Il grido dei 21 martiri copti
di Enzo Bianchi
"...Erano persone semplici questi cristiani copti, emigrati per lavoro, preoccupati per le famiglie lasciate a El Minya in Egitto, così come erano semplici operai cattolici quei quattordici croati sgozzati vent’anni fa in un cantiere nei pressi del monastero di Tibhirine in Algeria, al culmine dell’incubo fondamentalista vissuto da quel paese. Come tutti i loro confratelli, questi copti – di cui ci è caro riportare qui tutti nomi: Milad, Abanub, Maged, Yusuf, Kirollos, Bishoy e suo fratello Somaily, Malak, Tawadros, Girgis, Mina, Hany, Bishoy, Samuel, Ezat, Loqa, Gaber, Esam, Malak, Sameh e un operaio “del villaggio di Awr” rimasto senza nome – portavano sul polso fin dal loro battesimo un unico tatuaggio, la croce di Cristo, affinché, se anche le parole non avessero potuto esprimere la loro fede, questa era testimoniata dalla loro carne. È l’ecumenismo del sangue sovente evocato da papa Francesco: dai brutali assassini viene il paradossale riconoscimento che i discepoli di Signore sono “una cosa sola”, tra loro e con il loro Signore. Nessuna differenza di lingua, di riti, di calendari, di formulazioni teologiche, nessuna disputa secolare resiste di fronte al fatto che questi copti – come tutti i loro confratelli martiri di altre confessioni – sono semplicemente “cristiani”, discepoli di Cristo con tutta la loro vita, fino a morirne. A volte il martire viene eliminato perché le sue parole e i suoi gesti hanno disturbato chi opera impunemente il male – si pensi al vescovo Romero o a don Pino Puglisi – viene cioè ucciso per quello che “ha fatto”, altre volte, come qui, semplicemente per quello che “è” e non rinuncia a essere: un testimone di Cristo.
Infine, un’ultima annotazione: nella tradizione ortodossa, la quaresima è contrassegnata dalla “dolorosa gioia”, dall’attesa nella contrizione e nel pentimento della luminosa esultanza di Pasqua, festa della vittoria della vita sulla morte affermata una volta per tutte dalla resurrezione di Gesù. È l’attesa di poter essere resi partecipi di questa vita nuova che sgorga dal sepolcro vuoto e che colma di pace le sofferenze sopportate. Ebbene, è questa “dolorosa gioia”, così difficile da capire e perfino da immaginare da parte di noi smaliziati occidentali, che stanno vivendo i fedeli copti nelle loro chiese: è una festa segnata dalla lacrime, lacerata dal dolore, ma festa autenticamente cristiana perché quei loro ventun fratelli – che erano anche padri, figli, amici – sono stati assimilati all’agnello immolato senza colpa, resi conformi al loro Signore che hanno glorificato finché hanno avuto fiato nelle loro gole. Un dipinto naif circola da qualche giorno sui media: Gesù rivestito da una tunica arancione cade a terra sotto il peso della croce, dietro a lui una processione in cui uomini con la medesima tunica arancione sono affiancati da figure coperte di nero: sembra la riproduzione di un fermo immagine del video cruento dell’IS, in realtà è la reinterpretazione della Via crucis, la via dell’uomo vittima della violenza. E noi ci chiediamo ogni giorno sempre più spesso: dov’è l’uomo? Dov’è finita la sua umanità?
Il grido dei 21 martiri copti di Enzo Bianchi
La Chiesa copta considera martiri i 21 uomini uccisi in Libia
di fra Mamdouh Chehab ofm
La Chiesa copta, nella sua ufficialità, non ha tardato ad esprimersi. Il patriarca Tawadros ha sottolineato che questi egiziani sono stati uccisi perché professavano la fede cristiana. E ha annunciato che i nomi delle vittime saranno inseriti nel Sinassario, l’equivalente orientale del martirologio romano. Una procedura che equivale alla canonizzazione nella Chiesa latina.
Il martirio di questi 21 fedeli verrà commemorato l’8 di Amshir del calendario copto (il 15 febbraio del calendario gregoriano), che è anche la festa della Presentazione di Gesù al tempio.
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