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sabato 3 settembre 2016

"Mi piace una chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti". La chiesa italiana dopo il convegno di Firenze. di Matteo Maria Zuppi

"Mi piace una chiesa italiana inquieta, 
sempre più vicina agli abbandonati, 
ai dimenticati, agli imperfetti"
La chiesa italiana dopo il convegno di Firenze. 

di Matteo Maria Zuppi,
arcivescovo di Bologna

Intervento in occasione del Meeting per l'amicizia fra i popoli 
- Rimini, 24 Agosto 2016


Anzitutto grazie per il tema di quest'anno, che aiuta tutti a trovare il tu ed a riconoscere il bene che è per me. Quindi ci fa trovare la gioia che si ha quando si scopre un bene! Senza il tu restiamo prigionieri dell'io, perché, come dice Bauman, la solitudine è la grande minaccia in questi tempi d'individualizzazione. E in fondo il relativismo ha la sua religione pratica in quella che De Rita chiama l'egolatria, così pervasiva, che ci fa credere finalmente padroni di noi stessi, che rende prigionieri del materialismo, che deforma l'individuo riducendolo a isola, cancellando la dimensione trascendente. E non si capisce la terra senza guardare al cielo. Se nel recente passato abbiamo vissuto la tentazione di un io che doveva annullarsi in un noi totalizzante (e certi rigurgiti di nazionalismo o etnicismo rivelano un inquietante potere di attrazione e di annullamento della persona in cambio di una qualsiasi identità che dia sicurezza), oggi siamo tanto prigionieri di un io che diffida del noi, che cerca se stesso nel benessere individuale, che si accontenta di un noi virtuale e s'infastidisce quando si deve misurare con la concretezza dell'altro. Solo nella relazione l'io trova se stesso; solo specchiandosi in un tu l'io trova la sua vera immagine. Dio è il primo e ultimo Tu. Sì, davvero "tu sei il mio bene".  
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Per cercare il bene comune dobbiamo confrontarci con il mondo così com'è, chiamando le cose con il proprio nome. La Chiesa ha una grande responsabilità (penso al nostro paese e alle tante domande che esigono una risposta e ci sfidano a trovarla!) e deve in modo creativo esercitare il suo ruolo per aiutare la ricostruzione del nostro paese. Non è un optional o un interesse per addetti ai lavori: è l'orizzonte nel quale pensare le nostre comunità, orizzonte a volte drammatico soprattutto per chi viene dopo di noi, perché le opportunità non ci sono all'infinito e il tempo passa e come cantava qualcuno il tempo perduto non si ritrova mai. Abbiamo bisogno di una misericordia che Madelein Delbrel definiva "rivoluzionaria". Diceva, negli anni della ricostruzione dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, che "è necessario fare in modo che i cristiani non si lascino modellare da un ideale di misericordia al ribasso. Parlo di quei cristiani che sono medici o sono infermiere oppure operatrice sociali. E' necessario che non si accontentino solo di un lavoro corretto che permetta loro di essere inseriti nelle categorie delle persone oneste e competenti. E' necessario ritrovare il volto di Cristo in tutta la sua intensità. E' necessario creare una misericordia rivoluzionaria all'interno di questa misericordia del giusto mezzo, da burocrati. Vale a dire che dal momento che si è cristiani non occorre aspettare di essere andato a Lourdes in pellegrinaggio nazionale per accorgersi che ci sono degli infermi, dei moribondi, degli esseri deformi; non occorre aspettare le inchieste sensazionali di qualche quotidiano per pensare che ci sta oggi una marea di sofferenza. Appena queste cose sono state comprese, poi, occorre sentire che abbiamo un cuore fatto per provare compassione, delle mani fatte per curare, delle gambe fatte per andare verso tutto ciò che soffre. Il mondo si contorce in mezzo a dolori quasi infiniti. Spetta alla chiesa prendersene cura. La chiesa è come una madre ansiosa alla porta di un ospedale in cui degli estranei curano i suoi figli. Da noi aspetta di potersi sedere accanto a tutti quei luoghi di dolore". Sono parole che faccio interamente mie, con due considerazioni. Delbrel ha fiducia nei cristiani, come Papa Francesco, che proprio nel Convegno nazionale di Firenze ricordava a tutti che abbiamo noi la metà della moneta con cui possiamo riconoscere il povero che è nostro figlio e che vogliamo riprendere con noi. Perché il povero ci appartiene, è figlio di questa madre che è la chiesa e che siamo noi! E una madre non si da pace finché non ha trovato il suo figlio! Gli uomini nemmeno guardando le immagini di qualche quotidiano sembrano accorgersi dei dolori infiniti e scegliere di fare qualcosa! Noi non possiamo essere così! Pensate ad Alan il bambino siriano di tre anni e adesso a Omran. Le loro foto sono un'icona, che ci comunicano tutto il dolore ingiusto dei bambini e dell'intero paese, martiri innocenti di oggi. Sono immagini che hanno penetrato i nostri muri di protezione e distanza, ma sempre per poco tempo. La vicenda della Siria, di Aleppo, dei suoi cristiani e della convivenza, ci ammoniscono e ci sfidano ad essere più svegli, più forti, più determinati, più uniti, per avere una misericordia davvero rivoluzionaria, che cambia le cose, che lasci un'impronta (cfr Papa Francesco ai giovani a Cracovia) nella storia, liberandosi dal soggettivismo di un mondo narcisista, televisivo, sonnambulo, da "divano" ed entrare nella vita vera. Questa è misericordia! La seconda osservazione è che il cristiano affronta il male e le sue cause, le chiama per nome. Ad esempio non scappa dalla guerra, anzi dalle tante guerre, a pezzi, che possono fare illudere siano meno preoccupanti e che l'intelligenza di Papa Francesco ci aiuta a comprendere come ognuna sia in realtà mondiale. Ci sono tante macerie, conseguenze di una crisi terribile che ha ridotto molti alla povertà e i più poveri alla disperazione. Ecco, quando diciamo "tu sei il mio bene" vogliamo cercare il bene comune per un mondo pieno di sofferenze e per un'Europa, che deve ritrovare il sogno di "un nuovo umanesimo europeo, cui servono "memoria, coraggio, sana e umana utopia per tornare ad essere ancora madre, che si prende cura del bambino, che soccorre come suo fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo". (Discorso in occasione del Premio Carlo Magno). Siamo in una svolta epocale e non possiamo porci con le misure modeste di sempre, con il fastidio della vita ordinaria che si sente come importunata o con prospettive mediocri! Dire "Tu sei il mio bene" ci richiede, e ci aiuta a trovare, sentimenti grandi, come quando siamo chiamati a difendere la vita, nei passaggi decisivi della nostra esistenza, di fronte alle grandi sfide. E forse questa prospettiva può liberare da una delle malattie frutto di una chiesa che si chiude: quella dell'incapacità a parlarsi, di giudicare tutto e tutti con obsolete, ma resistentissime, geografie, comprese quelle di politica ecclesiastica.
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