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giovedì 5 marzo 2020

Ugo, ucciso a 15 anni e le vite bruciate nei vicoli di Napoli di Roberto Saviano

Ugo, ucciso a 15 anni e le vite bruciate nei vicoli di Napoli
di Roberto Saviano

Ugo Russo, 15 anni 
Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, dopo una tentata rapina con una pistola giocattolo a Santa Lucia, quartiere in agonia da decenni, da quando è finito il contrabbando di sigarette che lo aveva reso “la Fiat di Napoli”. Da un lato i palazzi della burocrazia, i condominii borghesi, dall’altro il quartiere popolare, che arranca tra affitti ai turisti e disoccupazione cronica.

È l’alchimia della città che costringe a vivere vicini ricchi e poveri, magistrati e criminali, onesti lavoratori e disonesti, laureati e persone che a stento hanno un diploma di terza media. Tutti insieme a tifare Napoli negli stessi bar, a giocare a pallone nelle stesse piazze: figli della borghesia e figli della strada. Un’origine comune del proprio sentire che è svanita in quasi tutte le capitali occidentali e che invece a Napoli resiste, rendendola speciale: l’uomo si affanna a creare barriere ma poi ci pensano le strade e le piazze, l’accesso al mare e la comune minaccia del mansueto Vesuvio ad azzerare tutto, a rendere la vita fluida, vera, promiscua, comune.
Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, colpito da un carabiniere fuori servizio che doveva essere la “vittima” a cui sottrarre il bottino e che invece diventa il carnefice. Ugo Russo non sapeva che il 23enne a bordo della Mercedes e con il Rolex al polso era un carabiniere: come avrebbe potuto? Era Ugo a essersi travestito da cattivo; era lui a dover fare paura, anche se con una pistola giocattolo. Non poteva immaginare che si sarebbe trovato di fronte un carabiniere che avrebbe impugnato un’arma, che avrebbe sparato e ucciso.

Questa è una tragedia di cui Napoli è responsabile. Questa è una tragedia di cui siamo responsabili tutti noi che ci occupiamo e preoccupiamo di ciò che accade al Sud, di ciò che accade a Napoli. Questa è una tragedia che dimostra, senza possibilità di smentita, che abbiamo fallito ancora e che dobbiamo cambiare passo.
“Noi non siamo Gomorra!” sento ripetere all’infinito. Ma Gomorra è la descrizione di un sistema economico: quando manca tutto, investimenti, opportunità, istruzione, lavoro, risorse, imprese, quando le infrastrutture lottano con la perenne mancanza di fondi, lì c’è Gomorra. Gomorra non è sinonimo di camorrista; essere Gomorra non significa impugnare armi, minacciare, spacciare, uccidere. E non essere Gomorra non significa indignarsi, incazzarsi, ma lavorare per curare, non smettere di cercare l’antidoto al veleno, creare un sentiero, non il nulla, non la devastazione, non l’incuria, non le macerie.

Ugo Russo era iscritto a un istituto tecnico che non frequentava. Non si può a 15 anni, a Napoli, lasciare la scuola. Se lasci la scuola, in generale, avrai più difficoltà ad avere accesso a un lavoro dignitoso, ma se poi in un contesto economicamente depresso lasci la scuola, se a Napoli lasci la scuola, sei fottuto, perché perdi l’unica opportunità che avrai nella vita per non essere schiavo non solo delle organizzazioni criminali, ma soprattutto del lavoro nero e mal retribuito, schiavo di datori di lavoro senza scrupoli che approfittano della disperazione per pagare poco e pretendere tutto.

E dove non c’è lavoro, dove non ci sono opportunità, dove c’è dispersione scolastica, dove andare a scuola e istruirsi è considerato un lusso, o una perdita di tempo, dove non ci sono risorse per riportare a scuola i minorenni che decidono di abbandonare gli studi senza altra prospettiva, senza alcuna alternativa alla strada, proprio lì c’è Gomorra. E c’è nella peggiore delle derive possibili perché nessuno aveva mai pensato che oltre Gomorra potesse esserci qualcosa di peggio.

Chissà, mi sono chiesto, se di Ugo Russo si ricorderà qualche assistente sociale. Chissà se qualcuno si era premurato di capire perché Ugo avesse lasciato la scuola. E mentre scrivo so che, oltre alla famiglia, oltre agli amici, c’era chi pensava a Ugo, chi a Ugo ancora ci pensa e immagino non riesca a darsi pace per quello che è successo. L’Associazione Quartieri Spagnoli Onlus posta su Facebook una foto di Ugo impegnato, credo, in attività laboratoriali. Insieme alla foto c’è un verso straziante di Dietrich Bonhoeffer: “Oh, se sapessi dov’è la strada che torna indietro, la lunga strada per il paese dei bambini”.

La foto ritrae Ugo bambino, quando tutto era ancora possibile. Prima di abbandonare la scuola, prima di crescere pensando che puoi solo ottenere strappando ad altri ciò che vuoi, perché altri strappano e strapperanno a te ciò che vogliono. E non ci accorgiamo che tutto questo è davvero troppo perché possa gravare su famiglie che non ce la fanno, su associazioni di volontari che aiutano perché sanno che manca tutto? Non ci accorgiamo che serve aiuto vero, costante, perenne? Sembra una banalità, ma dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, dai 3 almeno fino ai 14 anni bambini e ragazzi devono stare a scuola, perché solo standoci, vivendola, decideranno di non abbandonarla, di continuare quel percorso, che poi è l’unico che può generare emancipazione dai contesti più difficili. La conoscenza è un diritto che abbiamo, un diritto inalienabile e gratuito, un diritto a cui non dobbiamo rinunciare. Un diritto che dobbiamo pretendere e per cui dobbiamo lottare. La conoscenza è padre e madre di tutti i diritti.

Se non c’è conoscenza non esiste consapevolezza di ciò che siamo, di ciò che potremmo essere, di ciò che vogliamo o che non vogliamo essere. Senza conoscenza non c’è passato e non c’è futuro, ma solo le necessità del momento. Senza conoscenza siamo prede anche se ci travestiamo da carnefici. Quando finalmente daremo alla scuola l’importanza vitale che merita, con soldi veri e non parole, capiremo che pronto soccorso e ambulanze sono di tutti e che non vanno devastati, che vanno anzi presidiati, protetti, soprattutto oggi che stiamo tutti insieme vivendo un momento delicato per la diffusione del coronavirus. A Napoli c’è un sentire comune che però non ci consente di comunicare davvero. C’è diffidenza da un lato, paura dall’altro; manca una lingua comune che va cercata, imparata ed esercitata sui banchi di scuola.

Napoli è una città che ama guardarsi in uno specchio deformante per vedersi normale. Napoli è La cupa di Mimmo Borrelli, un capolavoro mostruoso, opera teatrale di un genio disperato. Napoli è città avvelenata, come la cava di Giosafatte ’Nzamamorte, dove tutti sono in guerra con tutti. Napoli è Giosafatte ’Nzamamorte e cioè un padre che non riesce a fare il padre, è città immobile anche se sembra in continuo movimento. Napoli è Maria delle Papere, ragazza ingenua, cieca, quasi ferina. Napoli è Tummasino Scippasalute, che rovina la vita degli altri solo perché è la sua vita a essere stata compromessa per prima e per sempre.

«Noi non siamo Gomorra» e mentre lo diciamo, abbiamo dimenticato cos’è Gomorra e quindi abbiamo dimenticato cosa non vogliamo essere: un cancro che si nutre del sangue dei suoi ragazzi e delle sue ragazze, e degli errori che non hanno soluzione.


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