di mons. VINCENZO PAGLIA
«Perché lui si e io no?» È l’interrogativo che accende l’invidia. Non nasce dall’amore per l’uguaglianza, come a prima vista potrebbe sembrare. Può essere anche vero infatti che una società più giusta offra meno occasioni all’invidia di attecchire nel cuore dell’uomo. Nietzsche, ad esempio, lo suggerisce. A suo parere il livellamento tra gli esseri umani può favorire «quell’inclinazione che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l’invidia» (Umano, troppo umano). A mio avviso, tuttavia, essa, come tutte le passioni, più che da fattori esterni all’uomo, dipende primariamente dal cuore dell’uomo e dove l’uomo pone il suo tesoro. Gesù lo ha detto ai suoi discepoli: «Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adulteri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt15,19). Chi pone al centro di tutto il proprio “io” è spinto alla tristezza per il bene degli altri. San Tommaso, che riporta l’affermazione del Damasceno che la qualifica l’invidia come «la tristezza dei beni altrui» (II-II, q.36, a.1), rimarca l’assurdità di questa passione. Mentre è logico che la tristezza sorga per il male proprio, con l’invidia accade in contrario: il bene altrui è creduto un male proprio perché si pensa possa sminuire «la propria gloria o la propria eccellenza» (ivi). Per questo l’aquinate afferma che «è sempre una cosa malvagia». E sostiene che è un peccato mortale perché “si oppone direttamente alla misericordia… e alla carità”.
C’è una generale concordia nella severità di giudizio sull’invidia. La bella sintesi di Elena Pulcini, nel volume Invidia. La passione triste, che spazia dalla cultura greca sino ai nostri giorni, può riassumersi nell’affermazione dello scrittore statunitense Joseph Epstein che considera l’invidia «il più insidioso dei vizi capitali». E, potremmo aggiungere, anche il più meschino, tanto che nessuno se ne vanta come fa rilevare il duca Francois La Rochefoucauld: «Molti sono disposti a esibire i propri vizi, ma nessuno oserebbe vantarsi della propria invidia». L’invidia resta segreta e triste. Ed anche dolorosa, perché è un vero e proprio auto avvelenamento dell’anima: non solo non riesce a sopportare il bene dell’altro, ma trova soddisfazione solo nella disgrazia dell’altro. Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, la raffigura come una vecchia dalle mani rapaci, avvolta dal tormento di un fuoco che ne brucia le vesti e con un serpente che esce dalla sua bocca e gli si rivolta contro iniettandole negli occhi il veleno mortale. Diceva bene Hannah Arendt: l’invidia «è il peggior vizio dell’umanità» (L’umanità nei tempi oscuri).
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