In termini di devastazione e di morte, la catastrofe delle Filippine rimanda ai giorni terribili dello tsunami di nove anni fa nel Sud dell’Asia. Ma lì c’era il turismo, ci furono molte vittime europee e americane, l’impatto mediatico in Occidente fu enorme e duraturo, negli anni successivi su quell’onda spaventosa vennero scritti libri, girati film.
Nelle Filippine invece ci sono “solamente” i filippini, pochissimo turismo, ed è assai possibile che in pochi giorni il tifone Hayan diventi, da questa parte del mondo, solamente un ricordo da archiviare. A meno che – accadono anche i miracoli – si allarghi il piccolo grande varco che alcuni media hanno aperto sulla numerosa, silenziosa, discretissima comunità filippina in Italia. Persone che lavorano tanto, parlano poco, puliscono le nostre case, badano ai nostri vecchi e alle quali in questi giorni molti domandano, spesso per la prima volta, notizie di casa loro, delle loro famiglie lontane, delle loro case forse scoperchiate, di una città cancellata dal vento, come se solo nell’emergenza ci accorgessimo che le persone sono sempre persone, le case sempre case, le vite sempre vite.
(fonte: L'amaca di Michele Serra - “la Repubblica” 12 novembre 2013)
... In presenza di eventi drammatici come il passaggio di un tifone, un terremoto, uno tsunami, non ha senso distinguere tra popoli di serie A e serie B. «Ogni uomo è mio fratello», tuonava Raoul Follereau decenni fa. Tuttavia, per le ragioni dette poc’anzi, è evidente che il disastro di Tacloban ci interpella in modo particolare, come qualcosa che ci riguarda da vicino. E ci deve muovere, oltre che a un abbraccio nella preghiera, a una solidarietà concreta e persino straordinaria.
Non soltanto a motivo dell’entità dell’accaduto, che pure fa tremare i polsi (620 mila sfollati, senza accesso a cibo, acqua e medicine, 9,5 milioni di persone colpite dall’emergenza umanitaria, di cui 4 milioni di bambini). Ma anche per quello speciale filo rosso che lega i destini di noi italiani (missionari compresi, alcuni dei quali hanno dato la vita del popolo delle Filippine) e gli abitanti di quelle isole. Così lontane, e da ieri, così improvvisamente vicine.
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... Papa Francesco è spiritualmente e concretamente al fianco delle popolazioni messe in ginocchio dalla terribile tempesta. E le sue ripetute esortazioni («preghiamo per questi nostri fratelli e sorelle e cerchiamo di far giungere ad essi anche il nostro aiuto concreto», aveva detto all’Angelus) sono state prontamente raccolte.
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Cosa fare, ma ancora prima, cosa pensare... O forse nemmeno a pensare si riesce. Dove, come organizzare una riflessione? Forse più giù nella gola o dove si forma il magone, nel cuore, si riesce a muovere qualcosa che non sia solo un atterrito guardare. Cosa fare o pensare dinanzi alla immane catastrofe di Tacloban, dove cause naturali, inadempienze e disattenzioni portano morte e panico in mole così sterminata? Ci sono modi diversi di reagire. Ci sono modi diversi di affrontare quanto accade, specie quando accadono cose, come questa, nelle Filippine, che colpiscono l’attenzione di tutti. Sì, ci sono tanti modi. Ma quello più giusto è chiedersi: e ora quale è la mia parte? In questo teatro strano e drammatico che è il mondo quale è la mia parte?
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