Avere un’anima
di Alessandro D’Avenia
A ricordarci che abbiamo un’anima ci pensano i cartoni animati. Soul, film Disney-Pixar di Natale, ha invaso gli schermi di coloro che, chiusi in casa e in cerca di leggerezza, si sono trovati invece nel bel mezzo di un gioco serissimo. Un professore di musica delle medie, dopo tanto penare, realizza il suo sogno di jazzista, fino a quel momento lasciato nel cassetto: suonare nel locale più rinomato della città. Sarebbe l’ennesima variazione sul tema del sogno americano, se non fosse che Joe, mentre festeggia l’evento cade in un tombino e... finisce nell’aldilà: tutto ciò che sembrava potersi realizzare di lì a poco svanisce in un attimo, e così comincia la sua partita contro la morte. Anche noi abbiamo un’anima, altrimenti non potremmo sollevarci sopra il fluire del tempo, ne saremmo parte come un ignaro pezzetto di natura. Noi scorriamo, sì, ma, a differenza di piante e animali, ne siamo consapevoli. Per questo cerchiamo di dare una forma al tempo e un senso al suo scorrere: «trovare il proprio posto nel mondo», «realizzarsi», diciamo, come se quel posto non l’avessimo già o non fossimo già abbastanza «reali». Più che trovarlo, questo posto, occorre abitarlo e, prima di realizzarsi, occorre essere reali, cioè imparare l’arte di vivere a prescindere dai risultati. Soul cerca di narrare che, per essere felici, bisogna essere prima che, come si pensa oggi, costruirsi.
Avere un’anima significa infatti imparare l’arte di vivere per poi «realizzare» le opere della propria unicità, a prescindere dall’eventuale successo. Siamo fatti per vivere e poi per creare vita, ma per dare vita, la vita bisogna prima averla in sé. Invece una certa idea diffusa di felicità intesa come «costruzione» individuale in base a risultati quantificabili (tutto oggi si misura, perché tutto è prestazione) ha indebolito la nostra arte di vivere, cioè dello «stare» nella vita, perché la felicità non è primariamente una cosa «da fare» ma «da ricevere». Capita a tanti oggi di non riuscire a «realizzarsi» e per questo sentirsi falliti. Ma la nostra anima sa gioire anche in assenza di «successo», purché ne si coltivi, nell’ordinario, la capacità di risonanza. Una delle letture che me lo ha fatto capire meglio è il capolavoro di Boris Pasternàk: Il dottor Živago. Quello che trovo in molta letteratura russa (Puškin, Dostoevskij, Gogol, Bulgakov, Solženicyn, Grossman) è questa priorità della vita su idee e risultati, priorità spesso rovesciata nella visione occidentale. Nel libro di Pasternàk (sfuggito alla censura sovietica e pubblicato proprio in Italia in anteprima nel 1956), ambientato nella Russia rivoluzionaria di primo ’900, l’esistenza dei protagonisti è continuamente stravolta dagli eventi della storia, ma alcuni sanno resistere perché hanno un’anima: vivono cioè in profondità, e rimangono stabili, nonostante la «rivoluzione», come accade nell’occhio di un ciclone. Certa letteratura non ha mai dimenticato che l’uomo ha l’anima e, come una conchiglia con il mare, può contenere in ogni istante la vita intera. Per questo Lara (il mio personaggio preferito), quando arriva nell’antica tenuta di campagna, ha l’abitudine di andare sempre a piedi dalla stazione a casa: «per un sentiero tracciato da vagabondi e da pellegrini e quindi svoltava per il viottolo che, attraverso un prato, portava al bosco. Qui si fermava e, con gli occhi socchiusi, aspirava l’aria densa dei confusi profumi della vastità che la circondava. Era un’aria più cara del padre e della madre, più tenera dell’uomo amato, più illuminante di un libro. Per un istante a Lara si rivelava di nuovo il senso dell’esistenza». C’è un vivere più originario di tutto che va ricevuto e rinnovato da riti tanto sacri quanto semplici come quello di Lara. Quel «vivere dentro» non ci può essere tolto, perché vivere è imparare a essere «soli», che non significa «isolati» (da isola) ma «pieni» («solo» viene da una radice che indica totalità, integrità, completezza), cioè «avere un’anima». Lara chiude gli occhi, respira e diventa centro del mondo e della storia: «Era lì — lo comprendeva — per mettere ordine nel folle incanto della terra e chiamare ogni cosa col proprio nome e, se non ne avesse avute le forze, allora per generare, in nome dell’amore per la vita, dei successori, che lo avrebbero fatto al suo posto». Questa pienezza, trovata nell’istante, consente di affrontare l’imprevedibilità della vita.
La nostra vita ha senso infatti non solo perché «realizziamo» ciò che sogniamo e magari qualcuno ce lo riconosce (esito per altro non garantito), ma semplicemente perché «viviamo» la Vita, cioè diventiamo capaci di riceverla tutta nel singolo istante, grazie all’ampiezza dell’anima. E in questa gioia profonda e interiore ogni posto diventa il nostro posto nel mondo, ogni tempo il nostro tempo: si è felici non perché si ha successo, ma si ha successo perché si è felici. Lo capirà Joe? E noi?
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica ULTIMO BANCO 62 - 11 gennaio 2021