di Giacomo Costa SJ
Anteprima dell'editoriale del numero di ottobre
di Aggiornamenti Sociali
La campagna di lancio del Fertility Day, promosso dal Ministero della Salute nella data del 22 settembre, non sarà certo ricordata come un modello per future iniziative di sensibilizzazione. Fermarsi, però, a considerare solo gli errori comunicativi di questa campagna maldestra e a tratti fuorviante sarebbe riduttivo e rischierebbe di oscurare una questione tutt’altro che secondaria.
Le numerose e appassionate reazioni, in larga parte critiche e polemiche, confermano che quando si affronta il tema della fertilità si entra nella sfera più intima e profonda delle persone, e dunque in un ambito estremamente delicato e sensibile, dove a volte sono presenti ferite e sofferenze molto vive.
Il tema della fertilità incrocia anche altri ambiti e livelli, a loro modo altrettanto sensibili e su cui troppo facilmente si chiudono gli occhi, come la natalità e la propensione ad avere figli: la demografia ci dice che i valori estremamente bassi che l’Italia registra a questo proposito rappresentano un problema destinato a farsi sempre più acuto con il passare del tempo e con il progressivo invecchiamento della popolazione. Non a caso, il primo punto alla base della elaborazione del Piano nazionale per la fertilità da parte del Ministero della Salute è proprio che «L’attuale denatalità mette a rischio il welfare»
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Fertilità, fecondità e natalità
Uno degli aspetti più delicati, e fonte di non poche confusioni, è stato la sovrapposizione tra due aspetti che, pur contigui, è però bene tenere distinti: la fertilità e la fecondità.
L’iniziativa del Ministero della Salute intende porre la fertilità, cioè la capacità di generare da parte delle donne e degli uomini, «al centro delle politiche sanitarie ed educative del nostro Paese» (Piano nazionale per la fertilità, p. 1), a partire dalla constatazione della scarsa consapevolezza dei fattori e dei comportamenti che possono metterla a rischio: anche la fertilità è un aspetto della salute non scontato e ben si giustifica quindi il lancio di una campagna di informazione sanitaria, analoga a quelle che riguardano la prevenzione di altri rischi, nell’ambito della tutela del diritto alla salute costituzionalmente sancito e di una corretta gestione delle risorse del sistema sanitario. Ovviamente tutto questo ha ben poco a che vedere con la promozione della natalità. In questo senso, il ricorso a un linguaggio e a immagini che sono state interpretate come moralistiche e ricattatorie, se anche raggiunge l’obiettivo di “bucare gli schermi”, mal si concilia con la necessità di fornire informazioni chiare in campo medico e non solo: entrano in gioco, infatti, anche componenti psicologiche. Urtare la sensibilità delle persone non aiuta la comunicazione.
Se parlare di fertilità si colloca sul piano delle condizioni che rendono possibile o che ostacolano la generazione, il termine fecondità fa invece riferimento al fatto di diventare effettivamente genitori. Genericamente le due parole sono considerate sinonimi, ma in ambito scientifico non lo sono. Come ci ricorda l’Enciclopedia Treccani delle scienze sociali, «In demografia col termine fertilità si intende la capacità biofisiologica posseduta da un individuo o da una coppia di produrre figli, indipendentemente dal fatto che tale capacità venga effettivamente esercitata: è l’attitudine a concepire e la sterilità rappresenta il suo contrario», mentre il termine fecondità è riservato «al “risultato” del comportamento prolifico», cioè al fatto di procreare. La fertilità è una condizione necessaria, ma non sufficiente della fecondità; generare è infatti un atto che richiede una scelta, una decisione, e come tale interseca molti altri piani: in primo luogo la libertà e l’autonomia inviolabili delle persone coinvolte, come singoli e come coppia, nonché il piano dei loro desideri e progetti di vita; poi tutti quei fattori economici, sociali e culturali che in vario modo possono incidere sull’autonomia personale, incentivando oppure ostacolando le scelte di fecondità.
Dal punto di vista della chiarezza della comunicazione, ma anche e soprattutto per ciò che concerne la predisposizione di politiche pubbliche, è opportuno mantenere i due piani distinti: «la tutela della fertilità, divulgando le conoscenze scientifiche e costruendo la consapevolezza che la salute riproduttiva è alla base del benessere fisico, psichico e relazionale dei cittadini» (Piano nazionale per la fertilità, p. 3), è infatti di per sé un obiettivo di grande valore politico e sociale, che merita di essere perseguito anche senza inquadrarlo tra le strategie «per favorire la natalità» (ivi, p. 1). Quest’ultimo a sua volta è un obiettivo di grande importanza e delicatezza, il cui raggiungimento richiede il ricorso a un ampio ventaglio di strumenti.
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Proprio perché fertilità e fecondità incrociano le profondità del desiderio, occorre un approccio molto più articolato e integrato, capace di modificare anche la cultura. Per convincere le persone ad aprirsi all’accoglienza del nuovo, implicita nella procreazione e nella generazione, è necessario innanzitutto che sperimentino di essere accolte, che sentano che nella società c’è un posto per loro. Per questo, come sottolinea anche la Risoluzione, hanno grande importanza misure apparentemente lontane dal tema della natalità, ma che puntano a rendere la società più inclusiva e accogliente, in particolare nei confronti di due gruppi che oggi si trovano in condizione di forte emarginazione soprattutto rispetto a un mercato del lavoro in cui non riescono a entrare o a rimanere: le donne e i giovani. Pensandoci, è chiaro che si tratta di due gruppi strategici dal punto di vista della fecondità e che una società che non faccia loro spazio non potrà che condannarsi alla denatalità.
Lo spiegava il demografo Massimo Livi Bacci in un’intervista al Corriere della Sera il 9 gennaio scorso: «Anzitutto bisogna ridare autonomia ai giovani. Ormai raggiungono la piena autonomia molto tardi e per conseguenza rinviano molte delle decisioni familiari riproduttive. Finiscono gli studi tardi, entrano nel mercato del lavoro tardi, escono dalla famiglia tardi, rimandano la scelta di fare un figlio fino a trovarsi a ridosso di un’età in cui riuscirci è molto faticoso se non quasi impossibile». E poi, aggiungeva, «è indispensabile dare più lavoro alle donne. Quarant’anni fa, nei Paesi nei quali le donne erano impegnate prevalentemente in lavori domestici e i tassi di occupazione erano bassi, la natalità era più elevata. Oggi avviene l’inverso: dove c’è un’occupazione femminile alta si fanno più figli e dove c’è un’occupazione bassa se ne fanno meno. Una famiglia ha bisogno di più fonti di reddito, non può più puntare su un solo procacciatore di risorse».
Dal punto di vista politico è necessaria una rivoluzione copernicana: smettere di considerare le spese a sostegno della famiglia – quelle per realizzare il mix di strumenti invocato dalla Risoluzione del Parlamento europeo –, come un costo da comprimerenella generalizzata caccia alla riduzione della spesa pubblica, iniziando invece a guardarle come un investimento che si ripaga nel tempo. Solo promuovendo i diritti e l’inclusione sociale e lavorativa, di donne e giovani in particolare, si tutelano le opportunità di crescita e di sviluppo per la società e per il Paese. Del resto, è abbastanza intuitivo che crescita e sviluppo si pongano sulla linea del generare più che del consumare: in una società poco attenta alla propria fertilità e fecondità, nel senso integrale che abbiamo cercato di tratteggiare, questi piani sono inevitabilmente destinati a una scarsa dinamicità.
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Gli italiani, popolo fertile? di Giacomo Costa SJ