Quell’odio che comanda il mondo
di Massimo Recalcati
La sconcertante attualità geopolitica ha situato la passione dell’odio come protagonista indiscussa della nostra vita collettiva. Si tratta di una passione che una volta Lacan ha definito come una «carriera senza limiti». Non c’è infatti limite all’umano nella sua versione di Polemos, di dio della guerra. Per questa ragione Freud ricordava che la passione dell’odio viene sempre prima di quella dell’amore.
Essa vorrebbe distruggere tutto ciò che ostacola la volontà di affermazione dell’Uno. Ma diversamente dall’aggressività, che è una risposta reattivamente immediata alle frustrazioni imposte dalla presenza dell’Altro, la passione dell’odio appare come una specie di passione a lungo respiro. Non si consuma in una reazione impulsiva, come accade invece nell’aggressività, ma tende a persistere, a istituirsi come una passione “fedele” e “solida”. Il suo obbiettivo non è tanto quello di rispondere violentemente a quella che viene percepita come una frustrazione, ma quella di programmare, con lucidità che può essere persino apatica, la propria affermazione incontrastata a scapito dell’Altro.
Se nel linguaggio comune si può dire che l’odio acceca, è bene sempre ricordare che l’odio non è un semplice tumulto emotivo destinato a disinfiammarsi nel tempo, ma una spinta pulsionale che mira a negare il diritto di esistenza a chi costituisce il limite della nostra espansione individuale o collettiva.
Diversamente dall’aggressività che può esplodere in circostanze imprevedibili per essere riassorbita anche in breve tempo, l’odio è una passione lucida che si sedimenta e si alimenta nel tempo. Questo perché attraverso l’odio è possibile perseguire un ideale di solidità identitaria. L’odio per l’ebreo, l’omosessuale, l’infedele, il negro, la donna, il palestinese, ecc., consente di guadagnare una propria consistenza, una propria natura, un proprio essere.
L’odio per l’impuro, infatti, è necessario a definire l’essere di chi si vuole considerare puro. È per esempio di questa natura l’odio che anima la furia morale degli ayatollah nei confronti delle donne iraniane. In questo caso non si tratta affatto di una semplice reazione aggressiva, ma di una visione del mondo che si manifesta proprio attraverso la passione dell’odio.
In questo senso l’odio non è mai un’alternativa emotiva alla programmazione o alla pianificazione dei suoi obiettivi. Tutto il contrario. La sua lucidità esige proprio la programmazione e la pianificazione. Si pensi al caso estremo della “soluzione finale” perseguita dai nazisti nei confronti degli ebrei. Se la reazione aggressiva si consuma in una esplosione violenta, finanche nella perdita di controllo, nell’incandescenza di un passaggio all’atto che può essere anche drammaticamente violento, la lucidità feroce dell’odio che vuole imporre l’identità dell’Uno su quella dell’Altro porta con sé una quota necessaria di impassibilità.
Per questa ragione, diversamente dall’impulso aggressivo, la passione lucida dell’odio dura nel tempo. E sempre per questa ragione esso non ha come meta solo la sconfitta dell’avversario e il proprio trionfo, ma il suo annientamento, la sua umiliazione, la negazione della sua stessa dignità. La carriera dell’odio è davvero, anche da questo punto di vista, destinata a non avere limiti. Non è allora affatto un caso se la sua natura ideologicamente fondamentalista e anti-laica sia ritornata a ispirare nel nostro tempo i rigurgiti drammatici di forme diverse di totalitarismo e di tendenze radicalmente anti-democratiche.
Se l’esperienza della democrazia si struttura sull’irriducibilità del Due — sull’impossibilità dell’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua, come ricorda la Torah a proposito dell’impresa delirante degli uomini della Torre di Babele — quella dei totalitarismi e delle spinte populiste antidemocratiche esige invece la soppressione del pluralismo del Due nel nome del fanatismo dell’Uno. Non stupisce che negli attuali conflitti bellici che dominano la scena della nostra vita collettiva e angosciano le nostre vite individuali troviamo tra i protagonisti maggiori i fondamentalismi che invocano il nome di Dio per suffragare il loro diritto a sterminare l’avversario.
L’odio di Dio diventa un alleato formidabile per rafforzare l’odio dell’uomo. Non a caso lo stesso tycoon Trump invoca la mano di Dio sulla sua testa come ispiratrice della sua missione di restaurazione della gloria perduta degli Stati Uniti d’America. Nondimeno, come insegna la psicoanalisi, il perseguimento dell’Uno senza considerare l’insopprimibilità del Due non può che generare morte e distruzione.
Il rifiuto di riconoscere l’esistenza separata del pluralismo del Due, la volontà ferrea di ricondurla al monolinguismo dell’Uno, struttura l’illusione di una comunità che si costituirebbe sull’annullamento delirante delle differenze, come una comunione che esclude ogni libertà. È il sogno che ha ispirato la terribile stagione novecentesca dei totalitarismi ideologici. Nondimeno, oggi possiamo osservare una variazione cruciale su questo tema che proviene proprio da Donald Trump. Lo aveva a suo modo anticipato Pasolini nel suo Salò: l’espressione autoritariatotalitaria del potere non è alternativa all’arbitrio anarchico della volontà individualista ma può costituirne il suo massimo compimento.
(Fonte: “la Repubblica” - 18 marzo 2025)