Gesti, parole, umanità
di Norberto Hofmann
Segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo
La giornata dell’ebraismo che si celebra in Italia il 17 gennaio è segno del grande apprezzamento che esiste all’interno della Chiesa cattolica nei confronti dell’ebraismo. Essa vuole offrire ai cristiani una proficua occasione per ricordare con gratitudine le radici ebraiche della loro fede, come pure prendere coscienza, con sensibilità, del dialogo in corso con l’ebraismo di oggi. La giornata, oltre che in Italia, si celebra ogni 17 gennaio anche in Polonia, in Austria e nei Paesi Bassi, introdotta negli anni dalle rispettive conferenze episcopali.
Essendo, nella Chiesa cattolica, di fondamentale importanza l’impronta e l’orientamento di ciascun pontificato verso l’ebraismo, la giornata odierna è anche il momento opportuno per guardare all’impegno degli ultimi tre Papi nei confronti del dialogo ebraico-cattolico.
A Papa Giovanni Paolo II viene riconosciuto il merito di aver rotto definitivamente il ghiaccio nel dialogo ebraico-cattolico; per primo, egli compì gesti indimenticabili di amicizia verso gli ebrei. Certamente, importanti passi di riavvicinamento erano già stati intrapresi da Papa Paolo VI, ma soltanto con Giovanni Paolo II s’iniziò a percepire l’impegno della Chiesa cattolica a favore dell’ebraismo. Già per motivi legati alla sua storia personale, Karol Wojtyła ebbe a cuore il miglioramento delle relazioni tra ebrei e cattolici. Egli crebbe infatti nella piccola città polacca di Wadowice, la cui popolazione era costituita, per un quarto, da ebrei. Sin dall’infanzia, dunque, egli ebbe amici ebrei tra i banchi di scuola e nel tempo libero; ne conobbe le usanze e il modo di vita, imparò a condividerne la quotidianità, stringendo anche forti amicizie: egli rimase legato sino alla morte a un vecchio compagno ebreo, Jerzy Kluger, con il quale era cresciuto in Polonia e con il quale restò sempre in contatto anche una volta eletto Papa e trasferitosi a Roma. Karol Wojtyła sperimentò da vicino l’orrore del nazismo, di cui molti dei suoi amici ebrei caddero vittima, nella Shoah, e ne soffrì profondamente. È facilmente comprensibile, quindi, che, anche come Papa, egli si sentisse in dovere di impegnarsi personalmente a favore dello sviluppo e dell’intensificazione dell’amicizia tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Il segno che egli lasciò nel dialogo ebraico-cattolico dipese fortemente dalla sua personalità unica: come nessun altro prima, egli seppe compiere in pubblico gesti di simbolica importanza, in grado di rendere visibile ciò che gli stava realmente a cuore. Già nel primo anno del suo pontificato, il 7 giugno 1979, egli visitò il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau; là, davanti alla lapide con la scritta in ebraico, si raccolse in preghiera ricordando in particolare le vittime della Shoah. In tale occasione, egli osservò: «Questa iscrizione suscita il ricordo del popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo popolo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede (cfr. Romani, 4, 12), come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento “non uccidere”, ha provato su se stesso in misura particolare cosa significa uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza». Ma ancora più densa di significato simbolico e di risonanza mediatica fu la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986. L’immagine dell’abbraccio tra il Pontefice ed il rabbino capo Elio Toaff davanti al Tempio Maggiore fece il giro del mondo. Per la prima volta nella storia, un papa si recava ufficialmente in una sinagoga per esprimere, davanti a tutto il mondo, il suo apprezzamento dell’ebraismo. Un altro passo importante nelle relazioni con gli ebrei fu fatto alla fine del mese di dicembre 1993, con il riconoscimento diplomatico dello stato di Israele da parte della Santa Sede; l’anno successivo avvenne lo scambio dei rispettivi ambasciatori.
Alla luce del documento pubblicato nel 1998 dal titolo Noi ricordiamo. Una riflessione sulla Shoah, va compreso il gesto compiuto il 12 marzo 2000, quando il Papa, nel corso di una liturgia pubblica, chiese perdono per le colpe commesse contro il popolo di Israele in una preghiera: «Dio dei nostri Padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza».
Questa stessa preghiera di perdono, leggermente modificata nella forma, Giovanni Paolo II la scrisse su un foglietto e la inserì tra le pietre del Muro del Pianto a Gerusalemme, in occasione della sua visita in Israele il 26 marzo 2000. La visita del Papa allo stato di Israele si può certamente definire una visita storica poiché fornì un impulso considerevole alla promozione del dialogo ebraico-cattolico. Giovanni Paolo II visitò il monumento commemorativo dello Yad-Vashem, pregò per le vittime della Shoah, incontrò alcuni sopravvissuti di questa tragedia indicibile, partecipò a un incontro interreligioso a cui erano presenti anche rappresentanti musulmani ed entrò in contatto per la prima volta con il Gran Rabbinato di Gerusalemme. Alcuni anni dopo, il 16 gennaio 2004, egli incontrò nuovamente i due rabbini capo di Israele, quando era già in corso il dialogo istituzionale tra il Gran Rabbinato e la Commissione per i rapporti religiosi con gli ebrei della Santa Sede. Giovanni Paolo II ricevette regolarmente in Vaticano gruppi e personalità del mondo ebraico e, durante le sue numerose visite pastorali, fece sempre in modo che, come parte del programma, vi fossero incontri con delegazioni ebraiche là dove la comunità ebraica costituiva una forte presenza locale. Alla luce del grande impegno di questo Papa a favore delle relazioni tra ebrei e cattolici, possiamo dire che proprio durante il suo lungo pontificato furono gettate le basi e cementate le fondamenta del dialogo futuro. Fare marcia indietro rispetto a quanto realizzato sotto il suo pontificato non sarà mai possibile; i chiari orientamenti forniti dal documento Nostra aetate (n. 4) rimangono tuttora validi e costituiscono un irrevocabile punto di riferimento. Tutt’oggi, i partner di dialogo ebrei nutrono una sincera stima e gratitudine per Giovanni Paolo II; l’ammirazione per la sua persona e per la sua opera di riconciliazione resta intatta.
Allo stesso modo, Papa Benedetto XVI ha portato avanti con determinazione la linea seguita da Giovanni Paolo II. Egli, in quanto teologo, conosceva bene l’ebraismo anche grazie alla sua formazione accademica e allo studio della sacra Scrittura, sulla quale egli incentrava i suoi numerosi discorsi. Ma la sua vicinanza all’ebraismo non rimase a livello teorico: si tradusse presto nel concreto. Di fatti, come cardinale della Curia romana, Joseph Ratzinger incontrò personalmente molti ebrei e dedicò diverse sue pubblicazioni alla relazione speciale esistente tra ebraismo e cristianesimo. Non stupisce dunque il fatto che, durante il suo primo incontro come Papa con una delegazione ebraica, il 9 giugno 2005, egli abbia tenuto a sottolineare la sempre rilevante attualità delle affermazioni fondamentali di Nostra aetate (n. 4) e la propria intenzione di proseguire il dialogo con gli ebrei sulla scia del suo predecessore. Più volte egli ribadì, e non soltanto davanti a interlocutori ebraici, quanto avesse a cuore il miglioramento delle relazioni con l’ebraismo. Sicuramente anche a causa della sua vicenda biografica, avendo sperimentato da vicino i tempi bui del nazismo, egli vedeva il dialogo con l’ebraismo soprattutto alla luce della conciliazione e della riconciliazione.
Negli anni del suo pontificato, molti sono stati i gesti concreti di amicizia e rispetto verso il mondo giudaico. Benedetto XVI ricevette numerosissime delegazioni ebraiche, sia in Vaticano che durante i suoi viaggi; visitò il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006; durante il suo viaggio in Israele nel maggio del 2009 si recò al Muro del Pianto e in visita al Gran Rabbinato di Gerusalemme, incontrò rappresentanti ebraici di Israele e di tutto il mondo, pregò per le vittime della Shoah a Yad-Vashem; il 17 gennaio 2010 fu accolto dalla comunità ebraica di Roma nel Tempio Maggiore.
La sua prima visita a una sinagoga era stata tuttavia quella a Colonia, il 19 agosto 2005, in occasione della giornata mondiale della gioventù; un’altra era avvenuta a New York, il 18 aprile 2008, quando salutò i membri della Park East Synagogue. Nessun Pontefice ha visitato tante sinagoghe quante Benedetto XVI. Tutte queste attività portano il segno inconfondibile del suo stile. Mentre Giovanni Paolo II aveva una spiccata sensibilità per il valore simbolico dei gesti, Benedetto XVI puntò sulla forza delle parole e sull’umiltà dell’incontro. I suoi discorsi erano caratterizzati non soltanto da un’evidente perspicacia teologica, ma anche da un’innegabile profondità spirituale, che poteva assumere persino toni poetici. Tra tanti, la meditazione sui dieci comandamenti offerta in occasione della sua visita alla sinagoga di Roma fu ascoltata con vivo interesse allo stesso modo da cattolici ed ebrei. Attraverso la forza delle sue parole e la profondità spirituale della sua teologia, Benedetto XVI si sforzò continuamente di mettere in evidenza la molteplice ricchezza del patrimonio comune del cristianesimo e dell’ebraismo.
Anche il suo successore, Papa Francesco, è un figlio di Nostra aetate. Già a Buenos Aires, egli fece molto per la promozione del dialogo ebraico-cattolico. Grazie al suo contributo come arcivescovo della città, le relazioni tra gli ebrei e la Chiesa cattolica giunsero a un alto e ancora duraturo livello di solidità e di fratellanza.
Anche successivamente, in veste di cardinale, Jorge Mario Bergoglio non solo allacciò contatti istituzionali, ma intrattenne anche amicizie vere e proprie con rabbini e membri della comunità ebraica locale. Tra i suoi amici, vi era il rabbino Abraham Skorka, rettore del seminario rabbinico dell’America latina a Buenos Aires, con il quale, nel 2010, pubblicò il libro Il cielo e la terra, basato su una serie di colloqui su vari temi di natura sociale, teologica e pastorale, e con il quale partecipò a diversi programmi televisivi. Al rabbino Skorka, dietro suggerimento del cardinale Bergoglio, fu conferito nel 2012 il dottorato honoris causa della Universidad Católica Argentina. Numerosi sono stati gli incontri del cardinale Bergoglio con rappresentanti ebraici e numerose le sue visite nelle sinagoghe, dove ha predicato e partecipato a celebrazioni commemorative. Ricordiamo, tra tante, la sua presenza, nel settembre 2007 durante la festa ebraica per il nuovo anno, nella sinagoga B’nei Tikva di Buenos Aires e, nel novembre 2012, durante la celebrazione in commemorazione della Notte dei cristalli, nella cattedrale della città, organizzata insieme a rappresentanti del B’nei B’rith. Il cardinale Bergoglio espresse immediatamente la sua profonda solidarietà alla comunità ebraica di Buenos Aires quando una bomba fu fatta esplodere nel 1994 nel centro ebraico; nell’undicesimo anniversario di tale attentato, egli fu tra i primi a firmare un documento che chiedeva che si facesse giustizia per le vittime. Nel 2010 insieme ad alcune personalità ebraiche, egli visitò il nuovo centro che era stato ricostruito, in segno di solidarietà e incoraggiamento. Il cardinale Bergoglio ha ripreso volentieri l’espressione «fratelli maggiori», coniata da Papa Giovanni Paolo II per gli ebrei, poiché in essi ha realmente visto fratelli e sorelle con cui condividere il pellegrinaggio verso Dio.
Il giorno successivo alla sua elezione sul soglio pontificio, Papa Francesco inviava alla comunità ebraica di Roma una lettera in cui affermava la sua decisa volontà di promuovere il dialogo: «Spero vivamente di poter contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal concilio Vaticano II, in uno spirito di rinnovata collaborazione e al servizio di un mondo che possa essere sempre più in armonia con la volontà del Creatore».
Sin dall’inizio, è stato dunque evidente che il nuovo Pontefice si sarebbe adoperato senza riserve in favore del dialogo con gli ebrei, al fine di approfondire e intensificare i vincoli di amicizia già esistenti. Papa Francesco ha confermato tale intenzione più volte nel corso degli ultimi anni. In Vaticano, egli ha ricevuto moltissimi rabbini e delegazioni ebraiche, e, durante i suoi viaggi, ha incontrato regolarmente rappresentanti dell’ebraismo. Già nel secondo anno di pontificato, si è recato in Israele, dove, il 26 maggio 2014, si è raccolto in preghiera al Muro del Pianto, ha incontrato i due rabbini capo di Israele, ha reso omaggio alle vittime della Shoah presso lo Yad-Vashem e ha parlato ai sopravvissuti di questa tragedia. Anche in tali circostanze, Papa Francesco ha dimostrato la sua profonda sensibilità, la sua capacità di comprendere il prossimo, la sua empatia soprattutto nei confronti di chi è segnato dalla sofferenza. Nel contatto personale che si traduce in gesti concreti di vicinanza e di calore umano, egli testimonia così la tenerezza e la benevolenza di Dio.
Nel discorso tenuto il 17 gennaio 2016 durante la sua visita alla sinagoga di Roma, egli ha ricordato che apparteniamo tutti alla grande famiglia di Dio, e si è detto grato per quanto è stato realizzato finora nel dialogo ebraico-cattolico. Ebrei e cristiani, in questo mondo secolarizzato, sono chiamati insieme a portare Dio agli uomini. In occasione del suo viaggio a Cracovia per la giornata mondiale della gioventù, egli ha visitato il 29 giugno 2016 il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, dove non ha voluto tenere alcun discorso, ma si è raccolto in silenzio per pregare per le vittime della Shoah: in alcune circostanze le parole possono essere vane, rispetto all’umile preghiera del cuore a Dio. E la preghiera, per Papa Francesco, rimane al centro di ogni sua azione, il motore del suo impegno concreto e tangibile, in ogni campo e a ogni livello.
In conclusione, se si volge l’attenzione all’operato degli ultimi tre Pontefici, emerge in ognuno di loro la volontà efficace di promuovere e approfondire il dialogo ebraico-cattolico. Questa amicizia tra cristiani ed ebrei è sempre stata costante, pur assumendo sfumature e stili diversi a seconda della personalità di ciascun Pontefice: Giovanni Paolo II è stato un Papa di grandi gesti e immagini pregnanti; Benedetto XVI si è servito della forza della parola e della profondità della riflessione teologica; Francesco è il Papa che riesce a trasmettere umanità e tenerezza, che sa farsi vicino a tutti.
(fonte: Il Sismografo - articolo pubblicato in L'Osservatore Romano 16-17 gennaio 2017)
Dialogo cattolici-ebrei: l'importanza delle radici
di Cristiano Bettega
direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei
... È dal 1990 che la Conferenza Episcopale Italiana propone una Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei; e non è un caso che il tema della prima di queste giornate puntasse l’attenzione su «La radice ebraica della fede cristiana e la necessità del dialogo».
Israele infatti, inteso in quell’inesprimibile intreccio che è la sua storia, la sua cultura, la sua fede, il suo appartenere a una terra e ad ogni terra, «è la radice santa, dalla quale si sviluppa il cristianesimo», come sottolinea, tra gli altri, il catechismo degli adulti della Chiesa cattolica italiana (11,5). La radice, quindi: insopprimibile, necessaria per far sì che la pianta sia nutrita.
Certo, l’ebraismo non può essere ridotto a qualcosa di nascosto e sotterraneo, come in genere sono le radici; tutt’altro, esso continua la sua vita in una molteplicità di forme e di «rami», per così dire, che ne denotano tutta la vitalità. A dispetto di chi ancor oggi pensa che l’ebraismo sia una questione da museo, testimone fossilizzato di una storia conclusa con l’avvento del cristianesimo. Assolutamente, l’ebraismo resta un albero imponente e maestoso, che grazie a Dio nemmeno le mosse più bieche e peccaminose della storia sono riuscite ad annientare.
Il fatto quindi che i cristiani guardino agli ebrei come alla loro «radice santa» non equivale a sminuirne l’importanza o a sotterrarne il valore; piuttosto significa riconoscere che proprio da lì continuiamo a prendere la linfa indispensabile per la vita. Tagliare questo legame, o anche soltanto misconoscerne l’importanza, si tradurrebbe per i cristiani in una condanna a morte.
Si intuisce allora come non è un caso che questa Giornata per il dialogo ebraico-cristiano sia stata fissata al 17 gennaio di ogni anno: come il portale di apertura della Settimana di preghiera per l’unità dei credenti in Cristo, come il primo, insostituibile movimento di una sinfonia, i cui legami meritano ancora di essere scoperti, approfonditi, valorizzati. Legami, inoltre, capaci di rimettere in circolo linfa vitale anche per i rapporti tra i cristiani stessi, siano essi di tradizione ortodossa, cattolica o protestante. Sono convinto infatti che ogni sforzo di conoscenza reciproca tra cristiani ed ebrei, ogni impegno teso a riconoscere come il cristianesimo sia impensabile senza l’ebraismo di ieri e di oggi non possa che portare frutti buoni. Proprio come ogni pianta di valore che sa conquistarsi tutta la cura del suo giardiniere: un’attenzione mai superficiale o occasionale, una premura capace di arricchire tutte le stagioni dell’anno, e tutti gli anni della vita.
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Palermo, Oratorio di Santa Maria del Sabato alla Meschita affidato da mons. Lorefice in comodato d’uso alla Comunità ebraica
“È con grande gioia – afferma mons. Lorefice – che rispondiamo alla richiesta pervenutaci tramite Evelyne Aouate, presidente dell’Istituto Siciliano di Studi Ebraici, di avere un luogo di studio e di culto per la comunità ebraica di Palermo. La chiesa di Santa Maria del Sabato, da tempo inutilizzata per le celebrazioni liturgiche, ci è sembrata particolarmente significativa per il riferimento allo shabbat. Stiamo cogliendo, in questo momento storico così difficile, passo dopo passo, i frutti di un sincero cammino di dialogo e di cordiale amicizia”.
L’Oratorio di S. Maria delle Grazie, detta del Sabato, sorge nell’area un tempo occupata dagli antichi borghi ebrei della “Guzzetta” e della “Meschita”. Il quartiere ebraico di Palermo, compreso tra via Maqueda e via Roma, mantiene ancora oggi, anche dopo cinquecento anni, alcune delle caratteristiche strutturali dell’edilizia ebraica, che prevedeva la possibilità di chiusura degli accessi identificabili in alcuni passaggi ad arco, inseriti nelle cortine edilizie delle strade. È proprio attraverso una cornice di passaggio, lungo l’attuale via Calderai, costituita dall’arco della Meschita, che è possibile accedere all’Oratorio della Compagnia di San Nicolò da Tolentino, che nel 1507 aveva edificato la propria chiesa lì dove esisteva, fino al 1492, una sinagoga, detta “Meschita”, nome con cui i cristiani chiamavano qualsiasi edificio sacro non cristiano.
“La concessione di uno spazio di proprietà dell’arcivescovado di Palermo ad uso di preghiera e studio per la neonata sezione ebraica nel capoluogo siciliano rappresenta un fatto storico. Una concreta testimonianza di risveglio e di rinascita ebraica a oltre 500 anni dagli infamanti editti di espulsione che misero fine, anche nel sangue, a secoli di presenza e impegno sul territorio. Una Palermo che si afferma e si pone al centro di un intenso dialogo multiculturale e di esempio per tutto il Mediterraneo”. Lo dichiarano, in una nota, Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, e Lydia Schapirer, presidente della Comunità ebraica di Napoli. “Non possiamo che essere commosse e orgogliose per questo importante riconoscimento, che avviene negli stessi giorni in cui due nuove sezioni, in diretta relazione con la Comunità ebraica di Napoli, vedono la luce: Palermo, appunto, e Sannicandro Garganico”. Per Di Segni e Schapirer, “si tratta di un passo che rappresenta la maturazione di una proficua rete di relazioni già avviate nel tempo e di immensa portata storica che ci auguriamo possa avere un impatto molto significativo nel futuro del Meridione ebraico”. (fonte: SIR)
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Il Libro di Rut, dalle cinque Meghillot - 17 gennaio 2017
Come tema per i prossimi anni infatti si è scelto di tenere in considerazione le Meghillot, iniziando dal testo di Rut. I commenti sono stai affidati al Rabbino Alfonso Arbib, Rabbino di Milano e Presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, e a Mons. Ambrogio Spreafico, Vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.
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