Nel 2016 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 473.438 bambini, oltre 12 mila in meno rispetto al 2015. Nell'arco di 8 anni (dal 2008 al 2016) le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità.
Il calo è attribuibile principalmente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani. I nati da questa tipologia di coppia scendono a 373.075 nel 2016 (oltre 107 mila in meno in questo arco temporale). Ciò avviene fondamentalmente per due fattori: le donne italiane in età riproduttiva sono sempre meno numerose e mostrano una propensione decrescente ad avere figli.
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Meno figli per la crisi e per l'età:
la tempesta perfetta sulle culle italiane
di Chiara Saraceno
Il Paese non riesce a contrastare il calo delle nascite. Sono 100 mila i bimbi in meno negli ultimi otto anni
I primi passi di uscita dalla crisi riaccendono la voglia di sposarsi, spesso ufficializzando una convivenza già in essere. Ma non riescono a contrastare il calo delle nascite, ormai diventato strutturale e in qualche misura irreversibile nel breve - medio periodo.
La riduzione della fecondità, in atto ormai da decenni con poche interruzioni, ha infatti progressivamente ridotto la numerosità delle generazioni più giovani, ovvero quelle in grado di procreare. Secondo i dati Istat, quasi tre quarti della differenza nel numero di nascite tra il 2008 e il 2016 (circa 100.000 nati in meno) è dovuta alla modificazione della struttura per età della popolazione femminile. Allo stesso tempo, i giovani, specie se donne, scoraggiate dalle incertezze economiche e da persistenti asimmetrie di genere sia nel mercato del lavoro sia nel lavoro domestico e di cura, rimandano e riducono al minimo le scelte di fecondità.
Una sorta di tempesta perfetta: chi è in grado di procreare diminuisce numericamente e per giunta è ostacolato a farlo anche quando lo desidererebbe.
Il tasso di fecondità aveva raggiunto il suo punto più basso (ed uno dei più bassi al mondo) già a metà degli anni Novanta, quindi ben prima della crisi, senza che ciò destasse particolare riflessione a livello delle policies, salvo rituali rimproveri ai giovani «che non vogliono impegnarsi» e in particolare alle donne «egoiste» che anteporrebbero la carriera e l’autonomia economica al lavoro. Rimproveri che glissano (glissavano) — si pensi agli stucchevoli dibattiti sui “mammoni”, i choosy e simili — sulle difficoltà a trovare un lavoro stabile e ad accedere ad una abitazione senza doversi affidare ai risparmi di famiglia o a mutui ventennali e sulla necessità, per le donne, ad avere un reddito proprio per proteggere sé e i propri figli dal rischio di povertà.
La crisi, che ha colpito in modo particolare le opportunità dei giovani nel mercato del lavoro, reso ancora più vulnerabili a licenziamenti più o meno legali le donne che vanno in maternità e ridotto le risorse per i servizi, ha interrotto la piccola ripresa che aveva caratterizzato i primi anni duemila, invertendo di nuovo la tendenza.
Ma che altro ci si può aspettare in un paese in cui una donna lavoratrice su 5 è costretta a lasciare il lavoro quando ha un figlio e dove, secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, il 78% delle dimissioni “ volontarie” ha riguardato lavoratrici madri, con un aumento, nel 2016, del 45% rispetto all’anno prima di coloro che hanno dichiarato di non farcela a tenere insieme tutto?
Il calo delle nascite riguarda innanzitutto gli italiani. Sta avendo esiti, non solo demografici, drammatici soprattutto al Sud, dove i tassi di fecondità sono ormai stabilmente più bassi che nel Centro-Nord e dove, come ha documentato l’ultimo Rapporto Svimez, i giovani più istruiti hanno ripreso numerosi ad emigrare non solo fuori Italia, ma al Nord. Il veloce invecchiamento della popolazione che sta caratterizzando le regioni meridionali si somma quindi anche ad un depauperamento del capitale umano, ad una perdita di risorse che può rendere ancora più difficile la ripresa in quelle regioni.
Il calo delle nascite riguarda anche, sia pure in minor misura, anche gli stranieri, che tradizionalmente hanno un tasso di fecondità più alto. In parte è l’esito di un processo di integrazione culturale, nella misura in cui i migranti tendono ad avere un comportamento più simile a quello del paese di arrivo che a quello di partenza, per quanto riguarda la fecondità. Ma l’entità del calo segnala che la crisi e i suoi effetti di lungo periodo ha colpito anche i migranti, modificandone le aspettative rispetto alle opportunità che vedono per sé e per i figli. A maggior ragione i loro figli, come i nostri, dovrebbero essere considerati un bene prezioso su cui investire, cui dare riconoscimento e un futuro come membri a tutti gli effetti della nostra società. Senza di loro saremmo ancora più vecchi e poveri di risorse umane, con un orizzonte ancora più ristretto.
(fonte: La Repubblica del 29/11/2017)
I dati pubblicati dall’Istat mettono l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi del mondo per numero di figli con appena 473.438 nuovi nati lo scorso anno. Ma quanto siamo davvero in fondo?
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Il tasso di natalità è in calo ovunque, dappertutto nascono sempre meno bambini ma la popolazione del pianeta continua ad aumentare, almeno per ora.
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Anche in Italia non tutte le regioni si muovo nello stesso modo. Ovunque si resta sotto la fatidica soglia dei due figli, ma lo stereotipo della famiglia meridionale più numerosa si è decisamente ribaltato: nascono più bambini in Trentino-Alto Adige (1,64 per ogni donna, il record nazionale) che in Basilicata (dove sono 1,17). Il primato negativo spetta però alla Sardegna, dove i bambini per ogni donna sono appena 1,07. In pratica, quasi una donna su due non ha figli.
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