di Giuseppe Savagnone
La notizia che un parroco della diocesi di Treviso, don Flavio Gobbo, è stato condannato a due anni di reclusione per aver perduto al gioco una enorme somma di denaro di proprietà della parrocchia, viene ad aggiungersi alle tante che in questi ultimi anni ormai costellano le cronache e che riguardano ecclesiastici responsabili di comportamenti incompatibili non solo con il loro delicato ufficio, ma anche con la morale comune e con la più elementare legalità.
Per quanto riguarda la vicenda di don Flavio, la curia di Treviso si è premurata di sottolineare, in un comunicato, che il sacerdote ha chiesto un periodo di sospensione dal ministero, perché consapevole di essere affetto da una grave forma di ludopatia e che vuole impegnarsi a restituire, col tempo, il denaro sottratto. Nello stesso comunicato si precisa che comunque egli «è sempre rimasto in contatto con i suoi superiori e con i suoi confratelli, che non lo hanno mai abbandonato, offrendogli l’aiuto e il sostegno necessario». Anche se non si può evitare di chiedersi, alla luce dei fatti, se questo sostegno non sia arrivato troppo tardi, quando ormai la situazione era precipitata…
Così come troppo tardi sembrano arrivare, in tanti altri casi, le prese di coscienza da parte di superiori e di confratelli, in tutte le ormai numerose occasioni in cui un presbitero prende una strada che lo porta a trovarsi al centro di uno scandalo pubblico e di un caso giudiziario.
È indubbio che in tutte le categorie di persone si possono individuare soggetti indegni della loro funzione sociale. Ma ce ne sono alcune nei cui confronti, per l’aura di particolare rispetto che le circonda, si è spontaneamente più esigenti e dei cui membri, perciò, è più difficile accettare i comportamenti indegni. Quella dei preti è una di queste. Perché un presbitero è un rappresentante qualificato della Chiesa, un uomo a cui, nel sacramento della riconciliazione, si apre la propria coscienza e si confidano i propri peccati, come con nessun altro si farebbe. Un soggetto, dunque, nei cui riguardi si nutre, a priori, una illimitata fiducia che, se viene tradita, si trasforma in una delusione molto più amara che in altri possibili casi. Ci sono Paesi di antica tradizione cattolica, come l’Irlanda, dove il dilagare degli scandali di pedofilia ha dato luogo, ultimamente, a fenomeni diffusi di rifiuto nei confronti della gerarchia ecclesiastica nel suo complesso.
Davanti a questi scenari, è legittimo chiedersi come mai simili devianze possano svilupparsi senza che nessuno intervenga, fin dal loro primo insorgere, per aiutare il presbitero che ne è responsabile a lottare per vincerle – oppure, se non volesse farlo, per esonerarlo dalla sua delicata missione.
Spesso questo mancato intervento è dovuto a una volontà – soprattutto dei superiori – di sopire e nascondere queste situazioni, per evitare gli scandali. Col risultato di prolungarne e aggravarne gli effetti nefasti su tutta la comunità e sui suoi singoli membri.
Ma c’è un altro fattore, che non esclude il primo e che fa da sfondo, ed è la sostanziale solitudine dei preti. In passato essi spesso svolgevano il loro ministero in ambienti relativamente circoscritti, che riconoscevano il loro ruolo e li aiutavano a mantenere chiara la propria identità. Oggi, con i nuovi strumenti di comunicazione, i confini si sono immensamente dilatati, le pressioni del mondo esterno sono diventate immensamente più forti, il presbitero è assai meno “protetto”.
Anche il ruolo della comunità si è indebolito. Le chiese sono diventate in molti casi “stazioni di servizio”, frequentate da persone che chiedono solo battesimi, prime comunioni, matrimoni, per poi scomparire. E anche quando la pastorale – come a volte avviene – produce dei frutti significativi, la dimensione comunitaria è resa ormai sempre più problematica dai ritmi di vita frenetici che rendono arduo mantenere rapporti stabili.
Il prete si ritira la sera nella sua casa vuota stanco, dopo una giornata di fatiche a volte infruttuose, di frustrazioni, di tentazioni, e non ha nessuno con cui parlarne, a cui chiedere un consiglio. Anche i laici che collaborano con lui e con cui egli ha un rapporto autentico, lo guardano comunque come una guida, non come un fratello da aiutare.
A stargli accanto dovrebbero essere i suoi confratelli presbiteri e il suo vescovo. Ma, per quanto riguarda i primi, sono presi ognuno dalla sua attività e dai suoi problemi. I preti procedono di solito in ordine sparso. Il presbiterio, concepito originariamente come una comunità, di fatto, resta spesso un’etichetta senza contenuto. Un senso generico di fraternità, che comunque sussiste tra i suoi membri, non impedisce il sorgere di reciproche incomprensioni e di conflitti personali che a volte finiscono per cronicizzarsi. E così ognuno resta da solo alle prese con i propri problemi.
Quanto al vescovo, ormai, nella società contemporanea, egli si trova ad affrontare problemi ogni tipo. Deve essere un uomo di spiritualità, ma anche saper intrattenere rapporti con le autorità civili. Deve essere un maestro, capace di orientare dottrinalmente la sua comunità, specialmente in questo tempo di transizione, ma al tempo stesso seguire con vigilanza il bilancio economico della sua diocesi e affrontare problemi giuridici e finanziari che diventano sempre più complicati. Deve saper trovare momenti di preghiera personale, ma anche rispondere a tutte le innumerevoli richieste di essere presente (tutti invitano il vescovo e lo vogliono alle loro iniziative). Deve cercare di non apparire troppo, ma anche di sfruttare le risorse della comunicazione sociale per annunciare il Vangelo… Insomma, oggi un vescovo deve essere una specie di superman, e non c’è da stupirsi se non ci riesce. Come non c’è da stupirsi che, travolto da tante cose, non riesca in molti casi a dedicare il tempo e l’attenzione necessari a costruire un autentico dialogo con i suoi preti.
Da questo quadro si capisce il perché dell’isolamento in cui molti di essi vivono. Un isolamento che favorisce tante mediocrità spirituali, tante pesantezze umane, tante fragilità, tante deviazioni, da quelle meno gravi a quelle gravissime, di cui poi si parla sui giornali.
«Dio solo basta», diceva santa Teresa d’Avila. Ma gli altri ci sono necessari per trovarlo e saperlo vicino. Perciò i preti dovrebbero vivere riuniti in piccole fraternità presbiterali che garantiscano un clima di fraternità e di continuo dialogo (ne conosco una che da anni fa un bellissimo cammino). Comunità in cui ognuno possa continuare a svolgere il servizio che la diocesi gli ha chiesto, ma dove si superi la logica dell’individualismo e si sperimenti anche sul piano umano la responsabilità reciproca, il consiglio, la correzione fraterna. Comunità dove a nessuno possa accadere di scivolare nell’abisso della ludopatia o di altre tragiche perversioni senza che qualcuno se ne accorga ed intervenga. Ma, soprattutto, dove nessuno abbia più bisogno di cercare surrogati che riempiano il vuoto di un’esistenza troppo solitaria
(Fonte: Rubrica "I Chiaroscuri")