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lunedì 19 agosto 2024

Chiesa - Spiritualità - Salvezza Riflessioni su ieri, oggi e domani che riguardano tutti.

Chiesa - Spiritualità - Salvezza
Riflessioni su ieri, oggi e domani
che riguardano tutti.


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Mons. Roberto Repole 
"La crisi della Chiesa che torna minoranza e fa pseudo-carità"

Pubblichiamo parte dell'articolo "Riflessioni sulla Chiesa del futuro" dell'arcivescovo di Torino Roberto Repole dalla rivista "Vita e pensiero", bimestrale dell'Università Cattolica di Milano in vendita in libreria. Il tema è quello della Chiesa delle origini, fatta di comunità piccole, che nei secoli ha attraversato le epoche della cristianità, ormai esaurita. Ora la Chiesa dunque torna simile a quella degli inizi.



Come sarà la Chiesa fra dieci, venti, trent’anni? Come dobbiamo ragionare di fronte ai numeri della partecipazione religiosa in forte calo o alla notizia di intere parrocchie che vengono cancellate?

Generalmente gli studiosi distinguono il concetto di “cristianità” e di “cristianesimo”. Cosa si intende per cristianità? Proprio quel nuovo modo di essere cristiani, nel quale la Chiesa non era più minoranza bensì maggioranza, anzi divenne la totalità. Appartenere alla società civile e appartenere alla Chiesa divenne un tutt’uno. Con annessi e connessi.

Siccome dominava la cultura imperiale, la Chiesa assorbì quella cultura e quella forma mentale. Rispetto all’imperatore, che era divenuto anch’esso cristiano, si cominciò a dire che il papa aveva un potere superiore, che però si esprimeva nelle stesse forme del potere dell’imperatore. Sorse quello che noi oggi chiamiamo “clericalismo”: c’era qualcuno che pensava di essere più cristiano di altri.

Per farla breve, dal IV secolo in avanti noi abbiamo ereditato questo nuovo modo di essere Chiesa maggioranza, che si è tradotto in tante forme strutturali esteriori. La Chiesa si è ramificata in tutti i territori, coprendoli interamente con i propri servizi. A un certo punto si è pensato che la missione dell’evangelizzazione fosse addirittura compiuta, conclusa, che non ci fosse più nessuno da convertire.

Solo la scoperta delle Americhe riattivò l’idea dell’annuncio. Nei secoli recenti, sotto i colpi della cultura moderna, la sovrapposizione fra società civile e Chiesa ha cominciato a incrinarsi.

La teologia dell’Ottocento e soprattutto del Novecento, il magistero del secolo scorso, in particolare grazie al grande evento della Chiesa che è stato il Concilio Vaticano II, hanno cominciato a prendere consapevolezza che occorresse ripensare la Chiesa non più secondo il modello della “cristianità” maggioritaria.

Finita l’epoca costantiniana, l’epoca della cristianità, si è aperta la fase della “postcristianità”. Dal Concilio sono trascorsi sessant’anni. È stata una lunga storia, ma oggi noi dobbiamo essere consapevoli di essere la stessa Chiesa di sempre, solo in modi rinnovati. Siamo tornati a essere una Chiesa – verrebbe da dire – più simile a quella degli inizi della vicenda cristiana.

La grande fatica che oggi dobbiamo affrontare è quella di ripensarci, non essendo più la totalità, forse neppure più la maggioranza. Ritrovando la freschezza degli inizi, quando i cristiani erano una minoranza. Sappiamo di trovarci a un guado, in un passaggio: ciò che abbiamo ereditato, il modo di essere Chiesa dei secoli passati, non esiste più. Si tratta di passare a un altro modo, che però non abbiamo ancora in mente e soprattutto non abbiamo nella carne. Questa situazione può creare un po’ di sconcerto, un po’ di timore. Oggi la Chiesa, in Europa, continua a essere riconosciuta come un’istituzione molto importante. Ad esempio per quanto riguarda l’impegno nel sociale. Il papa è invocato come autorità mondiale, come mediatore per la pace in Ucraina, è un’autorità riconosciuta ben al di là del mondo cristiano.

Per altro verso, la Chiesa sta perdendo la capacità di informare i comportamenti delle masse: penso ai cosiddetti temi etici, alla questione dell’affettività, della difesa della vita.

Su questi temi la Chiesa ha sempre meno presa nell’opinione pubblica, e ben poca nei comportamenti.

Io sono convinto che nel mondo di oggi, e anche di domani, la Chiesa divenuta minoranza continuerà a collaborare in mille modi alla vicenda degli uomini e a intervenire laddove ci sono povertà e umiliazioni.

Povertà materiali, ma anche spirituali. Rispetto all’impegno sociale, per rimanere la Chiesa di Gesù Cristo ed essere vigili, dovremo fare molta attenzione nel futuro a non accontentarci di operare una “pseudo-carità”, separata dall’adesione a Gesù.

La Chiesa non può limitarsi ad aiutare i poveri, dovrà essere profetica per non limitarsi a soccorrere le vittime della società ipercapitalista, che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Una Chiesa radicata in Gesù, anche se minoritaria, non si adeguerà al mantenimento degli status quo e lavorerà per progettare una società più giusta, più equa, senza persone strutturalmente condannate alla marginalità.

Ci si chiede poi dove siano finiti i giovani, che disertano le chiese. La Chiesa di oggi non è solo minoritaria, ma in forte invecchiamento. In verità non solo la Chiesa, ma l’intera società occidentale.

I motivi sono moltissimi. C’è poca fiducia nella vita e nel futuro, viviamo pochi orizzonti di speranza, anche perché siamo immersi in una cultura che non offre spiragli di speranza.

Rimanere desti rispetto alla cultura nichilista è uno dei grandi compiti dei cristiani in questo tempo. La scarsa adesione dei giovani all’esperienza cristiana mi fa pensare che la Chiesa oggi non è più percepita come risorsa spirituale. È una grave povertà, se consideriamo la ricchezza straordinaria della nostra tradizione spirituale.

Viviamo un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità. I giovani chiedono proposte alte. Ma, lo ripeto, la Chiesa può offrire soltanto ciò che vive.

In definitiva, io credo che molti cristiani non sentano più l’urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri. Credo che in maniera sottile molti cristiani facciano proprio il nichilismo contemporaneo o, se volete, quella forma di nichilismo che è l’assoluto relax, il relativismo.

Una cosa vale l’altra. Ma io non sto nella Chiesa e non sono cristiano se una cosa vale l’altra. Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo.

Chiedo perdono, ma per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano.

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Vito Mancuso
Spiritualità

La sopravvivenza della nostra civiltà è a rischio: la crisi della fede non è che un sintomo. L'assenza di fede e speranza nuoce enormemente alla salute mentale dei ragazzi


La Stampa 15 agosto 2024

L’arcivescovo di Torino ha scritto qualche giorno fa su questo giornale: “La scarsa adesione dei giovani all’esperienza cristiana mi fa pensare che la Chiesa oggi non è più percepita come risorsa spirituale”. Duemila anni fa Plutarco, storico, filosofo e sacerdote del tempio di Delfi, si chiedeva: “Perché sono deserti i templi degli Dei?”. Con parole diverse è la medesima constatazione. Altrove Plutarco aveva riferito dell’urlo straziante che annunciava al mondo la morte del dio Pan, il più pagano degli Dei, quindi la morte del paganesimo, constatando il lento ma inarrestabile declino della civiltà classica: aveva visto bene, perché quattro secoli dopo il declino sarebbe culminato nelle invasioni barbariche e nell’insediamento di un’altra civiltà …

Oggi quella civiltà che si era insediata e che con una parola sola possiamo chiamare europea, cioè la nostra civiltà, mostra a sua volta i segni di un declino forse altrettanto inarrestabile. Una delle prime attestazioni del declino dell’Europa cristiana risale a due secoli fa, quando Hegel nelle sue lezioni all’Università di Berlino affermava: “Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero Romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso e non di ciò che è in sé e per sé, che era abbandonato anche nel pensiero”.

Per Hegel, e prima ancora per Plutarco, il declino della religione va di pari passo con il declino della politica. Entrambe segnalano lo stato di salute dello spirito umano rispetto alla storia: quando lo spirito è in salute produce una religione e una politica che fanno evolvere la storia e la natura; quando invece lo spirito è debole e malato, sono la storia e ancor più la natura a prendere il sopravvento riducendo ogni cosa a una spietata lotta di sopravvivenza dell’uno contro l’altro. “Bellum omnium contra omnes”, per usare la celebre espressione di Thomas Hobbes: “Guerra di tutti contro tutti”. Continuava Hegel: “Come Pilato domandò: «che cos’è la verità?», così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato. È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva. Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva”. E concludeva: “Noi non sappiamo, non conosciamo niente di Dio”.

Non è forse così? Credo che ognuno di noi abbia l’attestazione quotidiana di questo stato di cose per il quale vale sono il volere soggettivo, nella completa assenza di un canone oggettivo che normi l’etica, l’estetica, l’educazione e le altre espressioni della soggettività umana. È rimasto solo il diritto a tenerci insieme, ma esso lo può fare e lo fa solo grazie alla forza. Il risultato è che la nostra civiltà è attraversata da litigiosità e conflittualità crescenti, siamo in preda all’ira e alla collera, a una aggressività senza limiti che genera querele, cause, sentenze, ricorsi, appelli senza fine, e uno stato generale di ansia, di paura, di panico (termine che deriva da Pan, a significare che il vecchio dio, in realtà, non è per nulla morto). Mancando la religio, manca l’humanitas; e mancando l’humanitas, mancano le condizioni per capirci, a partire dalle parole e dalle buone maniere, e così vivere insieme se non proprio da soci, per lo meno da buoni vicini. Ma noi non siamo buoni vicini gli uni con gli altri, siamo stranieri: stranieri morali, il grado più alto di estraneità. E siamo ridotti così perché, come diceva Hegel, “non conosciamo più niente di Dio”.

Una civiltà è tanto più forte quanto più conosce il divino, ed è tanto più debole quanto più lo ignora. Non si tratta ovviamente di una conoscenza catechistica e dottrinaria; si tratta piuttosto di quella esperienza concreta ed esistenziale che porta l’essere umano ad avere nel centro del proprio cuore un altare, uno spazio ideale che gli fa riconoscere e venerare qualcosa di più importante del proprio interesse particolare o “godimento privato”. La comune condivisione di tale altare fa di una massa anonima di singoli un insieme di soci, una società; e i singoli in questo modo trascendono il proprio interesse particolare e danno origine a una civiltà, termine che in latino, significativamente, si dice “humanitas”.

Oggi però l’assenza di “religio” va di pari passo con l’assenza di “societas” e di “humanitas”. Tutto il mondo ne soffre, ma in particolare l’Occidente, il territorio più secolarizzato e quindi più sradicato. Il problema sollevato dall’arcivescovo di Torino ha quindi una dimensione che va ben al di là della sola dimensione religiosa: non si tratta cioè della sopravvivenza di una particolare religione e dell’istituzione che la rappresenta; si tratta, ben più in profondità, della sopravvivenza di una civiltà, la nostra, e della salute psichica ed esistenziale di ognuno di noi, a partire dai nostri ragazzi che sono le prime vittime di questa mancanza di ideali, di speranza, di visioni, di fiducia.

C'era un tempo in cui il cristianesimo pensava di potersi proporre come rimedio ai mali del mondo, oggi invece esso è parte del problema. L’aveva constatato ormai quasi vent’anni fa il cardinale Carlo Maria Martini: “Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà… che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più questi sogni” (da “Conversazioni notturne a Gerusalemme”).

La gravità della crisi appare dal fatto che nella Chiesa sembrano proprio mancare le menti in grado di avvertire le dimensioni del problema. Ancora si ritiene che basti qualche ritocco qua e là, qualche mezza apertura più di facciata che di sostanza, come quelle proposte dal pontificato di papa Francesco. La situazione però è quella fotografata dall’arcivescovo di Torino: “Viviamo un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità”. Ma se una religione non offre veri cammini di spiritualità a cosa serve? È come tenere aperto un ristorante che non offre da mangiare.

Concludo riportando ancora il pensiero del cardinal Martini: “Mi ha sempre entusiasmato Teilhard de Chardin, che vede il mondo procedere verso il grande traguardo, dove Dio è tutto in tutto… L’utopia è importante: solo quando hai una visione lo Spirito ti innalza al di sopra di meschini conflitti”. L’ultima cosa a cui sono interessato sono i meschini conflitti. Se mi sono permesso di riprendere e commentare le affermazioni dell’arcivescovo di Torino è per contribuire a intravedere una nuova utopia, visto che quella che per secoli governava le menti cristiane, cioè la cristianizzazione del mondo, è finita. Oggi nessuno più può lecitamente sperare che tutto il mondo diventi cristiano. Per questo non è più sostenibile affermare che “non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo”. È superato non solo l’assioma “extra Ecclesiam nulla salus” (non c’è salvezza fuori della Chiesa), ma lo è anche quello ancora più decisivo “extra Christum nulla salus”. La salvezza (dal peccato, dal nichilismo, dal male, dalla cattiveria, dalla guerra interiore che divora i nostri cuori) giunge a tutti coloro che la cercano invocando i nomi che ognuno conosce e vivendo secondo lo spirito dell’amore e della giustizia. È lo Spirito a volere così, quello Spirito che guida il mondo e che sempre parla tramite i suoi grandi profeti, da Gioacchino da Fiore a Teilhard de Chardin e Carlo Maria Martini e tanti altri nomi benedetti.
(fonte: sito dell'autore)

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Gabriele Cossovich
Repole-Mancuso: il problema è cosa si intende per “Salvezza”

Il dibattito di questi giorni ha riguardato la necessità di Gesù Cristo per la Salvezza, ma né Repole né Mancuso ne hanno dato una definizione, mentre è proprio ciò che si intende per "Salvezza" a svuotare le chiese oggi.


Aggiungo anch’io qualche parola al dibattito tra Roberto Repole e Vito Mancuso, sul quale in molti hanno scritto – non ultimo Stefano Fenaroli qui su Vinonuovo.itprovando a riflettere sulle questioni e tralasciando i giudizi sulle persone.

Mi pare che l’oggetto della discussione, su impulso di Mancuso, si sia spostato dal tema centrale dell’articolo di Repole, ossia il futuro della fede cristiana e della Chiesa a fronte della crisi attuale, a quello dell’esclusività della Salvezza attraverso Gesù Cristo. Questo spostamento nasce, a mio parere, da un fraintendimento da parte di Mancuso (e di Fenaroli): nel suo testo Repole non affronta il tema dell’esclusività della Salvazza cristiana. La frase incriminata – “Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo” – è una citazione (evidentemente fraintendibile) posta a conclusione di un testo la cui tesi fondamentale è che l’adesione a Gesù Cristo permette, ancora oggi, di accedere alla vicinanza di Dio, alla bellezza di una vita buona e umanizzante, e che da qui la Chiesa deve ripartire. Come sottolineato da Maurizio Gronchi nella sua replica a Mancuso, Repole, citando At 4, non può aver voluto dire qualcosa di diverso da quanto il Concilio Vaticano II ha affermato in merito alla Salvezza, aprendola a “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia” (Gaudium et Spes 22). Nessuna affermazione di esclusività dunque. Non è questo quindi, a mio parere, il tema sul quale vale la pena soffermarsi.

La questione vera posta da Repole è la crisi che incontrano la Chiesa e la fede cristiana oggi e come affrontarla, ed è su questo che vorrei spendere qualche parola provando ad approfondire e facendo qualche rilievo alla prospettiva del Vescovo di Torino. Nella sua disamina ciò che Repole individua come causa della situazione attuale è il venir meno di un’adesione convinta e testimoniale a Gesù Cristo da parte dei cristiani: “oggi non mi preoccupa che la Chiesa diventi minoranza, ma che non si percepisca che il Dna della Chiesa è Gesù Cristo”; “io credo che molti cristiani non sentano più l’urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri”. La sua proposta è quindi suscitare un nuovo radicamento in Gesù Cristo per costruire comunità cristiane che, pur se minoritarie, siano presenze significative nella società, per l’umanità. Il passaggio che Repole però non chiarisce – e che a mio parare è decisivo – è il motivo di questo venir meno oggi, anche tra i cristiani, del riferimento a Gesù Cristo. Da cosa è causato? Nel testo afferma di credere che “molti cristiani facciano proprio il nichilismo contemporaneo”, ma perché di fronte al nichilismo la proposta cristiana risulta essere così poco attraente, così poco convincente e competitiva? Perché in un mondo in cui “c’è poca fiducia nella vita e nel futuro, […] una cultura che non offre spiragli di speranza” la fede e la speranza cristiana non riescono ad essere delle risposte credibili? Un tempo senza speranza non dovrebbe essere un terreno fertile per chi si professa portatore di speranza, come i cristiani?

Da questo punto di vista sono d’accordo con quanto afferma Mancuso: “il problema, sia chiaro, non è del mondo, che va per la sua strada, ma del cristianesimo, le cui chiese rimangono vuote”. Il problema non è un mondo in cui “una cosa vale l’altra” ma una proposta cristiana che non riesce a farsi percepire come qualcosa che vale davvero. E qui, secondo me, è decisivo il tema della Salvezza cristiana, di cui tanto si è discusso rispetto all’esclusività, ma della quale né Repole, né Mancuso danno una definizione precisa. La Salvezza è ciò che la fede cristiana offre come possibilità al credente, ciò che Gesù Cristo, morto e risorto, e la fede in lui rendono possibile per i suoi discepoli. In cosa consiste questa Salvezza? Tenendo come riferimento GS 22 potremmo sintetizzare dicendo che Gesù Cristo salva l’uomo dal peccato, dalla morte e, potremmo dire, dalla “separazione con Dio”. Ora, è del tutto evidente come nel contesto attuale l’offerta di Salvezza dal peccato (con tutte le controversie che porta con sé rispetto al tema della grazia, del peccato originale, del sacrificio espiatorio…) e dalla morte risultano essere risposte a domande che non ci sono. Perché – sintetizzando male temi che chiederebbero molto più approfondimento – l’uomo di oggi percepisce come un’ingiustizia l’idea che si nasca già segnati dal peccato; vive il senso di colpa, il pentimento, la richiesta di perdono nel contesto delle relazioni interpersonali, non nel rapporto con Dio; focalizza la sua attenzione e la sua preoccupazione sulla vita concreta di ogni giorno, non su ciò che accadrà dopo la morte; non trova alcun valore in un’esistenza vissuta nel sacrificio o nell’aderire a prescrizioni morali in vista di una vita futura; percepisce come infantile e poco credibile la descrizione dell’aldilà propria dell’immaginario cristiano (giudizio, inferno, purgatorio, paradiso) preferendovi piuttosto, anche tra i credenti, descrizioni derivate da altri contesti culturali. Questo, prima di essere qualcosa con cui si è più o meno d’accordo, rappresenta un dato di fatto di cui prendere atto. Se la Salvezza cristiana è questo, se ciò che la relazione con Gesù Cristo offre è questo – che è quello che afferma la dottrina cristiana, che si insegna a catechismo, che si ripete nelle formule delle nostre liturgie deserte – è chiaro che il cristianesimo non ha nulla da offrire al mondo di oggi. (Con questo non sto affermando che questi temi debbano essere rimossi o che non siano veri per un credente, ma che qui l’uomo di oggi non trova nulla di interessante e desiderabile per la propria vita).

Questo è il motivo per cui oggi, anche tra i cristiani, viene meno l’adesione a Gesù Cristo, perché ciò che lui offre è associato nella maggioranza dei casi a qualcosa di cui nel contesto odierno non si sente alcuna esigenza. Di questo sembra essere consapevole anche Repole, che non a caso (ma sorprendentemente, a ben vedere) nel suo intervento, quando parla di ciò che Gesù Cristo rende possibile, non fa riferimento alla Salvezza dal peccato o dalla morte, ma alla “consapevolezza che Dio si è fatto vicino”, a un’“etica e a una vita buona che nascono dall’adesione a Gesù Cristo”, al “patrimonio del Vangelo” che motiva l’impegno sociale, la preferenza per i poveri, la lotta contro le ingiustizie… Una prospettiva incentrata sull’oggi, su ciò che di buono e di bello l’uomo Gesù, che la fede cristiana chiama Dio, ci consegna come possibilità di vita. Da questo punto di vista Repole va nella stessa direzione di Mancuso, ossia quella della tanto discussa spiritualità (dove la differenza tra i due permane nel riferimento esplicito ed esclusivo a Gesù Cristo in Repole, che Mancuso integra con altre tradizioni, le quali però, nella sostanza, si muovono nella stessa prospettiva). Coincide questo con il terzo “aspetto” della Salvezza, che ho sinteticamente chiamato “Salvezza dalla separazione con Dio”. GS 22 recita così: “Il cristiano poi, reso conforme all’immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli riceve «le primizie dello Spirito» (Rm8,23) per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore. In virtù di questo Spirito, che è il «pegno della eredità» (Ef 1,14), tutto l’uomo viene interiormente rinnovato”. In questa prospettiva la Salvezza cristiana consiste nell’essere abitati dallo Spirito di Dio – in questo senso non più separati da Dio –, nell’incontrare e fare proprio l’amore di Dio; quello stesso amore incarnato da Gesù Cristo, così da assumere nella propria vita il suo stesso sguardo, il suo stesso desiderio, i suoi stessi sentimenti. Significa riscoprire nei gesti, negli incontri, nelle parole di Gesù, nella sua tenerezza, nel suo rifiuto dell’ingiustizia, nel suo amare fino alla fine, l’evidenza di una bellezza capace di dare senso alla vita, capace di diventare bussola per gli sguardi e le scelte di ogni giorno.

Questa prospettiva spirituale (della quale ad esempio la teologia di Paolo Gamberini prova a rendere ragione nella prospettiva del post-teismo) è ben lontana dal considerare Dio e lo spirituale “come una realtà amorfa, indistinta, che tutto comprende, […] qualcosa che dovrebbe separarci da questo mondo, da questa realtà, cercando il proprio senso, la propria felicità in un “cielo” spirituale, dove non ci sono più differenze…” come scrive Fenaroli. Dà valore invece a quanto nelle Scritture e nella tradizione cristiana si afferma rispetto all’opera dello Spirito nell’uomo, alla presenza di Dio nel mondo e del mondo in Dio. Non per proporre di vivere al di là del mondo, ma radicati nel mondo, operando guidati dallo Spirito di Dio; non per annullare le differenze ma per affermare ciascuna come manifestazione inevitabilmente finita e parziale dello Spirito. Per rendere accessibile oggi ciò che la tradizione cristiana porta con sé da sempre, ma che è troppo spesso rimasto sepolto dietro una teologia e dei linguaggi che non dicono più nulla.

È a questo livello che la vicenda di Gesù può avere, secondo me – ma anche secondo Repole e Mancuso – ancora qualcosa da offrire all’uomo di oggi, perché viviamo in un mondo in cui “una cosa vale l’altra”, ma dove, soprattutto tra i più giovani, la ricerca di qualcosa che abbia senso è presente e viva, ed è con rassegnazione che vi si rinuncia. Il modo nuovo di essere Chiesa, di aderire e testimoniare Gesù Cristo, di cui parla Repole, non può che passare da qui, avendo il coraggio di ricentrare su questo livello l’annuncio cristiano.

Una precisazione prima di chiudere: è evidente come a questa spiritualità sia possibile giungere a partire da Gesù Cristo (Repole) così come da altre prospettive (Mancuso), coerentemente con quanto affermato da GS 22 riguardo la Salvezza accessibile a “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia”.
(fonte: Vino Nuovo 16/08/2024)