Cristiani perseguitati.
NICARAGUA.
LA REPRESSIONE RELIGIOSA
DEL DITTATORE ORTEGA
di Gianni Beretta
La persecuzione religiosa in Nicaragua ha registrato un’incredibile impennata in questi ultimissimi giorni con la detenzione di ben 11 sacerdoti. Tutto è cominciato alla vigilia di Natale con l’arresto del vescovo di Siuna (Costa Atlantica) monsignor Isidoro Mora il quale si era permesso nell’omelia di pregare per il suo omologo di Matagalpa Rolando Alvarez, in carcere dal febbraio scorso con una condanna a 26 anni per “cospirazione e tradimento della patria”. Alvarez, mentre era già ai domiciliari, si era rifiutato di abbandonare il paese insieme ai 222 detenuti politici che vennero allora deportati e privati della nazionalità nicaraguense.
Oltre ai due prelati ammontano così a 14 i preti detenuti (insieme ad alcuni seminaristi). Senza contare i 12 presbiteri che nell’ottobre scorso erano stati spediti a forza a Roma. E le decine e decine che sono riparati all’estero o cui è stato proibito di far ritorno nel loro paese dopo un viaggio all’estero.
Ma se si rimonta all’indomani della rivolta popolare del 2018 repressa nel sangue dal regime, in questi cinque anni sono stati espulsi in totale 220 religiosi, a cominciare dalle monache della congregazione di Madre Teresa di Calcutta. Così come sono state chiuse tutte le radio e il canale tv cattolico. Fino a proibire processioni, messe per i morti nei cimiteri e feste religiose di varia natura. Per arrivare nel settembre scorso alla clamorosa confisca dell’Università centroamericana dei gesuiti e la messa fuori legge della Compagnia di Gesù.
L’altro giorno è finito in galera pure il vicario generale della diocesi di Managua, monsignor Carlos Aviles, che nel passato aveva criticato il presidente Daniel Ortega per accanirsi contro la chiesa. Mancherebbe ora solamente il cardinale capitalino, Leopoldo Brenes, la cui abitazione è comunque permanentemente sorvegliata dalla polizia da oltre un anno.
La regista di questo imperversante delirio è la copresidente Rosario Murillo, moglie del presidente Daniel Ortega. Che l’altro giorno, nel suo quotidiano messaggio radiofonico ha definito quei sacerdoti dei «diavoli che parlano di fede con sentimenti diabolici». Salvo poi chiudere come sempre le sue locuzioni inneggiando a «nostro signore iddio».
Papa Francesco ieri, nel suo primo Angelus del 2024, ha espresso la propria «vicinanza nella preghiera» al paese centroamericano «dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà», auspicando «un dialogo per superare le difficoltà». Ma dal marzo scorso Ortega e consorte hanno sospeso le relazioni diplomatiche con la Santa Sede, dopo averne cacciato il nunzio apostolico l’anno prima.
Mentre l’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani ha stigmatizzato il Nicaragua che «si allontana dallo stato di diritto violando le libertà fondamentali» nel corso di una deriva che ha visto l’incarceramento di ulteriori 120 detenuti politici, mentre si calcola che circa 600mila nicaraguensi (il 10% dell’intera popolazione) abbiano già abbandonato il paese.
(Fonte: “Il manifesto” - 2 gennaio 2023)
Nicaragua, così il potere
silenzia una Chiesa «scomoda»
Nelle ultime due settimane, ogni diciotto ore un operatore pastorale è finito in cella in Nicaragua per un totale di diciannove. La caccia del “Natale nero”, come l’hanno soprannominato, è cominciata il 20 dicembre con il fermo del vescovo di Siuna, Isidoro del Carmen Mora, catturato insieme ai due seminaristi Alester Sáenz y Tony Palacios, per la “colpa” di avere menzionato nell’omelia del giorno precedente il confratello Rolando Álvarez che sconta una condanna a 26 anni per “tradimento della patria” nel carcere di La Modelo di Managua. Nei giorni successivi è toccato ai sacerdoti Pablo Villafranca, Carlos Avilés, Héctor Treminio, Fernando Calero, Marcos Díaz Prado di León, Ismael Serrano, Silvio Fonseca, Miguel Mántica, Mykel Monterrey, Jader Hernández, Ervin López, Jaime Ramos, Gerardo Rodríguez, Raúl Zamora. Infine, Gustavo Sandino e Fernando Téllez.
Una lista incompleta. Vari fedeli hanno denunciato la sospensione sospetta delle celebrazioni in alcune parrocchie, dove i preti risulterebbero irreperibili. Uno scenario che suscita «forte preoccupazione», ha detto papa Francesco nel primo Angelus del 2024
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La ragione della contraddizione risiede nella natura della campagna anticlericale. Ad alimentarla non è la contrarietà ai contenuti religiosi di per sé. Bensì il rifiuto nei confronti delle loro ricadute nel contesto pubblico. La Chiesa viene aggredita in quanto ultimo spazio di autonomia nell’asfittica società nicaraguense. Una libertà – di parola e di azione nei confronti delle vittime dell’oppressione – a cui non può rinunciare per compiacere il potere. Non per ostinazione o per partigianeria. Si tratta della conseguenza della fedeltà al Vangelo che impone ai cattolici di perseguire la giustizia del Regno. In questo, il martirio della Chiesa di Managua ricorda quello della sorella salvadoregna negli anni Settanta e Ottanta, quando decine di preti, religiosi e religiose furono massacrati nonché centinaia di catechisti e laici impegnati.
Il caso più noto è senza dubbio quello di Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso da
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Servizio TG2000