Marcello Neri*
Francesco e le belle lettere
Sanctuary (Scott Norris)
È entrata in scena una mattina di mezza estate, francamente inaspettata, la lettera di papa Francesco Sul ruolo della letteratura nella formazione. Pensata in prima battuta come indirizzata ai seminaristi e ai preti, oramai dimentichi di un tempo in cui il sapere letterario faceva parte della loro preparazione al ministero e del suo esercizio pastorale, nella versione finale si rivolge a “qualsiasi cristiano” (n. 1).
Un testo fuori dagli schemi, intrigante e sornione, dove, come nella letteratura, il lettore/lettrice diventa, nel gioco del testo, altro autore: “nella lettura di un libro il lettore è molto più attivo. In qualche modo riscrive l’opera, la amplifica con la sua immaginazione, crea un mondo, usa le sue capacità, la sua memoria, i suoi sogni, la sua stessa storia piena di drammi e simbolismi, e in questo modo ciò che emerge è un’opera ben diversa da quella che l’autore voleva scrivere” (n. 2).
Perché attraverso il fuoco della letteratura, papa Francesco intravede una destinazione ben calibrata di questa sua Lettera – destinazione che potrà manifestarsi se il lettore/lettrice si lascerà attrarre dall’intrigo teologico che essa mette in campo. Possibilità, questa, inevasa dal testo della Lettera perché possibile solo alla complicità dell’intelligenza e della sensibilità di chi la legge.
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Essa, infatti, è composta intorno a due fuochi – come se fosse un’ellisse. Il primo, più evidente, ha un profilo edificante-formativo a cui va riconosciuto il suo merito. La dimenticanza ministeriale della letteratura è “all’origine di una forma di grave impoverimento intellettuale e spirituale dei futuri presbiteri, che vengono in tal modo di un accesso privilegiato, tramite appunto la letteratura, al cuore della cultura umana e più nello specifico al cuore dell’essere umano” (n. 4).
Dichiarare irrilevante, per la fede e il ministero, il mondo letterario significa “mettere a tacere i simboli, i messaggi, le creazioni e le narrazioni con cui (le culture, n.d.a.) hanno catturato e voluto svelare ed evocare le loro imprese e gli ideali più belli, così come le loro violenze, paure e passioni più profonde” (n. 9).
Il cattolicesimo e la sua fede fanno un’enorme fatica a dire della violenza e della miseria che prosperano anche nella Chiesa, spesso in coloro che ne sono – o dovrebbero essere – ministri autorevoli. Su questo punto, il linguaggio cattolico ed ecclesiastico è affetto da una grande mistificazione, che stravolge la verità delle cose perché non sa, e non vuole, nominare le cose così come esse sono.
Riccardo Magris affermava che il cattolicesimo non sa più raccontare fiabe, forse perché non ne legge più – e forse anche perché non ha nessuno più a cui raccontarle… La fiaba è un genere narrativo pensato (anche) per la formazione della persona; è il luogo letterario in cui anche i cuccioli d’uomo possono fare le prime pratiche di fronteggiamento con i lati oscuri della vita e con la violenza che alberga nelle relazioni umane. Il male e l’oscurità non come problema degli altri, da noi già sempre risolto, ma come dato comune dell’umano vivere – che è anche il vivere del credente (e del prete).
“E nella violenza, limitatezza e fragilità altrui, abbiamo la possibilità di riflettere meglio sulla nostra. Nell’aprire al lettore un’ampia visione della ricchezza e della miseria dell’esperienza umana, la letteratura educa il suo sguardo alla lentezza della comprensione, all’umiltà della non semplificazione, alla mansuetudine del non pretendere di controllare il reale e la condizione umana attraverso il giudizio” (n. 39).
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Ma è il secondo fuoco dell’ellissi di questa Lettera a cogliere di sorpresa il lettore/lettrice disponibile a uscire dalla facile chiusura del cerchio. Perché nella complicità della lettura, che essa può solo invocare, questa Lettera di Francesco è l’incipit di una possibile teologia fondamentale a venire – letteralmente l’alter della Fides et ratio di Giovanni Paolo II.
Il teologo e la teologa fondamentale possono continuare a tirare martellate contro il chiodo oramai completamente conficcato nella parete che hanno davanti a loro, oppure possono dismettere l’arma di questa inutile battaglia e girarsi verso il mondo che esiste davvero. E scrivere quello che la Lettera non scrive e non dice – perché non lo sa, ma sa che continuare in questo esercizio di scrittura e lettura è vitale per il mondo e per la fede.
Al chiodo della ragione, oramai, non riusciamo ad appenderci più nulla – neanche quel briciolo di razionalità di cui abbiamo tutti così grande bisogno in questo momento. Ed ecco, allora, la suggestione a mettere in campo una rieducazione della stessa intelligenza della fede ricalibrata intorno al fuoco prismatico di fides et affectus. Perché se la ratio può immaginarsi come un monologo senza distinzione di voci, perfettamente unitaria nella solitudine della sua astrazione, l’affectus parla le lingue della vita e si condensa in quelle pratiche effettive del vivere che sono le culture.
“La missione ecclesiale ha saputo dispiegare tutta la sua bellezza, freschezza e novità nell’incontro con le diverse culture – tante volte grazie alla letteratura – in cui si è radicata senza paura di mettersi in gioco e di estrarne il meglio di ciò che ha trovato” (n. 10). Perché è nei dialetti della vita che è “possibile riconoscere la presenza dello Spirito nella variegata realtà umana, è possibile, cioè, cogliere il seme già piantato della presenza dello Spirito negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali” (n. 12).
Al cattolicesimo triste (e occidentale) dei nostri tempi, fatto di “un solipsismo assordante e fondamentalista che consiste nel credere che una certa grammatica storico-culturale abbia la capacità di esprimere tutta la ricchezza e la profondità del Vangelo” (n. 10), bisogna reagire opponendo quel “Cristo di carne” di pasoliniana memoria – il logos figliale “fatto carne, fatto umano, fatto storia” (n. 14). Il Gesù la cui carne è “fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza (…)” (n. 14).
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È dal mondo delle lettere che l’intelligenza evangelica della fede apprende la sensibilità necessaria per rendere onore al corpo vissuto e patito di Gesù (sulla scia di Paolo VI nel suo Discorso agli artisti, cf. n. 21): “L’originalità della parola letteraria consiste nel fatto che essa esprime e trasmette la ricchezza dell’esperienza non oggettivandola nella rappresentazione descrittiva del sapere analitico o nell’esame normativo del giudizio critico, ma come contenuto di uno sforzo espressivo ed interpretativo di dare senso all’esperienza in questione” (n. 35). E poi, poco più avanti, Francesco prosegue ricordando che “lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza (…)” (n. 40).
L’affectus, che si attesta nel mondo delle pratiche, porta con sé l’esigenza di una critica del giudizio affinché non venga esercitato “come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco in quella straordinaria ricchezza della storia dovuta alla presenza dello Spirito, che si dà anche come Grazia (…)” (n. 40).
Praticando il mondo delle lettere il linguaggio ecclesiale può fare esperienza di una liberazione dalla cattiva circolazione che lo racchiude in sé stesso, rendendolo opaco rispetto alla drammatica dell’esistenza umana e inespressivo rispetto alla passione degli affetti che Dio ha messo in gioco a favore dell’umanità e del mondo: ossia, l’idolo a cui il cattolicesimo e la Chiesa stanno sacrificando l’Evangelo del Regno (cf. n. 42).
Solo un linguaggio purificato nel crogiolo della letteratura può far risuonare quella godibilità dell’esperienza cristiana di Dio che Gesù ha assaporato nei giorni trascorsi con noi.
(fonte: Settimana News 09/08/2024)