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martedì 15 aprile 2014

A tre anni dalla morte di Vittorio Arrigoni



A tre anni dalla morte di Vittorio Arrigoni
di don Giorgio De Capitani

Certo, non dobbiamo aspettare gli anniversari per ricordare coloro che, senza alcuna bandiera politica o religiosa, accomunati solo da grandi ideali che hanno un identico nome: Umanità, hanno dato la loro vita, sapendo i rischi e affrontandoli giorno dopo giorno, per far valere ciò che è giusto per ogni essere umano, indipendentemente dalla razza o dalle credenze religiose. E questi esseri umani da difendere non hanno quei diritti che solo la forza fa prevalere sui più deboli. Ha ragione Simone Weil: i diritti sono dei più forti, e solo con la violenza costoro ottengono ciò che vogliono. La parola diritto andrebbe sostituita con la parola dovere, se intendiamo ciò che è giusto per l’essere umano. Un discorso da dare, ma che ci porterebbe lontano, tanto lontano quanto è la concezione che ancora oggi si ha di diritto e di dovere.
La sera del 14 aprile 2011 Vittorio Arrigoni, originario di Bulciago (Lecco), veniva rapito a Gaza, in Palestina, e la notte tra il 14 e il 15 veniva ucciso. Non voglio entrare nella intricata questione del rapimento: chi l’ha rapito e poi ucciso e per quali motivi? Forse una ragione c’è e, conoscendo i veri moventi interiori di Vittorio per il suo ostinato e indefesso impegno per la causa palestinese e non solo palestinese, non ho timore a dire che, come solitamente capita a chi difende la giustizia, ma senza dividerla ideologicamente, egli si è trovato come tra due o più fuochi, anche all’interno dei sostenitori della causa palestinese. La rabbia porta alla cecità, e la cecità conduce alla violenza fine a se stessa. Gli estremismi non hanno mai portato qualcosa di buono. Anzi, fanno sì che chi ha ragione passi dalla parte del torto. Ed è qui, in questo gioco perverso di chi vuole prevaricare sulla giustizia e di chi si ribella senza sapere che cos’è la giustizia, che i giusti – nel senso più genuino e più nobile del termine giusto – la pagano caramente, perseguitati dai primi, gli oppressori, e vituperati dai secondi, gli oppressi. 
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Certo, per me, davanti al computer di casa, lontano dai pericoli, è facile scrivere queste cose, tuttavia sarebbe anche facile scrivere il contrario; ma lottare sul posto, agire ogni giorno tra gente disperata, senza saper distinguere con chiarezza i torti e le ragioni degli uni e degli altri – i caporioni se ne stanno nei palazzi ben protetti e mandano in avanguardia dei poveri cristi, addestrati a non pensare – diventa un dramma interiore per chi ama la giustizia, ma ha davanti a sé bambini che piangono e muoiono sotto le bombe o poveracci costretti dalla fame a dover affrontare pericoli d’ogni genere. Il rischio c’è che si perda la lucidità di giudizio.
Dire, come solitamente si dice di ogni eroe, che Vittorio Arrigoni è stato un ragazzo coraggioso a cui piacevano i rischi, e che rifletteva tanto quanto bastava a scegliere il da farsi per difendere questo o quello, non mi pare rispettoso del suo animo interiore.
Se è vero che lui ha scelto concretamente di stare da una parte, quella palestinese, lo ha fatto perché per lui i palestinesi in quel momento erano i più deboli, martoriati dalla prepotenza d’Israele, ma il suo vero dramma, oltre a vedere la sofferenza fisica e morale di una popolazione ridotta agli estremi, è stato anche quello di capire le vere ragioni della giustizia, che tradotta in poche parole significa: come uscire dal cerchio maledetto, senza doversi ammazzare a vicenda, e senza prevaricare oggi in un modo e domani in un altro.
Credo che Vittorio Arrigoni riflettesse seriamente su queste cose. Come se la prendeva per i soprusi da parte d’Israele, così se la prendeva anche nel vedere che il suo popolo palestinese non era difeso nel modo “giusto”. Vedeva, e soffriva nel constatare ogni giorno quanto i capi fossero anch’essi corrotti e lontani dai nobili ideali di Umanità.
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A rimetterci è sempre la giustizia, e se i giusti stanno dalla parte dei più deboli, lo fanno con la speranza che un domani non diventino come i più forti di oggi.
Carissimo Vittorio, il mio ricordo è questo vivo desiderio: che la tua tragica morte non sia stata inutile e che ci stimoli sempre a riflettere sulla vera giustizia, in nome della quale si è liberi di agire, di lottare e di soffrire al di là di ogni fazione politica o religiosa. Che cosa è giusto? Che cosa non è giusto? Che cos’è il diritto e che cos’è il dovere? Forse neppure tu avevi risposte chiare, ma sta proprio qui la tua grandezza d’animo come di chi cerca, lotta, soffre tra dubbi e qualche certezza, senza farne una questione solo teorica, ma guardando in faccia ogni giorno la realtà. Ogni ferita del corpo è una ferita dell’anima. L’anima si guarisce guardando oltre, là dove l’Umanità affratella, armonizzando diritti e doveri, con una sola parola: Amore.


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