nato a Fès (Marocco) nel 1944, vive a Parigi. Scrittore, poeta, saggista, romanziere e giornalista, ha vinto il Premio Goncourt nel 1987. È noto in Italia principalmente per i suoi scritti sull'immigrazione e il razzismo.
Saint-Etienne-Du-Rouvray, fiori e preghiere
in memoria di padre Hamel (ansa)
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L'Islam ci ha riuniti in una stessa casa, una nazione. Che lo vogliamo o no, apparteniamo tutti a quello spirito superiore che celebra la pace e la fratellanza. Nel nome "Islam" è contenuta la radice della parola "pace". Ma ecco che da qualche tempo la nozione di pace è tradita, lacerata e calpestata da individui che pretendono di appartenere a questa nostra casa, ma hanno deciso di ricostruirla su basi di esclusione e fanatismo. Per questo si danno all'assassinio di innocenti. Un'aberrazione, una crudeltà che nessuna religione permette.
Oggi hanno superato una linea rossa: entrare nella chiesa di una piccola città della Normandia e aggredire un anziano, un prete, sgozzarlo come un agnello, ripetere il gesto su un'altra persona, lasciandola a terra nel suo sangue tra la vita e la morte, gridare il nome di Daesh e poi morire: è una dichiarazione di guerra di nuovo genere, una guerra di religione. Sappiamo quanto può durare, e come va a finire. Male, molto male.
Perciò dopo i massacri del 13 novembre a Parigi, la strage di Nizza e altri crimini individuali, siamo tutti chiamati a reagire: la comunità musulmana dei praticanti e di chi non lo è, voi ed io, i nostri figli, i nostri vicini. Non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che "questo non è l'Islam". Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l'Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non possiamo più salvare l'Islam - o piuttosto - se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l'Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l'Islam dalle grinfie di Daesh. Abbiamo paura perché proviamo rabbia. Ma la nostra rabbia è l'inizio di una resistenza, anzi di un cambiamento radicale di ciò che l'Islam è in Europa.
Se l'Europa ci ha accolti, è perché aveva bisogno della nostra forza lavoro. Se nel 1975 la Francia ha deciso il ricongiungimento famigliare, lo ha fatto per dare un volto umano all'immigrazione. Perciò dobbiamo adattarci al diritto e alle leggi della Repubblica. Rinunciare a tutti i segni provocatori di appartenenza alla religione di Maometto. Non abbiamo bisogno di obbligare le nostre donne a coprirsi come fantasmi neri che per strada spaventano i bambini. Non abbiamo il diritto di impedire a un medico di auscultare una donna musulmana, né di pretendere piscine per sole donne. Così come non abbiamo il diritto di lasciar fare questi criminali, se decidono che la loro vita non ha più importanza e la offrono a Daesh.
Non solo: dobbiamo denunciare chi tra noi è tentato da questa criminale avventura. Non è delazione, ma al contrario un atto di coraggio, per garantire la sicurezza a tutti. Sapete bene che in ogni massacro si contano tra le vittime musulmani innocenti. Dobbiamo essere vigilanti a 360 gradi. Perciò è necessario che le istanze religiose si muovano e facciano appello a milioni di cittadini appartenenti alla casa dell'Islam, credenti o meno, perché scendano nelle piazze per denunciare a voce alta questo nemico, per dire che chi sgozza un prete fa scorrere il sangue dell'innocente sul volto dell'Islam.
Se continuiamo a guardare passivamente ciò che si sta tramando davanti a noi, presto o tardi saremo complici di questi assassini.
Apparteniamo alla stessa nazione, ma non per questo siamo "fratelli". Oggi però, per provare che vale la pena di appartenere alla stessa casa, alla stessa nazione, dobbiamo reagire. Altrimenti non ci resterà altro che fare le valigie e tornare al Paese natale.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
(fonte: Repubblica 27/07/2016)