Mons. Montenegro alla 'sua' Messina:
"Contro il Coronavirus serve speranza"
«Chi spera ha sempre le scarpe sporche e lo sguardo rivolto verso la luce del sole»: in questa prova atroce che l'umanità sta vivendo, «solo guardando a Gesù potremo alimentare il serbatoio della speranza».
Avevamo chiesto al cardinale Francesco Montenegro la possibilità di condividere una riflessione “controcorrente” sugli effetti che la pandemia da Coronavirus sta generando nell'uomo e lui, con la pacatezza del cuore che gli è propria e l'affetto incommensurato per la sua Messina, ha subito accolto la richiesta, con la preghiera però di rivolgerci a don Franco, sacerdote e uomo e non al cardinale.
L'arrivo “inaspettato” della pandemia con la conseguente sospensione delle celebrazioni religiose, la fame di Pane, il senso di smarrimento, ci hanno fatto scoprire una fragilità che non pensavamo di avere.
«È una lezione che avremmo preferito non apprendere, è come se i nostri calcoli fossero saltati. In questo tempo è fondamentale resettare la fede riscoprendo Dio in noi attraverso la preghiera, che non è una mera richiesta di aiuto, consapevoli della sua paterna e costante vicinanza. Questo è un tempo favorevole per ritrovare il gusto dell'Eucarestia “ridotta” a precetto, cibandoci di Gesù attraverso il Vangelo nel tabernacolo della famiglia piccola chiesa domestica».
Sentiamo la mancanza delle relazioni sociali, degli abbracci, dell'altro come scambio e complemento di umanità, ci sentiamo abbandonati da Dio.
«Solo adesso ci accorgiamo quanto la vicinanza dell'altro sia indispensabile, la stessa che spesso ci infastidisce a tal punto da non riuscire a guardare negli occhi chi abbiamo di fronte. Il bisogno di calarci nell'anonimato ha rarefatto il senso della solidarietà, quella luce che ci faceva vedere la sofferenza del fratello vicino, ammalato, solo, senza un tetto; eppure, questa pandemia non ci sta togliendo Qualcuno, Dio è rimasto con noi».
Secondo quanto stabilito dalla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti i riti della Settimana Santa saranno in parte omessi e comunque celebrati dai sacerdoti a porte chiuse. Per molti dunque non sarà Pasqua senza le tradizioni.
«La Pasqua già c'è, la celebriamo ogni volta che partecipiamo alla messa, le tradizioni non servono. La ricorrenza annuale è solo una memoria della Risurrezione, essenza del nostro essere cristiani: la fede non è emozione, ma consapevolezza che il Signore è presente nella nostra vita.
In questi giorni si parla molto del sacrificio di medici e operatori sanitari, volontari e commercianti, ma poco dei sacerdoti: ne sono morti circa 50 ad oggi a causa della pandemia e il Santo Padre ha esaltato il loro “essere in mezzo alla gente sofferente”.
«Il sacerdote, purtroppo, spesso è visto come mero esecutore di riti senza che ne vengano apprezzate le sue doti umane, eppure è il solo capace di parlare di speranza, facendosi ponte di Dio fra cielo e terra».
Qualche settimana fa da una radio nazionale abbiamo sentito un sacerdote parlare di questa pandemia in termini di nemesi divina contro le malefatte dell'uomo: è così?
«Come possiamo parlare di maledizione divina se nel Vangelo è scritto che Dio è quel pastore che cerca la sua pecorella smarrita, quel padre che aspetta il ritorno del figlio che lo aveva abbandonato, che ha gettato i nostri peccati in fondo al mare? Lui non ci ha mai chiesto di amarlo, ha dato a noi l'impegno di amare gli altri».
Come spiegherebbe questo virus a un bambino?
«È come una galleria, che sembra nascondere la bellezza del panorama (la vita), lasciandoci col fiato sospeso per farci riscoprire, al termine, la bellezza di quei colori che l'oscurità aveva celato».
(fonte: Gazzetta del Sud- Messina articolo di Rachele Gerace — 25 Marzo 2020)