L’emergenza causata dal micidiale virus, che dilaga e infetta ovunque e chiunque nel mondo intero, genera una situazione talmente nuova che neanche in caso di terremoti, o conflitti era stata mai vissuta. In guerra ci si può salvare fuggendo, scendendo nei rifugi, ma con il virus questo non è possibile, non esistono vie di fuga, e l’unica difesa è di impedirgli di diffondersi, attraverso la restrizione dei normali comportamenti, evitando il più possibile ogni contatto tra gli individui. Se durante la guerra le persone trovavano conforto andando a pregare in chiesa, ora con il virus non si può; le chiese restano chiuse perché altrimenti diventano luoghi privilegiati di contagio. La fede non sostituisce le normali misure d’igiene, ma le presume. È bene pregare il Signore che ci aiuti a superare il momento, ma non per questo si è legittimati a mettersi in situazioni di pericolo (“Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”, Mt 4,4; Dt 6,16).
La chiusura delle chiese causa disorientamento tra i fedeli, posti di fronte a una situazione che non ha precedenti. Costoro si sentono smarriti, disorientati, manca un punto importante di riferimento, perché con tale chiusura non c’è neanche la possibilità di partecipare alla celebrazione eucaristica. Ma i vangeli e la tradizione insegnano che non è solo la chiesa il luogo per incontrare Dio, e non è solo la celebrazione eucaristica quel che può nutrire il credente. Nell’eucaristia, Gesù, il Figlio di Dio, si fa pane, affinché quanti lo mangiano e assimilano, siano poi capaci anch’essi di farsi pane, nutrimento, fattore di vita per gli altri, e avere così la sua stessa condizione divina. Questo pane va mangiato, come espressamente chiesto da Gesù “prendete mangiate” (Mt 26,26), il suo è un invito dinamico (“Fate questo…”, Lc 22,19), non statico. Pertanto nel corso della cena eucaristica i primi credenti continuarono a fare quel che il Signore aveva fatto, mangiando insieme questo pane e diventando gli uni nutrimento per l’altro, consentendo così la fusione intima della presenza di Dio nei suoi figli. Poi il pane consacrato veniva portato agli ammalati che non avevano potuto partecipare alla cena (nell’agiografia cristiana divenne molto popolare san Tarcisio, il giovanetto morto martire perché portava il pane eucaristico ai prigionieri). Questo pane consacrato per malati e prigionieri era conservato nella sacrestia (che da questo uso prende il suo nome), dove i suddiaconi l’andavano a prelevare per recarla a chi ne aveva bisogno. Poi gradualmente, dalla sacrestia, il pane eucaristico si spostò in chiesa, dove per evitare abusi, il IV Concilio Lateranense (1215) prescrisse di custodirlo sotto chiave, consolidando la pratica dei “tabernacoli” (dimore) murari; tuttavia nelle basiliche più antiche al tabernacolo era riservato solo uno degli altari laterali e non il principale, come invece avvenne nei secoli successivi, fino a diventare la parte più importante e sacra della chiesa. Nacquero allora devozioni popolari quali l’adorazione eucaristica e la “visita al Santissimo”, appuntamento raccomandato per i laici, ma imposto nei seminari, dove i futuri preti erano obbligati ad andare quotidianamente a fare compagnia al “Divin prigioniero”, quel Gesù che “per amore dell’uomo ingrato, si è fatto prigioniero nel Divin Sacramento”, come recitava una devota preghiera. Fu pertanto a causa dell’eucaristia conservata nel tabernacolo, che la chiesa venne erroneamente considerata la “casa di Dio”. Ma la chiesa, non è la “casa di Dio”, un luogo sacro, bensì il locale del popolo di Dio, che lì si raduna per le celebrazioni, come insegna la più antica tradizione della Chiesa: “Non è il luogo che santifica l’uomo, ma l’uomo il luogo” (Costituzioni apostoliche, VIII, 34,8), e papa Sisto (V sec), dedicò la Basilica di Santa Maria Maggiore al popolo di Dio, come si può leggere nel mosaico dell’arco trionfale dell’abside “Xystus episcopus plebi Dei” (Sisto vescovo al popolo di Dio).
Gesù ha liberato l’uomo da ogni spazio sacro, non esiste casa di Dio che non sia l’uomo, per questo ha auspicato la scomparsa di ogni santuario (“Viene l’ora in cui né su questo monte è a Gerusalemme adorerete il Padre… i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”, Gv 4,21.23), e l’autore dell’Apocalisse, nel descrivere la nuova realtà inaugurata da Gesù proclama: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22). Il luogo dell’incontro con Dio è Gesù Cristo e con lui ogni uomo che lo accoglie: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). L’uomo è l’unico vero santuario dal quale si manifesta e irradia l’amore del Padre per le sue creature. È questa la fede del credente. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,16) scrive Paolo, talmente convinto di questa realtà da affermare “Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Per questo la presenza del Cristo non si limita alla chiesa, al santissimo sacramento. L’incontro con Dio non è condizionato da luoghi o celebrazioni, ma è reale e autentico ogni qualvolta il suo amore viene comunicato e arricchisce la vita degli altri. Sta all’uomo rendersi conto, nella sua vita, di quella presenza divina che continuamente guida, accompagna e segue la sua esistenza, come esclama lo stupefatto Giacobbe “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gen 28,16).
(fonte: Il Libraio, 14/03/2020)