LA TEOLOGIA FRA PAROLA DI DIO E PAROLE DEGLI UOMINI
di Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Prolusione ai Corsi di Teologia
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,
Milano, 15 Marzo 2017
Il rapporto fra la teologia e Parola di Dio è così decisivo per il pensiero della fede, che non a caso il Novecento teologico conobbe presto un’appassionata polemica proprio riguardo ad esso: ne furono protagonisti il giovane Karl Barth - che aveva da poco pubblicato la seconda, radicalmente innovativa edizione del suo commento a La lettera ai Romani di Paolo (1922) - e il suo maestro berlinese, ultimo grande corifeo della teologia liberale, Adolf von Harnack. Questi aveva rivolto pubblicamente Quindici domande a quei teologi che disprezzano la teologia scientifica, indirizzandosi di fatto all’antico allievo. Barth aveva replicato con Quindici risposte al Professor von Harnack, che a sua volta gli rispose con una lettera aperta, cui seguirono un’ulteriore replica di Barth e un intervento conclusivo di Harnack . Il Maestro berlinese rimproverava ai “detrattori della teologia scientifica fra i teologi” (“Verächter der wissenschaftliche Theologie unter den Theologen”) l’aver abdicato al metodo storico-critico, il solo in grado di evitare il rischio di confondere “un Cristo immaginario con quello reale”, oltre che di procurare alla teologia dignità e rispetto fra le scienze. Era convinzione del Professore di Berlino che chi trasforma “la cattedra teologica in pulpito”, compromette anche la continuità fra l’umano nei suoi gradi più elevati e il divino, aprendo la strada alla barbarie e all’ateismo. Una teologia dipendente dalla Scrittura sarebbe forse pure edificante, ma di certo poco scientifica e del tutto incapace di parlare a intelligenze libere e adulte. Nelle sue risposte - non prive della veemenza del neofita - Barth punta l’indice contro quel mondo teologico “cui è diventato estraneo e inaudito il concetto di un oggetto normativo, davanti all’unica normativa del metodo”. Dove si riconosce correttamente il primato dell’Oggetto puro, della Parola divina nelle parole con cui si comunica agli uomini, lì ogni soggettivismo è fugato e la teologia si incontra al livello più alto e fecondo con la predicazione, perché entrambe si riconoscono al servizio della rivelazione di Dio. Arbitrio e soggettività si insinuano, al contrario, lì dove il primato è dato alle parole degli uomini piuttosto che all’auto-comunicazione divina.
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“La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio delle sacre pagine come l’anima della sacra teologia"
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Si comprende allora che, se nel testo citato della Dei Verbum il Vaticano II afferma con chiarezza l’assoluto primato della Parola rivelata su ogni conoscenza della fede, un tale primato non esclude in alcun modo le sfide del vissuto umano, le assume anzi perché trovino luce nell’auto-comunicazione del Verbo procedente dal divino Silenzio. Solo così la Parola si offre nel suo senso più profondo e nella potenzialità degli orizzonti che schiude all’esistenza umana in questo mondo. È perciò a queste sfide e a queste luci che vorrei accostarmi per rapportare ad esse il dono della Parola, riconoscendo in ciascuna un’icona capace di rivelare l’umano a se stesso e di aprirlo all’avvento divino. Muovendo dalla sfida dell’interruzione e dall’icona del dolore, la più universale di tutte le domande, mi accosterò all’esistenza umana intesa come esodo e, proprio così, come icona dell’attesa. A questa attesa corrisponde anzitutto il divino Silenzio, che suscita e nutre l’ascolto, in cui la Parola di Dio viene ad abitare le parole degli uomini perché possa realizzarsi l’incontro dell’avvento e dell’esodo, e gli abitatori del tempo possano accogliere l’autocomunicazione dell’Eterno. Una riflessione conclusiva toccherà la preghiera e l’icona della lotta e della resa, da essa evocata
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Il silenzio divino non è solo quello della silenziosa scrittura dei cieli (cf. Sal 19,2), né è solo la misteriosa presenza, con cui l’Eterno viene a sconvolgere tutte le possibili attese, offrendosi al suo eletto nella “voce del tenue silenzio” (cf. 1 Re 19,11_13). Il nascondimento del volto divino non è solo esperienza psicologica della Sua assenza o vicenda storica legata al tempo della rovina, in cui Dio sembra ritrarre la Sua protezione dal popolo eletto: il silenzio di Dio ha un valore teologico, è una sfida radicale sul Mistero, un invito a credere ed affidarsi all’assente Presenza ed a perseverare nell’abbandono al Volto cercato, anche quando questo Volto fa sentire tutto il peso tragico del Suo nascondimento: “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui” (Is 8,17). Questo silenzio è uno sperimentare nella drammaticità del fallimento che la via di Dio non è solo quella della parola e della risposta, ma che anche quella conturbante del silenzio, cui corrispondere nello spazio vuoto dell’ascolto fedele
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