I valori non si fabbricano
e le sfide vanno comprese
Ricominciamo la foresta
di Luigino Bruni
“Ovunque nel mondo, gli esseri umani desiderano la stessa cosa: essere riconosciuti con dignità per quel che sono e quel che fanno. Le imprese come la nostra si trovano nella condizione ideale per soddisfare questo desiderio” (Robert H. Chapman).
La cultura delle grandi imprese sta occupando il nostro tempo. Le categorie, il linguaggio, i valori e le virtù delle multinazionali stanno creando e offrendo una grammatica universale adatta a descrivere e produrre tutte le storie individuali e collettive ‘vincenti’. Così, nel giro di pochi decenni la grande impresa da luogo principe dello sfruttamento e dell’alienazione è divenuta icona dell’eccellenza e della fioritura umana. In un tempo come il nostro, quando le passioni collettive sopravvissute dal Novecento sono quelle tristi della paura e dell’insicurezza e dove regnano sempre più incontrastate le passioni dell’individuo, la cultura prodotta e veicolata dalle imprese globali è lo strumento perfetto per incarnare e potenziare lo spirito del tempo. Niente, infatti, come l’azienda capitalistica è capace oggi di esaltare e potenziare i valori dell’individuo e le sue passioni.
In un tempo come il nostro, quando le passioni collettive sopravvissute dal Novecento sono quelle tristi della paura e dell’insicurezza e dove regnano sempre più incontrastate le passioni dell’individuo, la cultura prodotta e veicolata dalle imprese globali è lo strumento perfetto per incarnare e potenziare lo spirito del tempo. Niente, infatti, come l’azienda capitalistica è capace oggi di esaltare e potenziare i valori dell’individuo e le sue passioni.
Ecco allora che le parole del ‘business’ e le sue virtù stanno diventando le buone parole e le virtù dell’intera vita sociale: nella politica, nella sanità, nella scuola. Merito, efficienza, competizione, leadership, innovazione, sono ormai le uniche parole buone di tutta la vita in comune. In mancanza di altri luoghi forti capaci di produrre altra cultura e altri valori, le virtù delle imprese si presentano come le sole da riconoscere e coltivare fin da bambini. Le imprese fanno spesso cose buone, ma non possono né devono generare tutti i valori sociali né l’intero bene comune. Per vivere bene c’è bisogno di creazione di valore diverso dal valore economico, perché esistono valori che non sono quelli delle imprese e il bene comune è eccedente rispetto al bene comune generato dalla sfera economica.
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C’è una grande responsabilità oggettiva della società civile che non riesce più a creare sufficienti luoghi extra-economici capaci di generare nei giovani e nelle persone altre virtù diverse da quelle economiche. La scuola, ad esempio, dovrebbe essere insieme alla famiglia il principale contrappeso della cultura aziendalista, perché è proprio della scuola insegnare nei bambini e nei giovani soprattutto le virtù non utilitaristiche e non strumentali, che valgono anche se (o proprio perché) non hanno un prezzo. E invece stiamo assistendo in tutto il mondo ad una occupazione della scuola da parte della logica e dei valori dell’impresa (merito, incentivi, competizione …), dove dirigenti, docenti e studenti vengono valutati e formati ai valori delle imprese. E così applichiamo l’efficienza, gli incentivi e il merito anche nell’educazione dei nostri figli e nella gestione delle nostre amicizie (basta frequentare i paesi nordici dove questo processo è più avanzato, e vedere come si stanno trasformando in questo senso anche vita comunitaria, relazionale e amicizia).
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Ieri, oggi, sempre, ci sono virtù essenziali alla buona formazione del carattere delle persone, che vengono prima delle virtù economiche e di quelle dell’impresa. La mitezza, la lealtà, l’umiltà, la misericordia, la generosità, l’ospitalità, sono virtù pre-economiche, che quando sono presenti consentono anche alle virtù economiche di funzionare. Si può vivere anche senza essere efficienti e particolarmente competitivi, ma si vive molto male, e spesso si muore, senza generosità, senza speranza, senza mansuetudine.
In un mondo occupato dalle sole virtù economiche, come rispondiamo alle domande: ‘che ne facciamo degli immeritevoli?’, ‘che fine fanno i non-eccellenti?’, ‘dove mettiamo i nonsmart?’. Non tutti siamo meritevoli allo stesso modo, non tutti siamo talentuosi, non tutti siamo capaci di ‘vincere’ nella competizione della vita. Il mercato e l’economia hanno le loro risposte a queste domande. Nei mercati chi non è competitivo esce, nelle aziende di successo ‘chi non cresce è fuori dal gruppo’. Ma se la sfera economica diventa l’intera vita sociale, verso dove ‘escono’ i perdenti delle competizioni, quale ‘fuori’ accoglie chi non cresce o cresce diversamente e in modi che non contano per gli indicatori delle performance aziendali? L’unico scenario possibile diventa così l’edificazione di una ‘società dello scarto’. Restiamo persone degne anche quando siamo o diventiamo immeritevoli, inefficienti, non competitivi. Ma questa dignità diversa la nuova cultura dell’impresa non la conosce. Le virtù economiche e manageriali nei lavoratori hanno bisogno di altre virtù che le imprese non sono capaci di generare. Le virtù economiche sono autentiche virtù se e quando accompagnate e precedute dalle virtù che hanno nella gratuità il loro principio attivo.
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