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sabato 17 aprile 2021

Scuola: le sfide da affrontare per un nuovo cammino.

Scuola:
le sfide da affrontare per un nuovo cammino.
di Ivo Lizzola


Per ritrovare la scuola nei mesi segnati dalle ondate della pandemia ci si è dovuti cercare. Gli insegnanti, i dirigenti han dovuto cercare allievi e allieve, contattare famiglie, far giungere strumenti ed informazioni. Han dovuto cercare forme, proposte e organizzazioni, molti han cercato nuove didattiche. Han dovuto cercare nuova forza e rinnovate motivazioni. Mentre le loro stesse vite erano provate da lutto o da incertezze, ridisegnate nelle relazioni e nella cura.
Gli allievi e le allieve, gli studenti han dovuto cercare la scuola, i loro compagni, gli insegnanti. Han dovuto cercarli, connettersi, esporsi. E farsi trovare: bisognava in questo un po’ volerlo e un po’ cercare forza, e senso. Non era semplice nella prova, nell’incertezza, e messi allo scoperto da timori e senso di vuoto.
Ci si è dovuti cercare: e a volte non ci si è trovati. Perché qualcuno si è sottratto, o non aveva strumenti e possibilità; o perché la vita aveva ferito o schiacciato. Ma altre volte ci si è trovati: ed è stata scuola.
Certamente la scuola si è riscoperta un luogo di incontro e di rielaborazione di vissuti, di valore particolare se questi sono stati destabilizzati. Li si può accogliere in narrazioni dirette; e li si può “incontrare” attraverso l’accostamento di opere letterarie, di riflessioni culturali; o nell’impegno di un progetto, nell’affrontare questioni, nel ridisegnare problemi.
Una difficile danza di relazioni e reciprocità, di disponibilità e di responsabilità, di interazioni e servizi resi, cooperazioni ha accompagnato in qualche territorio e città questa scuola cercata. Tra momenti comuni, inventati tra presenza e distanza, rielaborazioni personali solitarie; e poi di nuovi confronti, integrazioni e approfondimenti.
Un decisivo e attentamente curato rinvio continuo tra lavoro di studio, ricerca attorno a oggetti culturali su problemi e linguaggi e lavoro riflessivo su di sé, sul vissuto personale, sulla assunzione del proprio compito di crescita, di sviluppo. Nella consapevolezza, chiara negli insegnanti e da fare sbocciare negli allievi, che raccogliere in noi una questione (un oggetto di studio, un problema, …) è sempre accogliere anche la sua carica e attesa di senso, l’avventura dell’umano che in questa si gioca; è raccogliersi in essa. Entrarci, divenendone in qualche modo parte.
Per anni si dovranno fare i conti con memorie e vissuti destabilizzati, sostenendo nel tempo anche soglie di sofferenza personale e sociale. Cosa ben conosciuta da chi si trova nelle periferie sociali ed esistenziali a provare a fare scuola da sempre.

La didattica a distanza ha “messo a nudo” la scuola. A più livelli. In primo luogo ha mostrato quale e quanta scuola si è preoccupata di restare presente e significativa nelle vite e nelle storie dei minori, e degli adolescenti. Sentendo responsabilità, cura, attenzione. In secondo luogo la scuola è entrata nei tempi e negli spazi (nelle case) di vita degli allievi: è diventata visibile, si è mostrata e proposta sotto gli occhi di allievi e familiari. A volte restando densamente impermeabile e cieca nella sua autoreferenzialità, a volte proponendosi come luogo di riflessione, ricerca, co-formazione, “utilizzando” discipline e linguaggi per leggere ed elaborare quanto la vita “imponeva”. In terzo luogo la distanza ha chiesto attenzione, una ad una, per le condizioni e le storie di allieve ed allievi, oltre le generiche retoriche inclusive. Ha chiesto alleanze sensibili con famiglie così diverse, e diversamente attrezzate, e diversamente provate.

Ritrovare nelle tecnologie, nelle loro potenzialità e nei loro limiti una via per “tenersi in contatto”, per affinare attenzioni e linguaggi, le può fare invece “riscoprire” criticamente. Ma è la presenza che va ricercata: la scuola telematica non è scuola.
La scuola, scrive l’ottimo Fulvio De Giorgi, si costruisce attorno a “diritti pedagogici”: quello all’attivazione, all’osservazione, alla partecipazione; quello alla maturazione, alla rimotivazione, alla valorizzazione delle potenzialità ed al sostegno interattivo nelle difficoltà; quello alla capacità cooperativa, al senso critico, all’esperienza di dialogo e di ricerca; quello all’esercizio di responsabilità, di servizio, di progettazione. Occorrerà ripraticare tutto questo, in presenza responsabile, e in distanza; con esposizioni condivise e sensate. Nei luoghi diversi d’una scuola più diffusa nella comunità e nei suoi tempi, nei suoi vissuti concreti, collegati al mondo.

Le modalità virtuali potranno restare come integrative anche nei mesi a venire.
Ma servirà una rinnovata, o nuova, alleanza tra adulti.
Nella pandemia l’esperienza della conoscenza si deve ridisegnare e non solo perché il conoscere come (solo) operare una presa di controllo conoscitivo e tecnico sul mondo è passato nel fuoco della crisi risultando demitizzato. Riemergendo come luogo di confronto con il limite e come luogo di posizionamento in responsabilità.
Conoscere è domanda e accoglimento, coltivazione del senso, del riguardo, del mistero, conoscere è umiltà di un pensiero che osa cercare, e lo fa senza presunzione e rigidità. Conoscere (nella fatica, nel riguardo cui la distanza conduce, nella prova, ..) soprattutto è (ri)diventato co-naissance, esperienza di co-nascita, tra adulti e minori, e tra loro e la realtà, il mondo. Potremmo sottoscrivere quanto sostiene l’allievo di Paul Ricoeur, Philippe Secretan: “Il senso è la relazione di co-nascita/conoscenza (co-naissance) attraverso la quale il mondo diventa umano e l’essere umano familiare con il mondo”. Per via formativa e co-formativa, che è via pratica di esercizio di convivialità, si apprende l’umano, e la nonviolenza.
Preadolescenti e soprattutto adolescenti protagonisti quindi responsabili del loro tempo, del cammino della loro comunità. In una scuola che fa dell’apprendimento-servizio (il service learning per dirla all’inglese) una cultura diffusa, non solo una strategia didattica. E lo affianca a pratiche costanti di tutorato e di educazione tra pari.
Da qualche tempo si sta facendo strada una proposta (vedi gli interventi di Luigi Bobba su Avvenire) di alternanza scuola-servizio civile, rivolta in particolare a ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni. Punta a impegnare tutti i giovanissimi che frequentano la scuola superiore e la formazione professionale per almeno due mesi nell’anno, in un servizio volontario e di utilità sociale presso servizi ed enti del terzo settore nel
quadro di politiche e progettualità sociali. Esperienze di educazione civica sul campo: un modo per qualificare e per rafforzare l’appartenenza alla comunità, per coltivare competenze, saperi e sensibilità nel campo dell’organizzazione della convivenza e delle sue istituzioni e servizi.
Esperienze di cittadinanza attiva e matura; esperienze di formazione ed apprendimento; percorsi di tirocinio in équipes di lavoro di ricerca e di promozione sociale.
Una alternanza da inserire nel curriculum delle giovani e dei giovani, con l’acquisizione non solo di crediti formativi ma anche di orientamenti verso la scelta di un Servizio civile europeo da scegliere, maggiorenni, alla conclusione dei percorsi di formazione, con riconoscimento, professionalizzante, svolto nei luoghi della tenuta sociale, della ricerca, della impresa civile, delle organizzazioni non governative, della cura dei beni comuni e di quelli ambientali.
Fasce d’età numericamente minoritarie e più deboli di quelle adulte e anziane potrebbero, così, avere da un lato luoghi di presenza, proposta e pensiero non marginali; potrebbero, poi, in questo modo orientare un mondo dei saperi e dei poteri che è prevalentemente in mano ad over 40/50 verso attenzioni e pensieri di futuro. Verso il rispetto dei cosiddetti “diritti intergenerazionali”.

Sapere è cambiare, cambiare conoscendo. Oggi è importante ritrovarsi arginando solitudini e abbandoni; tenere, grazie alla scuola, ragazze e ragazzi in contatto tra loro. Portarli a star bene con la letteratura, la matematica, l’arte, facendoli uscire, rendendoli protagonisti del capire e del cercare, dello scoprire e dello scegliere. Scoprendo parti di sé per “rimbalzo culturale” come indica Franco Lorenzoni. Ed anche per un lavoro in una comunità di apprendimento che avvia periodicamente percorsi di servizio di alternanza non solo scuola-lavoro ma anche scuola-servizio.

Un luogo, la scuola, in certo modo di “resistenza” umana, di incontro e dialogo dialogale, ma anche di desiderio: desiderare come immaginare insieme, creare, pensare insieme e dedicarsi a ciò che vale. Oggi bambine e ragazze, bambini e ragazzi hanno un grande bisogno di confrontarsi con grandi temi, profondi e difficili, di sostare nelle domande e di approfondire. Non di recuperare contenuti e programmi ma di fare meno e andare in profondità con la riflessione e il confronto. Occorre pensare bene e trovare gli oggetti culturali per questo tempo, scandagliare memorie e patrimoni, da scambiarsi, da indagare. Tutti siamo educati dalla vulnerabilità, da un sapere amante e responsabile, da capacità di tenere coprogettazioni e interazioni aperte e generative.

Il diritto alla crescita, al futuro, alla compagnia tra generazioni vale più del diritto allo studio. Fare sentire il legame tra generazioni e diversità; fare sentire l’aperto del possibile, della vita; fare andare nel profondo delle radici dell’origine, delle realtà; far sentire le consegne ricevute insieme alle capacità: questa l’acqua dell’oasi, necessaria per il cammino.

Esposti, come dice Julia Kristeva, a processi di dis-oggettivazione molte e molti adolescenti derivano verso incapacità di legami, di risonanze dell’incontro con altri, di pensare di lasciare segni insieme ad altri. Forme di un nuovo, profondo e silenzioso nichilismo.
L’incontro reale e forte con la diversità adulta con quella di coetanei delle vite senza riparo ed esposte può provocare, anche a scuola un benefico “urto” con il tempo presente, con il tempo altro, con sogni incastonati nelle memorie, e immaginazioni di futuro. Urto e pratica di parole, scelte, sperimentazioni di “inattualità” e creativo anacronismo, di partecipazione, dedizione, senso di consegne ricevute. Essere a cuore e, criticamente, a distanza dal proprio tempo.
Vi sono, poi, questioni aperte dell’umano che, di generazione in generazione, scavano e riconfigurano l’umano stesso perché lì si sente, insieme, il vuoto e l’aperto, l’appoggio e il mistero. Realtà e questioni non “saturabili” con il definire, lo sciogliere spiegazioni, il prendere controllo con concetti e formalizzazioni, lo specialismo delle riduzioni. Di generazione in generazione ci si ritrova a confrontarsi, ad incontrare, a vivere la realtà e la questione delle sofferenze, del dolore e della morte. E ci si trova a sentire la forza e la tenerezza delicatissima del dono, della cura e dell’more. Questioni, queste, sui confini delle quali si segnano le ferite della distanza e dell’abbandono e le fioriture del per dono e dell’offerta. “Insaturabile” è anche la realtà, e la questione, della bellezza, della danza e del cantico della natura, vivente e inorganica. E lo è pure la meraviglia
del nascente e di ogni inizio, l’aprirsi di a venire in ogni rigenerazione.

Incontrarsi, tra generazioni, “facendo” l’esperienza della scuola, in momenti riflessivi e di ascolto, di parola, di silenzio, di visone attorno all’insaturabile può permettere di attrezzarsi a stare nella vulnerabile nudità dell’umano, e di resistere quando il tempo erode il sentire fino all’anestesia e sfilaccia le relazioni nello scetticismo cinico e nella sfiducia. Maria Zambrano parla di momenti in cui occorre “trovare la misura del
proprio esistere (…) la direzione e il ritmo del proprio camminare nel tempo”.
Scrive Francesco, papa, del bisogno “di una rinnovata stagione di impegno educativo, che coinvolga tutte le componenti della società, poiché l’educazione è il naturale antidoto alla cultura individualistica, che a volte degenera in vero e proprio culto dell’io e nel primato dell’indifferenza. Il nostro futuro non può essere la divisione, l’impoverimento delle facoltà di pensiero e d’immaginazione, di ascolto e di dialogo, di mutua comprensione”. (Discorso al Corpo Diplomatico – marzo 2021) Chi fa scuola oggi assume una precisa responsabilità – sia verso una memoria, una storia, soprattutto verso un futuro di altri: della generazione, che assume il proprio compito di sviluppo, e proverà a “rimettere al mondo il mondo” usando un’espressione di Maria Zambrano.
Porre al centro la questione generazionale, riscoprendo che educare è sempre accompagnare ad immaginare e ad aprire un futuro possibile, nel quale sapere scegliere tra possibile e possibile, è entrare in un radicale cambio di paradigma. Non più un impegno, rivolto a singoli, di una trasmissione di saperi e strumenti, di abilità e competenze per entrare in una dinamica di soci che condividono interessi, innovano, si confrontano e competono, che conquistano spazi di autodeterminazione, di potere, di ricchezza e di fruizione, e affermano e contendono diritti. Bensì un impegno nuovo (e antico) volto a promuovere riconoscimento e legame, relazione e interazione tra sguardi, saperi e competenze in un orizzonte fraterno e per un orizzonte di vita comune, di vita messa in comune. Riscoprendo memorie cariche di sogni di coltivazione e di giustizia, saperi e patrimoni simbolici capaci di incontro e di dignità della differenza, pratiche e riconoscimenti di diritti nati da obbligazioni e destinazioni.
Segni del bisogno, ora primario, di una amicizia sociale capace di assumere e attraversare conflitti, sofferte ricomposizioni e rigenerazioni di legame; oltre che di offerte di futuro. Bisogno verso cui si vanno orientando filoni di ricerca delle scienze umane e sociali. Bisogno espresso da arti e filosofia. Ricerca che può ben trovare riverberi in un lavoro educativo e formativo al cuore di comunità in cui pulsa ormai il mondo intero: con il senso umile e concreto dell’artigianalità, la necessità di riscoperte continue. Da svolgere mentre le comunità speriamo vivano una stagione di generosità che è anche perdono, di ricostruzione quotidiana del legame in “oasi di fraternità” (come le chiama Morin nell’ultimo libro) dove dissetarsi, un po’ sostare per poi continuare cammini.
Una scuola come oasi, e come soglia di presidio di fronte al rischio di una catastrofe educativa. Quella che travolgerà anche la scuola se questa resta incastonata nei palazzi della cultura individualista e securitaria, delle chiusure identitarie e della formazione dei funzionari della economia della spoliazione e dello scarto, della prestazione e del successo. Ci vuole visione lucida, saldezza dei criteri di riferimento, volontà politica precisa, specie attorno ai temi della diversità e della vulnerabilità: circa l’impegno della composizione e dell’incontro delle diversità, circa l’attenzione e l’interdipendenza tra capacità e vulnerabilità.
In un periodo come questo il luogo educativo è un “attendamento” in cui si pratica e si immagina un futuro buono e abitabile. Se non ci sono luoghi in cui si fa pratica dell’immaginazione di futuri, davvero è catastrofe educativa.
La catastrofe educativa è l’incapacità profonda di assumere la prospettiva “di generazione in generazione”, che è il vero spazio della libertà. Educare è sempre assunzione necessaria del limite, la delimitazione della presa/pretesa sul presente per lasciare aperte possibilità di futuro, per non consumare tutto il presente e non imparare a calcolare solo sulle prospettive a breve termine. Ormai abbiamo raggiunto il limite estremo di consumo del pianeta, delle possibilità di presentificazione di tutto. Bisogna riprendere la capacità generativa, di andare oltre, di “traboccare”. Questa è una parola che papa Francesco usa spesso: desborde, traboccamento, generosità.
In una scuola c’è sempre un traboccamento verso il futuro, si reimmaginano sempre cose nuove. Come quando nasce un bambino si torna alla prima settimana del mondo, anche quando si educa e si insegnano i linguaggi, le tecniche, i saperi della tradizione è come se li si riprovasse da capo nella loro capacità di dire il mondo, di trasfomarlo e di condividerlo. A volte nella scuola questo è perso e ci si concentra solo sul linguaggio, la tecnica, l’apprendimento e sulla capacità di farne prestazioni: questa apre alla catastrofe educativa.

La scuola come dovrebbe assumere questa sfida? Da tanti anni la scuola si vive in rincorsa rispetto alla velocità del modificarsi delle tecnologie e del mondo lavoro. La scuola, invece, deve essere anticipo, luogo collocato sull’orizzonte: come una bandiera continuamente spostata sull’orizzonte in cui tutte le memorie e le consegne del passato vengono praticate immaginandone una funzione futura, buona, fraterna. Bisogna
ripensare la scuola non in rincorsa ma in avanti, come annuncio. Quando tu insegni una disciplina a scuola ne insegni le grandi possibilità di trasformazione del mondo, non insegni la disciplina come esercizio di misurazione o di potere. Pensiamo, poi, a quanti bambini e adolescenti nel mondo crescono in situazioni di guerra, di incertezza, di uso autoritario della forza, senza adulti che di loro abbiano cura. Il mondo è pieno di
minori non accompagnati e di adulti sopraffatti da problemi di sopravvivenza che non possono accompagnarli. Ci sono anche adulti che li sfruttano e li usano, non se ne curano per giochi del potere e di economia che sfigurano l’umano e la vita del pianeta.
Educare in oasi come la scuola, in cui respira il mondo ed il futuro, non la particolarità che prepara al conflitto distruttivo, e vedere l’altro come nemico e minaccia, decostruendo il nemico, facendo abitare l’altro presso di sé e abitando l’orizzonte dell’altro: è ricerca e fatica, ma è anche compito adulto, di presidio, scoperta e impegno di pace e bellezza.