Quasi colpevoli di essere in vita
di Enzo Bianchi
La nostra vita arriva a settant’anni,
a ottanta se ci sono le forze:
la maggior parte sono pena e fatica,
passano presto e noi ce ne andiamo.
Questo versetto del salmo 90 è certamente sottoscritto da molti, e in particolare dagli anziani, i quali hanno una consapevolezza concreta e quotidiana dei loro limiti e della diminuzione a cui sono soggetti. Gli anziani, anche se magari tentano di rimuovere il pensiero dei giorni che stanno davanti a loro, sanno che questi non saranno molti. Sanno che inesorabilmente, in modo improvviso o dopo un itinerario di malattia, saranno i giorni ultimi della loro vita.
Proprio i vecchi sono i più attaccati dal coronavirus e dunque difficilmente in grado di attraversare la malattia con un esito positivo. Ce lo dicono le statistiche di ogni giorno: sono colpiti anche i più giovani, ma la frequenza di morti tra gli anziani non lascia spazio alla sicurezza di essere esenti da un cammino penoso. È quell’itinerario che conosciamo, perché lo vediamo quotidianamente attraverso i media: itinerario di solitudine, di isolamento, di impedimento alla comunicazione con i propri cari; è un cammino disperante, di cui ci si può augurare solo una rapida fine.
Mario Deaglio, in un suo articolo di qualche anno fa, aveva definito la generazione dei nati all’inizio degli anni ’40 del secolo scorso come “la generazione perfetta”, nel senso di una generazione fortunata. In effetti così pareva essere, ma ora anche questa generazione sembra portare i segni della disgrazia. È la generazione che ha subito la rottamazione, teorizzata o semplicemente praticata, da parte di soggetti politici e sociali che si fregiavano della bandiera della novità, e ora si sente quasi colpevole di essere ancora in vita. E ognuno dal suo punto di vista vorrebbe fare a meno di questa esperienza di democratizzazione, dal momento che la pandemia colpisce tutti, sovrani e poveri, forti e deboli, giovani e vecchi: tutti minacciati allo stesso modo, tutti insieme sulla stessa barca.
Non si sente forse dichiarare che, di fronte alla necessità di salvare un malato su due, vista la scarsità dei mezzi tecnici a disposizione, si sceglie chi è più giovane e si lascia morire l’anziano? Parallelamente, questo è un discorso che, da testimonianze autentiche, sappiamo aver ispirato qualche malato anziano (come don Giuseppe Berardelli di Bergamo) a chiedere di curare un giovane piuttosto che se stesso. Si tratta di una scelta di chi è disposto a permettere a un altro di vivere al posto suo: gesto dettato da grande carità e fortezza d’animo, gesto che può essere ispirato solo da un amore per la comunità umana e dalla disposizione al sacrificio di sé per gli altri.
Resta però vero che questo discorso rientra nella logica dell’eugenetica, per la quale questo criterio viene applicato anche nei confronti dei disabili o dei malati gravi; come se costoro avessero meno diritto di vivere rispetto ad altri… Ma chi di noi sa in verità cosa significa la sua vita per gli altri, che lui sia giovane o vecchio, disabile o abile? Sì, molte persone fragili sono impaurite e, qualora vivano sole, diventano preda di fantasmi e incubi difficili da dominare. Solo la vicinanza e l’affetto mostrato nei loro confronti con molta tenerezza possono essere un balsamo alle loro fragilità. E gli anziani sono le nostre radici, sono l’esperienza diventata sapienza, sono anche – come recita un proverbio africano – “le nostre vere biblioteche”.
Più che mai occorre essere intelligenti e umani, affermando che il senso della vita viene prima del senso degli affari, che il senso della vita non riguarda alcuni, ma tutti, e che non può mai essere misurato e calcolato: infatti, vivere è il senso più profondo per ogni uomo e ogni donna venuti al mondo.
Pubblicato su: La Repubblica