I valori nascosti di un gesto
di Enzo Bianchi
Sono passati ormai sette anni – e innumerevoli sbarchi, naufraghi, profughi e morti – da quando, pubblicando un libro sugli stranieri e sull’ospitalità, volli dedicarlo “agli uomini, alle donne e ai bambini che, andando verso il pane e sognando la nostra accoglienza, sono morti da stranieri nelle acque del Mediterraneo, mare che avrei voluto che potessero amare e sentire ‘nostro’ come io lo sento e lo amo”. Ed ecco che un uomo, un cristiano, un papa venuto dalla fine del mondo sceglie l’estrema periferia sud dell’Italia per la sua prima uscita da Roma e va in pellegrinaggio a un santuario dell’umanità sofferente, quel mare che ha inghiottito migliaia di persone. Un gesto volto a esprimere la sollecitudine verso gli ultimi, i poveri, quelle categorie sociali che il dettato biblico affida alla custodia dei credenti perché prive di ogni tutela e diritto: l’orfano, la vedova, lo straniero. Un gesto quindi che esprime il modo con cui il vescovo di Roma vuole esercitare il suo ministero di pastore – la cui voce e i cui gesti sono indirizzati a tutti – e vuole praticare la prossimità, la vicinanza come primo passo per amare gli altri.
Un gesto altamente simbolico, ma soprattutto profetico quello posto risolutamente e semplicemente da papa Francesco, capace di interrogare le coscienze – e anche di infastidirne molte, che però si dicono “pronte a difendere la vita”, come si è visto e letto nei giorni che lo hanno preceduto – e di ridestare non tanto l’attenzione quanto le orecchie e il cuore di ciascuno, la capacità che ogni essere umano ha di riconoscere nell’altro un proprio simile, un fratello e una sorella che condivide la comune umanità al di là di ogni differenza di etnia, lingua, appartenenza. Un gesto che vuole ricordare a tutti, a cominciare da chi ha responsabilità politiche ed economiche, che nessun essere umano è clandestino su questa terra, che ciascuno ha diritto a veder riconosciuta e rispettata la propria dignità, che migranti, profughi, esuli, vittime di guerre e di carestie non si metterebbero in viaggio se trovassero pane e giustizia là dove sono le loro radici e il loro cuore. Un gesto che vuole provocare la coscienza di tutti gli uomini e vuole “spingere a riflettere e a cambiare comportamento”.
Papa Francesco ha lanciato questo appello come pastore cristiano che cerca di ritornare alla semplice essenzialità del vangelo che, “nascosta ai sapienti e ai dotti, è rivelata ai piccoli” (Mt 11,25). Così la visita a Lampedusa, il ricordo dei morti e dei sopravvissuti, la gratitudine per chi si è speso nell’accoglienza, l’intero evento è stato posto sotto il segno della dimensione penitenziale e dell’invocazione della remissione dei peccati. Colore dei paramenti violaceo, letture bibliche, sobrietà di parole, gesti e riti: tutto si è articolato nello spazio del credente che si pone di fronte a Dio chiedendo perdono per i peccati commessi, peccati che, come ben sappiamo, sono spesso segnati anche da ciò che noi riduciamo a semplice “omissione” ma che può avere sul nostro prossimo l’effetto di una condanna a morte. Come Erode ha seminato morte per il proprio benessere, anche noi di fatto per il nostro benessere procuriamo morte e miseria a quelli con i quali non condividiamo l’unica terra e le sue risorse. Anche l’altare-barca su cui ha celebrato papa Francesco era significativo: mi sono venute in mente le parole di Giovanni Cristostomo: “Ogni volta che vedrete un povero, ricordatevi che sotto i vostri occhi avete un altare non da disprezzare ma da onorare”...
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