Esodo 12, 1-14
1Corinzi 11,23-32
Giovanni 13,1-15
Le tre letture di questa liturgia della “Cena del Signore” ci testimoniano la celebrazione della Pasqua nell’antica alleanza (Es 12,1-14), la celebrazione della Pasqua nella comunità della nuova alleanza (1Cor 11,23-32) e la celebrazione della Pasqua operata da Gesù nell’ora del suo esodo da questo mondo al Padre (Gv 13,1-15). La Pasqua è il mistero centrale della fede per il popolo di Israele e per la chiesa cristiana; la Pasqua è questa festa, celebrazione, memoriale dell’azione di liberazione di Dio nella storia, liberazione degli uomini. La Pasqua è il rinnovamento dell’alleanza fedele tra Dio e la sua comunità, e attraverso la sua comunità alleanza anche con tutta l’umanità, tutta chiamata alla salvezza.
È il Signore stesso che vuole che la sua Parola raggiunga la comunità di Israele e determini il modo di celebrare quel memoriale pasquale. E il testo dell’Esodo che abbiamo ascoltato ci dice che tutta la comunità, tutta la chiesa (kol ‘edah: Es 12,3; kol qahal: Es 12,6) dovrà celebrare la Pasqua, dovrà immolarla al tramonto del quattordici di Nisan. Tutta la comunità, tutta la chiesa è soggetto celebrante, e si precisa anche che nessun incirconciso potrà mangiare la Pasqua, ma solo tutta la comunità di Israele (cf. Es 12,48). E con una consapevolezza che deve essere assolutamente rinnovata di generazione in generazione si celebrerà la Pasqua: per questo tutti i testi di istituzione della Pasqua, i tre testi dell’Esodo oltre al nostro (cf. Es 13,3-10; 23,14-19; 34,18-26), chiedono che nella trasmissione della festa pasquale si istruisca la nuova generazione, si dica che cosa significa questo atto cultuale. Anzi, diventa un dovere per i giovani chiedere: “Perché celebriamo così questa festa, che cosa significa?” (cf. Es 12,26).
Nella seconda lettura c’è la tradizione della volontà del Signore circa la celebrazione eucaristica. È tutta la comunità, di nuovo, che la celebra: “Quando voi vi radunate … quando voi mangiate il pane e bevete il vino” (cf. 1Cor 11,20.26). Ancora una volta è tutta l’assemblea il soggetto celebrante, ma proprio perché è tutta l’assemblea, l’insistenza cade sulla consapevolezza, sul capire, sul comprendere; non solo sapendo ciò che si fa in obbedienza ai gesti e alle parole di Gesù sul pane e sul vino, ma – ci dice anche Paolo – discernendo, comprendendo ciò che può svuotare le azioni del Signore, ciò che può svuotare la cena del Signore: cena della comunità, pasto comune, che può diventare cena privata, non più cena del Signore. L’ammonimento di Paolo a compiere questo discernimento è un ammonimento minaccioso: “Se voi non capite il significato profondo dell’eucaristia, voi mangiate e bevete la vostra condanna” (cf. 1Cor 11,29). E Paolo la vedeva già in atto quella condanna nella comunità di Corinto, perché molti nella comunità di Corinto erano frustrati e ammalati, e Paolo, che ha un carisma profetico, legge questo come il risultato di una patologia nella prassi eucaristica (cf. 1Cor 11,30).
Nel quarto vangelo, il vangelo “altro”, noi abbiamo l’altro segno rispetto alla frazione del pane, il segno della lavanda. Un segno che la chiesa – ahimè! – ha dimenticato sovente, per secoli; molte chiese non la praticano più, e quando la lavanda è praticata, lo è in assetti da corte imperiale che svuotano tutto il suo significato. Eppure la lavanda nel vangelo, nella volontà di Gesù è un sacramento, come affermavano i padri e come affermava addirittura san Bernardo, dicendo che la lavanda dei piedi è un sacramento quanto il battesimo e l’eucaristia. C’è un’azione di Gesù, che la comunità deve accogliere e che poi tutti i membri della comunità dovranno ripetere come memoriale per vivere concretamente la lavanda, cioè per entrare nel servizio l’uno dell’altro (cf. Gv 13,14-15). Certo, sopratutto chi è primo, chi presiede, deve lavare i piedi dell’ultimo, deve lavare i piedi per mostrare che se è primo, se presiede, è solo per un servizio. Ma questo segno – lo abbiamo ascoltato – Pietro non lo capisce, e Gesù lo avverte: la comprensione di questo sacramento decisivo, chi non lo comprende non può avere comunione con il Signore. “Se tu non ti lasci lavare, non avrai parte con me” (cf. Gv 13,6-8). Ma, di nuovo, vi è qui la stessa preoccupazione che abbiamo trovato nelle prime due letture, la preoccupazione della comprensione. Gesù chiede: “Avete capito ciò che ho fatto?” (Gv 13,12). Avete capito che ho lavato i piedi a tutti voi, anche a Pietro che non capisce e anche a Giuda il traditore, colui che era più lontano a Gesù quella sera? Eppure Gesù ha lavato i piedi a Giuda, come a Pietro, come agli altri senza distinzione, senza ammonizione, semplicemente facendo il servizio che dobbiamo farci gli uni verso altri nella nostra vita.
Abbiamo dunque tre racconti di alleanza, tre racconti di comunione tra credenti e di comunione tra la comunità e il Signore, ma anche tre richieste di consapevolezza e un unico messaggio narrato e fatto memoriale: il Signore è al servizio dell’uomo, della sua comunità, Israele, della sua comunità, la chiesa. Ma sostiamo in particolare sul testo della prima lettera ai Corinzi. Lo conosciamo bene, anche se, come tutte le pagine del Nuovo Testamento, ci appare sempre inesauribile nella ricchezza del messaggio: basta che passi un anno e lo comprendiamo già in modo diverso, semplicemente perché abbiamo vissuto e, vivendo, se abbiamo vissuto umanizzandoci, capiamo di più anche il Signore. C’è una comunità fondata dall’Apostolo, con tante fatiche, la comunità di Corinto, la più amata da Paolo, che però a pochi anni dalla sua fondazione, in assenza di Paolo mostra di essere una comunità già spiritualmente malata. L’essere collocati nella marea del mondo pagano, in cui l’idolatria era dominante, il vivere un’economia liturgica che si faceva sempre di più garanzia di salvezza, un soggettivismo nella comunità di Corinto, che aveva mostrato molti doni – non c’è nessuna comunità nel Nuovo Testamento così ricca di soggettività e di carismi come quella di Corinto –… ma quel soggettivismo che la rendeva così feconda e ricca era diventato un individualismo che voleva far precipitare la chiesa in una situazione di non-chiesa.
Di questa situazione patologica per Paolo è un’epifania la celebrazione dell’eucaristia, come l’eucaristia è vissuta nella comunità. Paolo è costretto a denunciare: “Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1Cor 11,20). Per questo il primo dovere dell’Apostolo è ricordare il Vangelo: egli ricorda il Vangelo, la buona notizia, la tradizione, che lui aveva ricevuto dal Signore e che aveva trasmesso alla sua comunità. “Vi ho trasmesso quello che io ho ricevuto” (cf. 1Cor 11,23), non qualcosa di proprio o di suo, perché Paolo è l’Apostolo senza interessi personali. Paolo dice: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane, lo spezzò e disse: ‘Questo è il mio corpo che è per voi’ – sottolineo la forma paolina delle parole di Gesù: “Il mio corpo che è per voi” –. Fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Ogni volta che ne bevete, fate questo in memoria di me’” (1Cor 11,23-25). Così – Paolo dice – si annuncia la morte del Signore (cf. 1Cor 11,26), cioè si fa della morte del Signore una buona notizia, si vede nella morte di Gesù la morte del Servo del signore profetizzata da Isaia (cf. soprattutto Is 52,13-53,12), quella morte in cui, proprio nell’atto estremo del dono di sé fino al dono del sangue, è stata stipulata un’alleanza nuova tra Dio e il suo popolo.
Se questa è la tradizione lasciata dall’Apostolo ai Corinzi, la comunità però sembra non comprenderla più. E noi ci chiediamo: i Corinzi non comprendevano più l’eucaristia a quale livello? Non comprendevano cosa l’eucaristia narrava di Cristo? I Corinzi non erano forse più di grado di mantenere l’ortodossia, o in verità non comprendevano più nelle sue esigenze e nelle sue conseguenze il pasto eucaristico? Non comprendevano più la verità totale, integrale che chiede ai discepoli non solo un pensiero, una teologia dell’eucaristia, una sua comprensione intellettuale, ma anche una concreta prassi che coinvolga tutto l’essere del cristiano, la realtà del suo corpo, perché è il corpo che è il cammino di Cristo? La comunità di Corinto non sa trarre le conseguenze dalla celebrazione eucaristica, e questa omissione diventa misconoscimento del dono grande dell’eucaristia. Paolo dice: “Ognuno infatti consuma la propria cena (tò ídion deîpnon)” (1Cor 11,21), sicché la cena non è più koinón deîpnon, non è più cena comune, di comunione. Come è possibile? Se uno solo è il pane, se uno solo è il corpo del Signore – ripete Paolo (cf. 1Cor 10,16-17) – come è possibile che ci siano nella comunità della comunioni private, individuali con il Signore? È forse possibile essere in comunione con il Signore senza essere in comunione con quelli con cui si vive? È possibile, perché si può andare alla cena e si può mangiare il pane, si può andare alla cena e bere al calice, ma in modo indegno, anaxíos (1Cor 11,27), indegno, e così si diventa colpevoli e degni di condanna.
Ma che cos’è questa indegnità? Siamo indegni dell’eucaristia forse perché abbiamo dei peccati? Forse perché siamo responsabili di colpe in cui cadiamo ogni giorno e in cui continuiamo a ricadere? “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, come dice quel detto tradizionale attribuito ai padri del deserto. No, perché l’eucaristia è un sacramento per i malati, è una tavola offerta per i peccatori, non è qualcosa che è per i giusti; eventualmente sono gli uomini di chiesa che trasformano l’eucaristia in un banchetto per i giusti, ma Gesù l’ha voluta per i peccatori. Quando andiamo all’eucaristia, siamo come dei mendicanti. Per questo quando andiamo all’eucaristia, anche con il nostro corpo, prima di ricevere il pane e il vino ci inchiniamo, inchiniamo il nostro corpo e poi apriamo la mano. È il gesto del mendicante: il mendicante che vi chiede l’elemosina vi fa un inchino e stende la mano, e noi facciamo lo stesso con il Signore. E non a caso la sapienza della liturgia latina ci fa dire: “Signore, io non sono degno che tu faccia di me la tua dimora, non sono degno di accoglierti nella mia casa che è il mio corpo, che è tutto il mio essere, ma confido in una sola parola, nella parola del Signore, e allora sarò fatto degno”. Dunque – vedete – questa indegnità non è l’indegnità dei nostri peccati.
E allora che cos’è questa indegnità in cui si mangia e si beve la propria condanna? Paolo la spiega subito dopo: è il non discernere, il non capire, il non riconoscere il corpo e il sangue del Signore (cf. 1Cor 11,29). Questa è davvero l’indegnità. E allora capiamo perché c’è questa preoccupazione di capire, di conoscere. Certo, Paolo vuole dire che non riconoscere che quel pane è il corpo di Cristo, che quel calice è il calice del sangue di Cristo, è indubbiamente un disprezzare il Signore stesso e non accogliere la sua parola, perché è la sua parola che ci dice che quel pane che ci viene dato e quel vino che ci viene offerto sono il suo corpo e il suo sangue. Ma Paolo intende anche un’altra cosa: non riconoscere il corpo che è la chiesa. In tutto il contesto di questo capitolo l’accento non cade sugli elementi dell’eucaristia ma sul corpo che è la chiesa. E proprio perché i Corinzi non hanno il discernimento della chiesa, mangiano ognuno la propria cena, non aspettano gli altri, non condividono con i poveri quella cena: ecco perché disprezzano il corpo del Signore. Paolo l’ha detto appena prima: “Perché venite a disprezzare il corpo del Signore?”. Nella comunità di Corinto si poteva essere cristiani e non rendersi conto adeguatamente del corpo di Cristo che è la comunità, che è la chiesa.
Perché un tale misconoscimento? Come può avvenire?, si chiede Paolo. Ma potremmo dire, se pensiamo a noi oggi, perché ciò avviene ancora dopo tanti secoli di teologia eucaristica, e soprattutto oggi, in un tempo cui i cristiani possono beneficiare di una ricchezza teologica, spirituale, liturgica sull’eucaristia che forse non c’è mai stata in tutta la storia della chiesa? Pensiamo solo, noi che viviamo in questa generazione, all’ecclesiologia di comunione: ebbene, noi che abbiamo un’ecclesiologia di comunione, che abbiamo sentito la comunione con una forza che le altre generazioni prima nella chiesa cattolica non hanno mai sentito, siamo in realtà quelli che più misconoscono la comunione del corpo del Signore. Questa è la verità. Di nuovo, certamente c’è una dominante di individualismo. Ma perché la chiesa non è più amata dalle nuove generazioni? Si può solo dare la colpa, eventualmente, alla gerarchia o a quanti danno scandalo? O non c’è forse un ammanco, grave, che consiste nel non discernere più che la chiesa è il corpo del Signore? Interessarsi alla vita della chiesa è interessarsi al corpo del Signore! Noi dobbiamo interrogarci seriamente, perché si fa presto a pensare che noi andiamo all’eucaristia a posto, tutt’al più se ci siamo confessati prima, riducendo il nostro peccato semplicemente alle colpe quotidiane. No, c’è una questione di discernimento del corpo del Signore: non è solo il pane e il vino il corpo e il sangue del Signore, ma è la chiesa, è la comunità, e poi certamente il povero, il bisognoso, l’ultimo – questo Gesù ce lo ha insegnato – sono corpo del Signore. Noi dobbiamo chiederci se siamo capaci di discernere il corpo di cui facciamo parte, il corpo comunitario, il corpo di coloro che vivono accanto a noi, il corpo degli ultimi, dei bisognosi, dei peccatori. Noi certamente ripetiamo l’eucaristia, la celebriamo con attenzione e cura, ci esercitiamo alla necessaria ars celebrandi, ma poi non vediamo il corpo reale di Cristo: affamati, prigionieri, nudi, malati, stranieri, perseguitati, dimenticati (cf. Mt 25,31-46). Insomma, peccatori – non dimentichiamo questo – peccatori, in modo diverso sempre bisognosi.
Se Gesù ha detto – lo abbiamo sentito – consegnando il pane: “Il mio corpo è per voi (hypér hymôn)” (1Cor 11,24), noi dovremmo saper dire lo stesso: “Il mio corpo, tutta la mia esistenza è per voi”. Dovremmo dire al fratello: “Il mio corpo, la mia esistenza è per te, perché il mio corpo è la mia vita”. Ecco, è il corpo che è la via di Dio, non ci sono altre di vie né per noi per andare a Dio, né per Dio per venire a noi. E quando dico che il corpo è la via di Dio, intendo il mio corpo, il corpo dell’altro, il corpo che è la chiesa: tutta questa realtà è il corpo di Cristo. Il culto spirituale, la loghiké latreía (Rm 12,1), secondo l’Apostolo, è un culto nel corpo e per il corpo: il mio corpo per il corpo degli altri, come il corpo di Cristo è per il nostro corpo. Ricordate 1Cor 6,13: “Il corpo è per il Signore”, ma anche “il Signore è per il corpo”. Il Signore è a servizio del corpo, corpo che è la chiesa, corpo che sono io, corpo del fratello. Essere cristiani significa proprio capire che Dio ha potuto dirci in Gesù: “Il mio corpo è per voi, il mio corpo è per voi”. Ecco che cosa significa riconoscere il corpo di Cristo per mangiare degnamente il pane che è il suo corpo. La liturgia cristiana si realizza non nella celebrazione e non si esaurisce nella celebrazione. La celebrazione non è mai il fine, il culmine del nostro culto a Dio. Il culto spirituale (loghiké latreía) o il sacrificio spirituale (pneumatiké thysía: cf. 1Pt 2,5) si vivono e si realizzano nella vita quotidiana, nel nostro rapporto quotidiano con gli altri: questa è la consapevolezza, una vera comprensione non intellettuale, non gnostica dell’eucaristia.
Il Signore ci attende dunque all’eucaristia. E qui dobbiamo dirlo: il Signore attende tutti i battezzati. Lo ripeto, tutti i battezzati che sanno discernere il corpo e il sangue di Cristo possono andare e, inchinati, stendere la mano: c’è il Signore che ci dà il suo corpo. Interroghiamoci anche su questo, come mai sia possibile che si vada all’eucaristia senza discernimento, e poi altri che andrebbero magari con discernimento, solo perché abbiamo messo delle barriere confessionali, non vi possono andare. Come se semplicemente il recitare le verità di fede bastasse senza una reale prassi. Chi è più vicino, fratello, sorella, madre di Cristo? Lo ha detto Gesù: chi fa la volontà di Dio (cf. Mt 12,50). Ecco, l’eucaristia è là: come mendicanti dobbiamo andare con grande discernimento del corpo di Cristo. E faccio un invito: il corpo di Cristo lo si discerne al di là della nostra confessione, non per far sparire le barriere che la storia ha innalzato e che indubbiamente sono barriere in cui Dio ne ha sofferto, ma perché il nostro occhio deve essere capace di vedere, al di là della barriera, quelli che discernono il corpo e il sangue del Signore e che in una prassi sono più fedeli di quanti magari vanno alla stessa eucaristia e non hanno questa capacità né di discernimento né di farne memoria.
Il Signore davvero ci porge l’eucaristia, accogliamo questo gesto straordinario. Io spero che la chiesa conservi questo gesto in cui l’eucaristia si riceve e non si prende: la si riceve, dopo aver assunto l’atteggiamento del mendicante, con il carico dei nostri peccati, perché l’eucaristia è un viatico per i peccatori, per quelli che si sentono tali. E quanti si sentono giusti, vadano o non vadano all’eucaristia, per loro non cambia nulla, anche se in realtà mangiano e bevono la propria condanna.