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sabato 2 gennaio 2016

"Stile, semplicità, speranza" di Brunetto Salvarani - Le tre S di Papa Francesco

Stile, semplicità, speranza 
di Brunetto Salvarani

Tempi curiosi (e paurosi), quelli che stiamo attraversando in questo primo scorcio di giubileo della misericordia e ultimo dell’anno del Signore 2015. 
Tempi in cui dobbiamo ammettere paradossalmente, ad esempio, che la figura di papa Francesco sta incontrando un favore maggiore all’esterno dei tradizionali recinti cattolici, più che all’interno; mentre il successo popolare che indubbiamente riscuote – lo mostrano le inchieste specializzate al riguardo – non si traduce in una più elevata fiducia nell’esperienza ecclesiale (tutt’altro, si direbbe). 
A partire da questo sfondo, può essere interessante domandarsi quali siano gli elementi della fede cristiana che, rispecchiati in Bergoglio, ricevono oggi un particolare consenso diffuso. Mi limito, qui, a elencarne tre, che – curiosamente e casualmente – hanno tutti per iniziale una esse. Ecco, dunque, beninteso a insindacabile parere di chi scrive, le tre esse del messaggio cristiano di cui in giro si sente maggiormente il bisogno. 
Il cristianesimo come stile. Partiamo, dunque, con la prima esse, legata alla parola stile. Ciò che colpisce, in papa Francesco, sin dal suo apparire al balcone di San Pietro quel 13 marzo di due anni fa (e sembra molto tempo di più!), è infatti lo stile: quello con cui interpreta il suo ruolo quasi non fosse un ruolo. Da questo punto di vista, un’ottima intuizione l’ha avuta il teologo Cristoph Theobald quando parla di cristianesimo come stile.(1) Perché ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri narrati nei vangeli è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, situata alla fine del regime di cristianità – possono essere lette come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto. Da parte sua, Jorge Mario Bergoglio ha ormai quasi quattro volte vent’anni, ma riesce a vivificare la sua età avanzata con una fede, un entusiasmo e una capacità di sognare a occhi aperti che lo rendono più giovane e fresco di tanti che lo sono anagraficamente. Egli si trova oggi a governare una Chiesa attraversata da una gravissima crisi di credibilità, ma anche da un vistoso deficit di motivazioni, soprattutto nei paesi di antica cristianità, in cui la stanchezza troppo spesso diventa tristezza e dunque sconfessione dell’allegria evangelica e di quella testimonianza gioiosa che dovrebbe sgorgare dall’adesione al Signore. È significativo ma per nulla casuale, allora, che, prima ancora di ascoltare i suoi discorsi o valutare le sue riforme strutturali, si guardi al suo esempio: a come vive, si muove, abbraccia le persone, parla, presso chi si ferma durante le udienze pubbliche, e a come esce, per riprendere un verbo a lui caro. 
E a questo stile è lecito collegare la seconda esse, quella di semplicità. Di fronte a un mondo sempre più complesso (e complicato), Francesco sta proponendo l’unica strada credibile per la sua comunità, chiedendole di imboccare la via della semplicità, senza soffermarsi sulla moltiplicazione delle strutture e delle opere. Questa, del resto, è probabilmente la sua prima riforma, credo pienamente riuscita. Riforma, infatti, è ablatio, togliere via, non aumentare né complicare, ma semplificare: un’operazione analoga a quella dello scultore chiamato a togliere dalla pietra nuda per far emergere la nobilis forma che vi è contenuta. Il profumo del vangelo (Evangelii gaudium 34) si diffonde esclusivamente grazie all’essenzialità, alla sobrietà, alla povertà. E l’unico criterio di semplicità, per un cristiano, è il vangelo, nulla di più. 
Con gli occhi di Gesù. 
L’ultima esse, se vogliamo conseguente alle precedenti, è quella della parola speranza. Non solo alla luce degli attentati di Parigi di metà novembre, ci siamo accorti che la nostra terra è improvvisamente rimpicciolita e divenuta piatta, siamo dominati da sensazioni d’insicurezza e di rischio, mentre il futuro, da promessa, si è convertito in minaccia.(2) È il tempo, si sente ripetere con ottime motivazioni, delle passioni tristi.(3) E parecchi di quei profeti di sventura apertamente deprecati da Giovanni XXIII nel discorso d’avvio al concilio, l’11 ottobre 1962, hanno ripreso fiato, loro o i loro epigoni, rilanciando con fortuna il mantra di una lettura del reale schiacciata sull’inevitabile apocalisse. Di un mondo ecologicamente irrisolto, e irrimediabilmente votato alla catastrofe. In un quadro simile, risulta ora estremamente faticoso, per chi è intellettualmente onesto, praticare la virtù autenticamente cristiana e teologale della speranza; e immaginare il futuro di Dio, cioè il compimento nella creazione e nella storia delle sue promesse, la fine di questo tempo corrotto dal peccato e dalla morte, dall’ingiustizia e dalla violenza. Si può tornare a essere produttori di speranza solo riprendendo a guardare questo pianeta con gli occhi di Gesù: che non vi vedrebbero, stando alla narrazione evangelica, solo degenerazione, declino, catastrofi, come di regola, appunto, fanno tutti i profeti di sventura; ma germi di utopia possibile, fatiche da accompagnare amorevolmente, storie di ricerca di senso nei piccoli eventi di ogni giorno. 
Rendere ragione della speranza. 
Da qui, per concludere, l’invito ai cristiani a farsi compagni della gente e dei suoi problemi, anche per essere colti finalmente dall’opinione pubblica come persone capaci di instaurare amicizia. In questa direzione, del resto, si pone chiaramente l’esortazione postsinodale Evangelii gaudium: «… nel nostro rapporto con il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: “sia fatto con dolcezza e rispetto” (1Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di vincere “il male con il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene” (Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando “gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Di fatto, gli apostoli del Signore godevano “il favore di tutto il popolo” (At 2,47; cf. 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come uomini e donne del popolo» (EG 271). Al riguardo, una delle voci più significative della teologia cattolica odierna, il domenicano inglese Timothy Radcliffe, a buon diritto sostiene che – se si vuole che il cristianesimo continui a vivere e a crescere, fedele alla storia, ai segni dei tempi e proiettato nel XXI secolo – occorre evitare due tentazioni. Da una parte, quella di rinchiudersi in un ghetto, e cercare di ricreare la cultura cattolica del passato, ormai perduta; dall’altra, quella di assimilarsi passivamente alla società, succubi di una cultura ormai definitivamente secolarizzata. Piuttosto, «dobbiamo stare con le persone, condividere i loro problemi, porci al loro fianco in ascolto del vangelo e degli insegnamenti della Chiesa, e solo allora potremo andare a scoprire insieme una parola che deve essere condivisa». Del resto, «quello che noi abbiamo da dire acquista un senso solo nel contesto di una relazione d’amicizia» (p. 34).

(1) Theobald C., Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, voll. I-II, EDB, Bologna 2009. 
(2) Cf., fra i tanti testi citabili sull’argomento, M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Eleuthera, Milano 2009. 
(3) Benasayag M. - Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004. 
(4) Radcliffe T., Essere cristiani nel XXI secolo. Una spiritualità per il nostro tempo, Queriniana, Brescia 2011, p. 35. 
(5) Settimana chiude e questo è l’ultimo mio articolo su queste pagine, scritto con un groppo in gola, ma non finisce qui il mio ringraziamento per i padri dehoniani con cui ho avuto il piacere di collaborare a lungo, in particolare i tre direttori e il carissimo caporedattore. Il mio primo pezzo per Settimana usciva il 25/11/1984, era il n. 43, e s’intitolava “…Imperi dal nemico facile”, nihil sub sole novi. Avevo ventotto anni, e credo di essere cresciuto anche grazie a questo piacevole impegno, che spero di aver onorato a dovere. Con un grande abbraccio a tutti i lettori e le lettrici!
(fonte: “Settimana”, n. 44 del 13 dicembre 2015)