La «domanda» di Wiesel dai lager a Nizza
di Giorgio De Simone
Molti attacchi sono stati portati negli ultimi sessant’anni a Elie Wiesel, scrittore romeno (naturalizzato statunitense) ed eccezionale testimone dell’Olocausto, scomparso il 2 luglio scorso a 87 anni. L’ultimo è arrivato dal novantenne regista francese Claude Lanzmann (autore del film Shoah), il quale, subito dopo la scomparsa di Wiesel, ha accusato il grande scrittore di aver passato non più di tre-quattro giorni ad Auschwitz, il resto della prigionia avendolo trascorso «soprattutto a Buchenwald». In realtà, prelevato con il resto della famiglia dal ghetto di Sighet, in Transilvania, nel maggio 1944, Wiesel da Auschwitz fu mandato a Buna, un sottocampo di Auschwitz, e da lì, con il padre, in altri tre campi, fino a Buchenwald, dove, come la madre e la sorellina più piccola, il padre non sopravvisse. «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede», scrisse Wiesel nel suo libro più conosciuto, La notte.
Come ha detto Lucia Antinucci, dottore in teologia dogmatica, assumendo il dramma storico in tutta la sua crudezza, Wiesel «mette in crisi la realtà dell’Umanità». Se c’è stata alleanza, come per lui, ebreo, c’è stata tra uomo e Dio, quest’alleanza è stata tradita. L’uomo è certamente responsabile di tanto male, ma Dio è rimasto «indifferente», Dio non s’è visto. E tuttavia l’impiccagione di un ragazzino olandese di 13 anni che agonizza a lungo prima di morire, fa chiedere a tutti: «Dov’è Dio?». Ma ecco la risposta: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Dio si fa impiccare, si fa gassare. È la shekinah, ovvero la presenza nascosta, la luce nelle tenebre. Dio resta muto, ma piange i suoi figli. L’uomo soffre e Dio non può non soffrire con lui. Definita da Antinucci «narrativa teologica», tutta l’opera di Wiesel, romanzi, poemi, racconti, saggi, vario materiale ricavato dalla tradizione orale chassidica nonché la sua storia di internato scritta su esortazione di François Mauriac, porta in sé la domanda: «Dov’era Dio ad Auschwitz?». Domanda che, come una lama, ha attraversato il dopoguerra fino a noi. Domanda che sempre ci facciamo di fronte al dolore inspiegabile, alle morti inopinate, alle sciagure perenni.
Ciò che resta oggi di Wiesel sono la sua opera, il suo pensiero, la sua indefessa attività per i diritti umani, il suo premio Nobel per la pace nel 1986. E poco importa quanto sia stato ad Auschwitz, quanto a Buna, quanto a Buchenwald. La sua testimonianza, per chi la vuol vedere, è una pietra miliare. La sua fede uscita dal campo mutilata, colpita o, per dirla con una sua definizione recente, «ferita», diventa un archetipo che tutti ci riguarda, che riguarda questi nostri giorni dove se noi siamo qui, al riparo apparente, nelle nostre case, intorno a noi e ormai fin dentro l’Occidente sono guerre e sterminio, crudeltà e sevizie, migrazioni di disperati, follia distruttiva e disastri umanitari senza fine.
Non più Auschwitz, non più Buchenwald, ma campi di infelici che vivono in condizioni non degne abbondano anche sul territorio di questo nostro Paese che costituzionalmente si professa contrario a ogni guerra. Fede ferita, sì. Perché di quanto quotidianamente vediamo in Siria, Iraq e di recente a Dacca e a Nizza e l’altro ieri a Parigi e a Bruxelles e nei naufragi continui dove muoiono come mosche adulti e, soprattutto, bambini innocenti, c’è chi si chiede perché: perché Dio non apre la sua mano e ferma tutto questo come fermò il Mar Rosso davanti a Mosè?
Sono in tanti a chiederselo, sono in tanti a non trovare risposta.
Ma del resto ci può essere fede intatta, marmorea, inossidabile, inscalfibile? Ci può essere quando di tanti santi sappiamo le «notti dell’anima» che hanno attraversato? Ci può essere se lo stesso papa Francesco, come già Madre Teresa, ha voluto farci sapere che nemmeno lui si è potuto sottrarre alla tentazione del dubbio? Ci può essere se Gesù, sulla Croce domandò a suo Padre perché lo avesse abbandonato (Mt 27, 46) provando su di sé l’angoscia del Dio che non risponde? Lui, che era la Fede stessa?
(Fonte: “Avvenire” del 20 luglio 2016)