Intervista con l'arcivescovo di Bologna
Matteo Zuppi
sui poveri in Italia
a cura di Andrea Tornelli
«Serve un nuovo patto, serve concertazione, servono progetti e una visione di lungo respiro, perché la povertà come conseguenza della crisi è a sarà ancora davanti a noi». Per l'arcivescovo Matteo Zuppi, 61 anni, nominato da Papa Francesco alla guida della diocesi di Bologna alla fine del 2015, i numeri e le statistiche dell'Istat sulla povertà in Italia non dicono tutto e non fotografano abbastanza la drammaticità della situazione: la Chiesa, con le parrocchie, le Caritas, le mense e una miriade di altre opere sociali sa bene che la crisi - quella percepita nel vissuto delle famiglie - non si è affatto conclusa. Nonostante i proclami e le stime di crescita del Pil. Ne parla con La Stampa, tra una visita alla mamma ammalata di un sacerdote e una processione.
Che cosa ci dicono le statistiche dell’Istat?
«Ci dicono che esiste una emergenza povertà in Italia, della quale dobbiamo prendere atto. Ci sono milioni di persone che vivono sulla soglia della povertà estrema. Dati che richiederebbero una presa di coscienza e uno sforzo ulteriore, invece di rallegrarsi perché qualche indice sulla crescita sembra andar bene. Ci sono vecchi e nuove povertà e il rischio è di arrivare sempre in ritardo, per alleviare la situazione, quando invece servirebbero soluzioni stabili».
Quali sono le nuove povertà nella sua esperienza di vescovo di Bologna?
«Non l'abbiamo ancora classificata come “nuovaˮ, ma penso ad esempio a quella degli anziani. Con l'allungamento della vita e il venir meno di protezioni sociali, si allunga la lista di coloro che non sono più sufficientemente tutelati. Cresce il loro numero nelle mense dei poveri, e non soltanto a motivo di quella povertà “relazionaleˮ che è la solitudine, ma per veri e propri motivi economici. Per non parlare delle medicine, quelle non coperte che richiedono il pagamento di ticket. Mi hanno detto che il consumo di latte diminuisce sensibilmente negli ultimi giorni prima della riscossione delle pensioni».
Poi c'è la povertà di chi perde il lavoro e non riesce a trovarne un altro...
«Per questo dico che la povertà è ancora davanti a noi. A motivo della crisi, della disoccupazione, della precarietà, ci troveremo ad avere molti più anziani senza pensione».
Colpiscono anche i dati riguardanti l'impoverimento di quella che un tempo era la cosiddetta “classe mediaˮ. Cresce il numero degli italiani che non possono permettersi di andare in vacanza.
«Ci deve molto preoccupare questa povertà diffusa che prepara una condizione peggiore per il futuro. La protezione familiare è quella che oggi permette, in certe situazioni, di andare avanti, grazie alla pensione del nonno o della nonna. C'è bisogno di sostenere le famiglie, di politiche a sostegno della natalità, di maggiore sicurezza e minore precarietà. Ma in futuro questo sarà sempre meno possibile, perché gli anziani di domani avranno pensioni più basse».
Le istituzioni, la politica, si rendono conto di questa situazione secondo lei?
«Certamente le risposte sono troppo poche e poco strutturali. Sono troppo legate al contingente. Servono risposte a lungo termine, al di là delle convenienze immediate o delle divisioni partitiche. C'è una vera e propria tentazione, che è quella delle piccole convenienze. Servono un nuovo patto, concertazione, progetti e una visione di ampio respiro, come quella che hanno avuto i nostri genitori nel Dopoguerra, anche se oggi le macerie sono di altro genere. Se si proteggono i più deboli, sono protetti tutti».
C'è il rischio, secondo lei, di una guerra tra poveri? Colpisce che talvolta gli italiani impoveriti diano la colpa agli immigrati...
«Rischiamo una guerra tra poveri e anche una guerra tra generazioni. Invece è soltanto insieme che possiamo trovare le risposte. Crediamo di individuare il colpevole nella “concorrenzaˮ che invece è un'opportunità in più. Anche qui c'è una responsabilità della politica, che dovrebbe essere un po’ meno populista. Ci vogliono più progetti e meno slogan, più visione e meno sondaggi. Più realismo, più concretezza e meno tweet. È un impegno che dobbiamo prendere tutti, con un nuovo patto tra le parti. A Bologna abbiamo iniziato il patto sul lavoro, che coinvolge il Comune, le industrie, i sindacati, la Chiesa, senza confusioni di ruoli. Speriamo dia frutto. Solo insieme si può uscire dalla crisi»
(Fonte: "La Stampa" del 17.07.2017)