SOLENNITÀ DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO APOSTOLO
CELEBRAZIONE DEI SECONDI VESPRI
LVII SETTIMANA DI PREGHIERA PER L'UNITÀ DEI CRISTIANI
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Giovedì, 25 gennaio 2024
Francesco: avanti nel cammino dell'unità,
la divisione non è mai di Dio
Nella Basilica di San Paolo fuori le mura, Papa Francesco celebra i Secondi Vespri della Solennità della Conversione di San Paolo che chiudono la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani. Nell'omelia sottolinea la chiamata alla conversione del cuore: solo l’amore “che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, ci unirà”
Papa Francesco presiede la celebrazione dei Secondi Vespri nella basilica di San Paolo fuori le mura
"Amerai il Signore Dio tuo ... e il prossimo tuo come te stesso", il tema della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani di quest'anno. Nella basilica di San Paolo fuori le mura, Papa Francesco presiede la celebrazione dei Secondi Vespri in chiusura della Settimana, nella Solennità della Conversione di San Paolo. Alla celebrazione con i 1500 fedeli che riempiono la basilica, sono presenti l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, e il Metropolita Policarpo in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico che Francesco ringrazia in modo particolare, i membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, e i vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’Unità e la Missione, in corso a Roma.
Il Papa ai Vespri per la conclusione della Settimana di preghiera per l'Unità dei Cristiani
Due domande sbagliate
"Che devo fare per ereditare la vita eterna?" e "Chi è il mio prossimo?", sono le due domande contenute nel brano del Vangelo di questa sera su cui il Papa si sofferma per dire subito che l'espressione "fare per ereditare" e quindi "per avere" indica "una religiosità distorta basata sul possesso anziché sul dono, dove Dio è il mezzo per ottenere ciò che voglio, non il fine da amare con tutto il cuore". Poi c'è quella sul prossimo:
Se la prima domanda rischiava di ridurre Dio al proprio “io”, questa cerca di dividere: dividere le persone in chi si deve amare e in chi si può ignorare. E dividere non è mai da Dio, è il diavolo, è il divisore. Gesù, però, non replica facendo teoria, ma con la parabola del buon samaritano, con una storia concreta, che chiama in causa anche noi.
Un momento della celebrazione a San Paolo fuori le Mura
Solo l'amore gratuito ci unirà
Il Samaritano del racconto evangelico, osserva il Papa, non è un sacerdote o un levita ma "un eretico" che si fa lui stesso prossimo prendendosi cura delle ferite di un fratello. La domanda da porsi non è, dunque, “chi è il mio prossimo?”, ma: “io mi faccio prossimo?”. Francesco prosegue:
Solo questo amore che diventa servizio gratuito, solo questo amore che Gesù ha proclamato e vissuto, avvicinerà i cristiani separati gli uni agli altri. Sì, solo questo amore, che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, solo questo amore ci unirà. Prima il fratello, dopo il sistema.
Che cosa devo fare, Signore?
"Chi è il mio prossimo", afferma il Papa, è una domanda che ci interpella tutti, come singoli e come Chiese. Le nostre comunità, suggerisce "si fanno prossime? O restano barricate in difesa dei propri interessi, gelose della loro autonomia, rinchiuse nel calcolo dei propri vantaggi?". Perchè "se così fosse, non si tratterebbe solo di sbagli strategici, ma di infedeltà al Vangelo". Il Pontefice ritorna poi alla prima domanda e fa notare come san Paolo, di cui oggi si ricorda la conversione, avesse posto la domanda giusta non ponendo obiettivi ma dicendo semplicemente: "che cosa devo fare, Signore"?
La sua conversione nasce da un capovolgimento esistenziale, dove il primato non appartiene più alla sua bravura di fronte alla Legge, ma alla docilità nei riguardi di Dio, in una totale apertura a ciò che Lui vuole. Se Lui è il tesoro, il nostro programma ecclesiale non può che consistere nel fare la sua volontà, nell’andare incontro ai suoi desideri.
Papa Francesco durante l'omelia
Desiderio del Signore è l'unità
E volontà del Signore è l'unità, afferma il Papa, "perché tutti siano una sola cosa", chiede Gesù al Padre. Per realizzare questo è necessaria la preghiera e la conversione del cuore. "Questa è la via: camminare insieme e servire insieme, mettendo la preghiera al primo posto". Preghiamo per l'unità, ribadisce il Papa, "e continuiamo a pregare pure per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa". Quindi ringrazia le comunità cristiane del Burkina Faso che hanno preparato i sussidi per la celebrazione della Settimana di preghiera per l'unità di quest'anno. "Possa l’amore al prossimo prendere il posto della violenza che affligge il loro Paese", dice Francesco e poi conclude:
Alzati, dice Gesù a ciascuno di noi e alla nostra ricerca di unità. Alziamoci allora, nel nome di Cristo, dalle nostre stanchezze e dalle nostre abitudini, e proseguiamo, andiamo avanti, perché Lui lo vuole, e lo vuole "perché il mondo creda".
Il mandato conferito da Francesco e dall'arcivescovo Welby
Al termine dell'omelia di Francesco è l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby - ricevuto questa mattina dal Papa in Vaticano - ad offrire a braccio la sua riflessione nella quale affida a Dio e a Maria il cammino verso l'unità, chiedendo i doni della libertà “dalle catene dell’odio” e dell’“amore” che è frutto proprio della libertà. Insieme all'arcivescovo anglicano, Francesco conferisce il mandato ai vescovi della Chiesa cattolica e di quella anglicana, membri della Commissione internazionale per l'Unità e la Missione, perchè insieme possano testimoniare l'unità voluta da Dio nelle rispettive regioni.
L'intervento del primate anglicano Welby
Il saluto finale del cardinale Koch
E' poi il cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani a concludere con il suo indirizzo di saluto la celebrazione. Il porporato ricorda che “Ama il Signore Dio tuo... e ama il prossimo tuo come te stesso”, la frase della Bibbia scelta dal gruppo ecumenico del Burkina Faso, "mette in evidenza che l’amore è particolarmente importante in tutti gli sforzi ecumenici". Quello che viene definito come l'"ecumenismo della carità", prosegue, è "il presupposto indispensabile" per "ogni dialogo teologico della verità". La carità non cancella le differenze, osserva ancora, ma "le concilia in un’unità ancora più bella". "Chiediamo al Signore di aiutarci, ogni volta che ci incontriamo tra noi cristiani, a comprendere sempre più a fondo il suo comandamento dell’amore e a viverlo in modo credibile, lasciandoci continuamente donare il suo amore nella preghiera".
(fonte: Vatican News, articolo di Adriana Masotti 25/01/2024)
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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, il dottore della Legge, sebbene si rivolga a Gesù chiamandolo «Maestro», non vuole lasciarsi istruire da lui, ma «metterlo alla prova». Una falsità ancora più grande emerge però dalla sua domanda: «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Fare per ereditare, fare per avere: ecco una religiosità distorta, basata sul possesso anziché sul dono, dove Dio è il mezzo per ottenere ciò che voglio, non il fine da amare con tutto il cuore. Ma Gesù è paziente e invita quel dottore a trovare la risposta nella Legge di cui era esperto, la quale prescrive: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27).
Allora quell’uomo, «volendo giustificarsi», pone un secondo interrogativo: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Se la prima domanda rischiava di ridurre Dio al proprio “io”, questa cerca di dividere: dividere le persone in chi si deve amare e in chi si può ignorare. E dividere non è mai da Dio: è dal diavolo, che è divisore. Gesù, però, non replica facendo teoria, ma con la parabola del buon samaritano, con una storia concreta, che chiama in causa anche noi. Perché, cari fratelli e sorelle, a comportarsi male, con indifferenza, sono il sacerdote e il levita, i quali antepongono ai bisogni di chi soffre la tutela delle loro tradizioni religiose. A dare senso alla parola “prossimo” è invece un eretico, un Samaritano, perché si fa prossimo: prova compassione, si avvicina e teneramente si china sulle ferite di quel fratello; si prende cura di lui, indipendentemente dal suo passato e dalle sue colpe, e lo serve con tutto se stesso (cfr Lc 10,33-35). Ciò permette a Gesù di concludere che la domanda corretta non è “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Io mi faccio prossimo?” Solo questo amore che diventa servizio gratuito, solo questo amore che Gesù ha proclamato e vissuto, avvicinerà i cristiani separati gli uni agli altri. Sì, solo questo amore, che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, solo questo amore ci unirà. Prima il fratello, dopo il sistema.
Fratelli e sorelle, tra di noi non dovremmo mai porci la domanda “chi è il mio prossimo?”. Perché ogni battezzato appartiene allo stesso Corpo di Cristo; e di più, perché ogni persona nel mondo è mio fratello, mia sorella, e tutti componiamo la “sinfonia dell’umanità”, di cui Cristo è primogenito e redentore. Come ricorda sant’Ireneo, che ho avuto la gioia di proclamare “Dottore dell’unità”, «chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo» (Adv. haer. II, 25, 2). Non dunque “chi è il mio prossimo?”, ma “io mi faccio prossimo?” Io e poi la mia comunità, la mia Chiesa, la mia spiritualità, si fanno prossime? O restano barricate in difesa dei propri interessi, gelose della loro autonomia, rinchiuse nel calcolo dei propri vantaggi, intavolando rapporti con gli altri solo per ricavarne qualcosa? Se così fosse, non si tratterebbe solo di sbagli strategici, ma di infedeltà al Vangelo.
“Che devo fare per ereditare la vita eterna?”: così era cominciato il dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. Ma oggi anche questa prima domanda viene ribaltata grazie all’Apostolo Paolo, di cui celebriamo, nella Basilica a lui dedicata, la conversione. Ebbene, proprio quando Saulo di Tarso, persecutore dei cristiani, incontra Gesù nella visione di luce che lo avvolge e gli cambia la vita, gli chiede: «Che devo fare, Signore?» (At 22,10). Non “che devo fare per ereditare?”, ma “che devo fare, Signore?”: il Signore è il fine della richiesta, la vera eredità, il sommo bene. Paolo non cambia vita sulla base dei suoi obiettivi, non diventa migliore perché realizza i suoi progetti. La sua conversione nasce da un capovolgimento esistenziale, dove il primato non appartiene più alla sua bravura di fronte alla Legge, ma alla docilità nei riguardi di Dio, in una totale apertura a ciò che Lui vuole. Non alla sua bravura ma alla sua docilità: dalla bravura alla docilità. Se Lui è il tesoro, il nostro programma ecclesiale non può che consistere nel fare la sua volontà, nell’andare incontro ai suoi desideri. E Lui, la notte prima di dare la vita per noi, ha ardentemente pregato il Padre per tutti noi, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Ecco la sua volontà.
Tutti gli sforzi verso la piena unità sono chiamati a seguire lo stesso percorso di Paolo, a mettere da parte la centralità delle nostre idee per cercare la voce del Signore e lasciare iniziativa e spazio a Lui. L’aveva ben compreso un altro Paolo, grande pioniere del movimento ecumenico, l’Abbé Paul Couturier, il quale pregando era solito implorare l’unità dei credenti “come Cristo la vuole”, “con i mezzi che Lui vuole”. Abbiamo bisogno di questa conversione di prospettiva e anzitutto di cuore, perché, come affermò sessant’anni fa il Concilio Vaticano II: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (Unitatis redintegratio, 7). Mentre preghiamo insieme riconosciamo, ciascuno a partire da se stesso, che abbiamo bisogno di convertirci, di permettere al Signore di cambiarci il cuore. Questa è la via: camminare insieme e servire insieme, mettendo la preghiera al primo posto. Infatti, quando i cristiani maturano nel servizio di Dio e del prossimo, crescono anche nella comprensione reciproca, come dichiara ancora il Concilio: «Quanto infatti più stretta sarà la loro comunione col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (ibid).
Per questo siamo qui stasera da diversi Paesi, da diverse culture e tradizioni. Sono riconoscente a Sua Grazia Justin Welby¸ Arcivescovo di Canterbury, al Metropolita Policarpo, in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico, e a tutti voi, che rendete presenti molte comunità cristiane. Rivolgo un saluto speciale ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, che celebrano il XX anniversario del loro cammino, e ai Vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’Unità e la Missione. È bello che oggi con il mio fratello, l’Arcivescovo Justin, possiamo conferire a queste coppie di Vescovi il mandato di continuare a testimoniare l’unità voluta da Dio per la sua Chiesa nelle rispettive regioni, andando avanti insieme «a diffondere la misericordia e la pace di Dio in un mondo bisognoso» (Appello dei vescovi IARCCUM, Roma 2016). Saluto anche gli studenti borsisti del Comitato per la Collaborazione Culturale con le Chiese ortodosse del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e i partecipanti alle visite di studio organizzate per giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali, e per gli studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Insieme, come fratelli e sorelle in Cristo, preghiamo con Paolo dicendo: “Che cosa dobbiamo fare, Signore?”. E nel porre la domanda c’è già una risposta, perché la prima risposta è la preghiera. Pregare per l’unità è il primo compito del nostro cammino. Ed è un compito santo, perché è stare in comunione con il Signore, che per l’unità ha anzitutto pregato il Padre. E continuiamo a pregare pure per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa. Un pensiero accorato va anche all’amato popolo del Burkina Faso, in particolare alle comunità che lì hanno preparato il materiale per la Settimana di Preghiera per l’Unità: possa l’amore al prossimo prendere il posto della violenza che affligge il loro Paese.
«“Che devo fare, Signore?”. E il Signore – racconta Paolo – mi disse: “Àlzati e prosegui”» (At 22,10). Alzati, dice Gesù a ciascuno di noi e alla nostra ricerca di unità. Alziamoci allora, nel nome di Cristo, dalle nostre stanchezze e dalle nostre abitudini, e proseguiamo, andiamo avanti, perché Lui lo vuole, e lo vuole «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Preghiamo, dunque, e andiamo avanti, perché questo Dio desidera da noi. E’ questo che desidera da noi.
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