È QUELLA SPIRITUALE
Thomas Merton
Sulle pagine de “La Repubblica” del 10 maggio 2018 é stato anticipato un brano de “Il primato della contemplazione”, di Thomas Merton (ed. Emi, traduzione di Cristina Frescura), che é stato presentato al Salone del libro di Torino da mons. Luigi Bettazzi, Guido Dotti e Alessandro Zaccuri. In questi scritti inediti, il grande monaco intellettuale descrive una società in cui gli uomini “hanno perso il senso di una vita interiore”. Era lo scorso secolo. Ma sembra oggi
Il collasso di quel vago umanesimo materialista che era stato moneta corrente negli scorsi due o tre secoli ha lasciato il mondo tragicamente consapevole della propria bancarotta spirituale.
Generazioni su generazioni di uomini hanno a tal punto perduto il senso di una vita interiore, si sono talmente isolati dalle loro profondità spirituali per un’esteriorizzazione che è sfociata alla fine in assoluta superficialità, che ora noi siamo quasi incapaci di godere di una qualsivoglia pace, quiete, stabilità interiore. Gli uomini sono arrivati a vivere esclusivamente sulla superficie del loro essere, al punto che la vita è diventata una mera ricerca di piaceri rudimentali e una fuga dal dolore fisico e mentale. Siamo lasciati in balia di stimoli esterni, e la stimolazione è arrivata addirittura a prendere il posto che, una volta, era occupato dal pensiero, dalla riflessione e dalla conoscenza. Persino la religione è degenerata, in alcuni casi, in un culto fatto di sentimenti e pie emozioni o, al limite, in un vago senso di fraternità e gentilezza e generico ottimismo nei confronti del prossimo. Ci innamoriamo pietosamente di qualsiasi cosa ci lusinghi, e la nostra esistenza diventa una perpetua ricerca di tutto ciò che possa placare la nostra sovreccitabile sensibilità.
Generazioni su generazioni di uomini hanno a tal punto perduto il senso di una vita interiore, si sono talmente isolati dalle loro profondità spirituali per un’esteriorizzazione che è sfociata alla fine in assoluta superficialità, che ora noi siamo quasi incapaci di godere di una qualsivoglia pace, quiete, stabilità interiore. Gli uomini sono arrivati a vivere esclusivamente sulla superficie del loro essere, al punto che la vita è diventata una mera ricerca di piaceri rudimentali e una fuga dal dolore fisico e mentale. Siamo lasciati in balia di stimoli esterni, e la stimolazione è arrivata addirittura a prendere il posto che, una volta, era occupato dal pensiero, dalla riflessione e dalla conoscenza. Persino la religione è degenerata, in alcuni casi, in un culto fatto di sentimenti e pie emozioni o, al limite, in un vago senso di fraternità e gentilezza e generico ottimismo nei confronti del prossimo. Ci innamoriamo pietosamente di qualsiasi cosa ci lusinghi, e la nostra esistenza diventa una perpetua ricerca di tutto ciò che possa placare la nostra sovreccitabile sensibilità.
In queste condizioni la pace interiore, che deve necessariamente poter contare su un certo vigore morale e sulla capacità di resistere a stimolazioni inutili, è divenuta per molti assolutamente impossibile.
In conseguenza di tutto ciò, quando il nostro mondo ci crolla sulla testa – come insistentemente cerca di fare di questi tempi – non abbiamo altro modo per reagire se non fare sempre più rumore, assordandoci con argomenti che hanno poco o nessun senso, finché alla fine ripieghiamo e ci ritiriamo nel silenzio di una stupida disperazione. La bancarotta spirituale dell’uomo non gli ha lasciato nessuna possibilità di rifugiarsi in sé stesso, nessuna cittadella interiore in cui potersi ritirare per raccogliere le forze e valutare la situazione morale che si trova ad affrontare, e in cui poter arrivare a decidere dove rivolgersi per chiedere aiuto.
Infatti, l’ultimo posto al mondo in cui l’uomo moderno cerchi rifugio o consolazione sono le profondità della propria anima.
Sappiamo fin troppo bene che le nostre anime sono strutture vuote, sventrate, in rovina. Il pensiero di prendere residenza in noi stessi ci alletta quanto quello di vivere in una casa infestata dai fantasmi.
La maggioranza delle persone non si rende conto della vera origine del loro terrore. Il fatto è, tuttavia, che se discendi nelle profondità del tuo spirito, della tua realtà metafisica, e arrivi vicino al centro di ciò che sei, ti ritrovi di fronte all’ineludibile verità che, alla radice stessa del tuo esistere, sei in continuo, diretto e inevitabile contatto con l’infinita potenza di un Dio che è Realtà Pura e la cui creativa e personale volontà ti mantiene, ad ogni istante, in esistenza. Ed è questo il pensiero che molti uomini sembrano tanto ansiosi di evitare.
Stranamente, la filosofia moderna non ha sempre avuto paura di affrontare quel vuoto metafisico che è il centro soggettivo di un’anima spiritualmente smarrita.
La disperazione cosmica dell’esistenzialista ha in sé qualcosa di vero, perché è un riflesso della sua vita interiore.
Più ancora, la tenebra e il vuoto che l’esistenzialista coglie dentro di sé come esperienza potrebbe essere, in verità, l’esperienza di un Dio assolutamente sconosciuto, trascendente e ostile: l’esperienza del Dio che non possiamo conoscere perché ha emesso contro di noi il terribile giudizio:
«In verità, io non ti conosco».
Non sorprende, perciò, che gli esistenzialisti abbiano attinto così a piene mani agli scritti di un uomo profondamente religioso, il mistico protestante danese Kierkegaard, per il quale tale angoscia cosmica era una terribile realtà. Si ha la sensazione che un esistenzialista completamente onesto e sincero nell’esaminare sé stesso potrebbe ritrovarsi improvvisamente sulla strada di una conversione che gli mostrerà come quel vuoto, che non riesce a esorcizzare con la razionalizzazione, possa ben presto caricarsi di un significato e di una realtà illimitati, sotto l’influsso di quell’imponderabile e misterioso potere chiamato grazia. Orbene, la funzione della contemplazione è proprio quella di penetrare questa oscurità interiore e camminare per fede sul vuoto dell’abisso che sta al centro di ogni significato. Tutto ciò può magari apparire molto esoterico e alquanto spaventoso.
Non dovrebbe esserlo. Al contrario, dovrebbe essere estremamente confortante, poiché significa che la vita contemplativa è fondata sulla più semplice e più fondamentale di tutte le virtù: la virtù teologale della fede. Che cos’è la contemplazione? Che cos’è la vita contemplativa? La definizione più ampia di contemplazione è data da san Tommaso, che parla di semplice visione complessiva della verità (simplex intuitus veritatis). È la profonda, penetrante visione di una verità che ne abbraccia tutti gli elementi essenziali in un unico colpo d’occhio, e si ferma ad assorbirla in profondità assaporandone tutto il significato e la realtà, senza divagazioni mentali. In senso stretto, la contemplazione è uno sguardo che penetra non una qualunque verità bensì la verità di Dio com’è in sé stesso, come la ragione non potrà mai conoscerlo e come egli ci viene reso manifesto direttamente nell’illuminazione di un dono divino che la natura non può far nulla per acquisire.
La vita contemplativa è semplicemente una vita in cui tutto è preordinato all’unione della mente e della volontà con Dio in questo perfetto amore della verità.
La vita contemplativa è semplicemente una vita in cui tutto è preordinato all’unione della mente e della volontà con Dio in questo perfetto amore della verità.
Leggi anche:
“Il primato della contemplazione”, di Thomas Merton - Scheda Emi