15 maggio 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m.
Papa Francesco:
“Vescovi per il gregge”
Si è vescovi per il gregge e non per la carriera: l’ultimo consiglio presbiterale di san Paolo, un vero e proprio «congedo», è il miglior «testamento» possibile perché al centro di tutto c’è Gesù Cristo. E le parole dell’apostolo sono state rilanciate da Papa Francesco nella messa celebrata martedì mattina 15 maggio a Santa Marta.
«Nella prima lettura presa dal libro degli Atti degli apostoli — ha affermato il Pontefice riferendosi al passo liturgico (20, 17-27) — abbiamo sentito il congedo di Paolo, il congedo di un apostolo, il congedo del vescovo: è un passo forte, un passo che arriva al cuore». Ma «è anche un passo che ci fa vedere il cammino di ogni vescovo all’ora di congedarsi». E di questo discorso «la metà si legge oggi, la metà si legge domani» ha fatto presente il Papa, aggiungendo: «Io farò un commento più che un’omelia, un commento di questo brano». Perché «il testo parla da sé».
«Paolo da Mileto fa venire a Efeso i presbiteri» ha spiegato Francesco. In pratica «fa una riunione del consiglio presbiterale con i presbiteri per congedarsi da loro: deve andarsene». E «quando sono riuniti — “quando essi giunsero presso di lui, disse loro” si legge nel libro — incomincia prima con un esame di coscienza: “Voi sapete come mi sono comportato con voi tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia”». Paolo «dice quello che lui pensa che aveva fatto, quello che ha fatto, e lo sottopone al giudizio di tutti», come «una sorta di esame di coscienza del vescovo davanti al suo presbiterio».
«Leggendo questo con la nostra mentalità — ha affermato il Pontefice — può sembrare che Paolo sia un po’ orgoglioso, che Paolo si vanti troppo delle cose». Invece «Paolo è oggettivo, dice quello che ha fatto» e «si vanta soltanto di due cose: si vanta dei propri peccati e si vanta della croce di Gesù Cristo che lo ha salvato». Tanto che, in un altro passo, «guardando se stesso dice: “Ma io sono un peccatore, ho perseguitato i cristiani, ho ucciso. Sono come il frutto di un aborto” — fa una descrizione forte di se stesso — “ma mi vanto di tutto questo” e “guardo il Signore ma anche mi vanto di Gesù che mi ha salvato, che mi ha chiamato, che mi ha scelto”».
Quando Paolo «dice queste cose — ha spiegato il Papa — è oggettivo: dice quello che ha fatto, ma il suo spirito è lontano da ogni vanità umana. È reale». Perciò l’apostolo, «dopo questo esame di coscienza così chiaro che abbiamo sentito, in un secondo passo dice: “Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme”». Paolo, dunque, vive «questa esperienza del vescovo: il vescovo che sa discernere lo Spirito, che sa discernere quando è lo Spirito di Dio che parla e che sa difendersi quando parla lo spirito del mondo».
Così «costretto dallo Spirito, senza sapere ciò che là mi accadrà», Paolo «va avanti; sapeva nel buio, ma sapeva, perché un profeta gli aveva rivelato quello». E l’apostolo «poi spiega un po’ perché sapeva: “So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni”». Consapevolmente Paolo «va verso la tribolazione, verso la croce e questo ci fa pensare all’entrata di Gesù a Gerusalemme: lui entra per patire e Paolo va verso la passione» dicendo, in pratica: «a me non importa la mia vita, purché il Signore conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato».
Con questo spirito Paolo «porta il servizio, la vita; si vede il germoglio del martirio, il martire. Si offre al Signore, obbediente». Ecco, allora, il senso di «“quel costretto dallo Spirito”: il vescovo che va avanti sempre, ma secondo lo Spirito Santo». E «questo è Paolo», ha ribadito il Pontefice.
Quello stesso Paolo che poi compie il «terzo passo: dopo aver fatto l’esame di coscienza, dopo aver detto dove andrà e cosa lo aspetta, lui dà il terzo passo: “E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunciando il regno”». In questo modo Paolo «si congeda». Questa espressione «non ci vedremo più» che scrive l’apostolo, ha affermato il Papa, «è come se fosse la morte, con quella tenerezza».
E, ha aggiunto il Pontefice, «il testo prosegue e sarà letto domani». Così «dopo aver detto “non ci vedremo più”, comincia a dare dei consigli». E «in questo testamento Paolo non consiglia: “questo bene che lascio datelo a questo, questo a quello, quello...”». Non è «il testamento mondano», perché «il suo amore grande è Gesù Cristo» e «il secondo amore, il gregge». Tanto che afferma: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge».
Dunque, esorta Paolo, «fate la veglia sul gregge; siete vescovi per il gregge, per custodire il gregge, non per arrampicarvi in una carriera ecclesiastica». Ecco il suo «congedo: “Come ho fatto io fate voi: vegliate sul gregge, quel gregge immenso, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio”».
Ma Paolo «spiega» anche «perché consiglia di vegliare: “Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse. Per questo vigilate, vegliate e vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato, tra le lacrime, di ammonire ciascuno di voi». E così Paolo, ha spiegato il Papa, «torna all’esame di coscienza: ricordate quello che ho fatto e vigilate nel futuro».
Ecco che l’apostolo «finisce con il cuore grande, il cuore umile di quell’uomo che sa che lui non può fare nulla: “E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia”». Come a dire: «Dio vi custodirà, lui vi aiuterà, vi darà la forza: lui ha la potenza di edificare e concede l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati». Poi l’apostolo «torna un’altra volta sull’esame di coscienza: “State attenti, non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno”». Paolo è «povero». E poi, riferiscono gli Atti, «dopo aver detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò».
In questo modo, ha affermato il Papa, «finisce questa seduta del consiglio presbiterale — l’ultimo a Efeso — con la preghiera». E, si legge ancora negli Atti, «tutti scoppiarono in pianto e, gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave». In queste parole, ha suggerito Francesco, ci sono «l’amore, la tenerezza dei presbiteri verso il loro vescovo: il bacio, l’abbraccio, il pianto».
«Il testamento di Paolo è una testimonianza, è anche un annuncio» ed «è anche una sfida: “Io ho fatto questa strada. Continuate voi”». Ma, ha fatto notare il Papa, «quanto lontano è questo testamento dai testamenti mondani: “Questo lo lascio a quello, quello a quell’altro, quello a quell’altro...”». Con «tanti beni» da distribuire.
«Paolo — ha insistito il Pontefice — non aveva nulla, soltanto la grazia di Dio, il coraggio apostolico, la rivelazione di Gesù Cristo e la salvezza che il Signore aveva dato a lui». E, ha confidato il Papa, «quando io leggo questo, penso a me. Penso a me pure, perché sono vescovo e devo congedarmi. Chiedo al Signore la grazia di potermi congedare così. E nell’esame di coscienza non uscirò vincitore come Paolo, ma il Signore è buono, è misericordioso». E, ha aggiunto Francesco, «penso ai vescovi, a tutti i vescovi: che il Signore dia la grazia a tutti noi di poterci congedare così, con questo spirito, con questa forza, con questo amore a Gesù Cristo, con questa fiducia nello Spirito Santo». E dunque, ha concluso, «preghiamo per tutti i vescovi, perché camminino su questa strada di Paolo per poter, alla fine, fare un testamento così».
(fonte: L'Osservatore Romano)
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