L'umanità di Gesù è modello accessibile per una felicità
che
non pretende di trattenere ma si allena a donare.
«Caro don, ma per te la felicità che cos'è?»
domande di Margherita e Paolo
a don Enrico Parazzoli
Margherita, 21 anni, e Paolo, 24 anni, due giovani impegnati a vario titolo nell'ambito ecclesiale, hanno rivolto alcune domande a don Enrico Parazzoli, parroco della periferia di Milano e assistente regionale AGESCI Rover/Scolte (ragazzi tra i 16 e i 20 anni), impegnato per molti anni nella pastorale scolastica. (Testo pubblicato su Vino Nuovo il 24 giugno 2017)
Margherita, 21 anni, e Paolo, 24 anni, due giovani impegnati a vario titolo nell'ambito ecclesiale, hanno rivolto alcune domande a don Enrico Parazzoli, parroco della periferia di Milano e assistente regionale AGESCI Rover/Scolte (ragazzi tra i 16 e i 20 anni), impegnato per molti anni nella pastorale scolastica.
Le domande sono nate dal tema del mese: gioia, felicità e vocazione, con alcune declinazioni che i due giovani hanno poi voluto scegliere in base alle loro personali preferenze. Di seguito riportiamo il testo dell'intervista, ringraziando Paolo, Margherita e don Enrico.
La felicità è un concetto complicato da esprimere a parole: secondo lei un giovane, che vive in un mondo in cui la felicità viene proposta secondo innumerevoli e svariati modelli, come fa a capire di essere realmente felice?
Io credo che la felicità non sia un concetto, e non sia una pienezza definitiva. La felicità non ha nel mondo una stabilità che consenta di delimitarla e catturarla: è sempre presenza e attesa, esperienza e desiderio. Per questo la felicità è più simile a un esercizio, a un percorso, a un affinamento dell'animo. È conoscenza di sé, dell'altro, del mondo, e coraggio di osare. A volte ci sono felicità che non paiono tali, e poi ti accorgi che invece sei davvero te stesso, nella gioia; a volte ci sono felicità che sembrano appagarti, ma guardi bene e sono già sparite, e non basta cercarle ancora e ripeterle perché poi ti annoiano. La felicità è ricerca di un bene che non può essere solo mio, perché precipiterei in un egocentrismo devastante, e nemmeno uno scriteriato buttarsi via in esperimenti, relazioni, sensazioni, che mi privano di me stesso e mi consegnano a un'incertezza che mi distrugge e mi intristisce. La felicità ha bisogno di maestri e discepoli, che non parlino (soltanto) ma camminino insieme, esplorando l'animo proprio e accostandosi con rispetto a quello altrui, imparando cos'è dedizione e servizio, non temendo la fatica, apprendendo che l'immediatezza non è amica dell'autenticità e che la distanza, il tempo, come anche le ferite e i fallimenti, sono passaggi che ci permettono di entrare in sintonia con una percezione della felicità che non è tanto fatta di categorie, ma di animo limpido, pensieri non menzogneri, sguardi aperti, desiderio di verità e non solo bisogni.
Come può dire di aver vissuto la felicità nella sua vita?
Io ho cinquant'anni e sono prete da ventisei: credo di essere in una stagione in cui la felicità ha bisogno di più radice, e di maggiore pazienza. Ho vissuto felicità egoiste, o semplicemente funzionali solo al mio benessere, e fuggito talvolta la pazienza di coltivare gioie più serene e più durature. Ho sperimentato momenti di pienezza, relazioni vere, e insieme la tristezza di sentirmi bloccato, incapace, inadeguato, con la delusione e talvolta la rabbia che mi incupivano l'animo. Ho ricevuto molto, non in situazioni eccezionali ma nella quotidianità. Ho incontrato persone luminose, ho cercato di essere anch'io una persona vera, affidabile. Ho visto percorsi di vita avviarsi spediti, e sentieri interrompersi. Ho avuto in dono amore, e amicizia, e molta gratuità. Ho cercato di corrispondere, non sempre adeguatamente (per paura, pigrizia, stupidità). Ora credo che la felicità sia per me non un oggetto da possedere, ma un modo di rapportarmi alle cose, alle situazioni, alle persone: più positività, più accoglienza, meno pretese, meno rigidità. Mi consola la percezione che l'umanità di Gesù - che ho conosciuto nella giovinezza e continuamente mi interpella - è modello accessibile per una felicità che non pretende di trattenere ma si allena a donare. Spero che Dio mi doni ancora tempo per essere felice meno ingenuamente, con più saggezza.
Durante gli incontri di catechesi spesso ci dicono che solo capendo quale sia la nostra vocazione possiamo essere felici, secondo lei quali sono i criteri che ci permettono di individuare quella che è la nostra vera vocazione?
La vocazione - detto in termini un po' estremi - non ha un 'criterio', perché non è un contratto. Parte dalla percezione che la vita è chiamata ben prima della sua esistenza fisica. Dunque non esiste una 'vera vocazione' ma la ricerca umile, talvolta ardua, di una 'voce' che mi fa percepire l'esistenza non solo in termini fisiologici o razionali. Vocazione è percepirmi - nella prospettiva delle testimonianza che ci offrono la Bibbia e la vicenda umana di Gesù - generato da Qualcuno che non è un Essere Superiore, ma una persona (Padre e Madre) che mi ama, mi vuole, mi mette nel mondo chiedendomi di non accontentarmi del mondo, perché sono fatto per altri orizzonti e destini (sono 'suo figlio'). La 'vocazione' si genera mentre ti domandi chi sei, da dove vieni, per cosa sei al mondo, e intuisci una presenza che silenziosamente ti strappa alla solitudine, mettendoti in una relazione. Un po' come dire: come faccio a capire di essere innamorato, e di desiderare che la mia vita oltrepassi il suo egoismo per aprirsi senza paura all'esperienza dell'essere due? Solo osando, conoscendo me e l'altro/a, andando oltre il bisogno e la necessità, rispondendo a una logica che logica non è: io sono per te, tu sei per me, io e te siamo più della nostra somma.
Molti dei nostri coetanei non vedono la Chiesa come un luogo felice; come le situazioni parrocchiali possono essere un luogo di crescita e di relazione profonda, che permetta di interrogarsi sulla propria vocazione?
La Chiesa è un concetto astratto, finché non diventa persone e consuetudine, finché non ci consente la scoperta che Gesù ha voluto dietro a sé non tante singolarità occupate ad autoperfezionarsi, ma persone che - proprio nell'esperienza di camminare insieme, di fare comunità (non club o condominio), di dialogare e cercare insieme strade vere per vivere il vangelo, cioè una vita buona - sperimentano un modo 'altro' di vivere l'essere uomini e donne. E forse un giovane non deve aspettare che si creino 'situazioni parrocchiali' propizie, ma deve generarle, osando la profezia di proposte che sveglino la sonnolenza delle abitudini (non sbagliate per forza, ma spesso inadeguate) là dove abita e vive quotidianamente. L'essenziale è che sia lo Spirito Santo a soffiare, a suggerire, e non semplicemente l'estro personale: la Chiesa non nasce dalle regole, e nemmeno dalle paturnie o dalle fantasie, ma è generata dall'obbedienza a quello che solo Dio è capace di ispirare.
Come può l'oratorio ritornare ad essere il luogo in cui i giovani cerchino la felicità?
Non so se l'oratorio è mai stato il luogo dove un giovane doveva cercare la felicità, a meno che non si intenda la felicità della spensieratezza dei bimbi e dei ragazzi che giocano, con un bar fornito di caramelle... Senz'altro l'oratorio ha bisogno di essere riformato, non tanto a partire da criteri esteriori (più persone, più eventi, più modernità, più sport, più salamelle e patatine...) quanto da un principio essenziale: è palestra che consente di allenarsi alle virtù - cioè alle abilità buone - che servono per vivere da adulti. Non è (sempre) così, perché manca il coraggio di proporre cose vere, di usare il tempo per dedicarsi alle questioni essenziali (la cultura, la politica, i poveri, il futuro del mondo) come faceva Gesù con i suoi amici. Detto così parrebbe un progetto 'pallosissimo': la realtà è che se ti dedichi a cose vere aumenta anche la gioia di percepire che la strada ti si apre davanti... Forse la forma dell'oratorio è inadeguata, perché oggi occorrono segni diversi e parole inedite, ma senz'altro non è inadeguata l'intuizione di dedicare tempo, creatività e pazienza a generare chi domani sarà adulto. Non con un progetto costruito 'sopra' ma 'da terra'.
Le domande sono nate dal tema del mese: gioia, felicità e vocazione, con alcune declinazioni che i due giovani hanno poi voluto scegliere in base alle loro personali preferenze. Di seguito riportiamo il testo dell'intervista, ringraziando Paolo, Margherita e don Enrico.
La felicità è un concetto complicato da esprimere a parole: secondo lei un giovane, che vive in un mondo in cui la felicità viene proposta secondo innumerevoli e svariati modelli, come fa a capire di essere realmente felice?
Io credo che la felicità non sia un concetto, e non sia una pienezza definitiva. La felicità non ha nel mondo una stabilità che consenta di delimitarla e catturarla: è sempre presenza e attesa, esperienza e desiderio. Per questo la felicità è più simile a un esercizio, a un percorso, a un affinamento dell'animo. È conoscenza di sé, dell'altro, del mondo, e coraggio di osare. A volte ci sono felicità che non paiono tali, e poi ti accorgi che invece sei davvero te stesso, nella gioia; a volte ci sono felicità che sembrano appagarti, ma guardi bene e sono già sparite, e non basta cercarle ancora e ripeterle perché poi ti annoiano. La felicità è ricerca di un bene che non può essere solo mio, perché precipiterei in un egocentrismo devastante, e nemmeno uno scriteriato buttarsi via in esperimenti, relazioni, sensazioni, che mi privano di me stesso e mi consegnano a un'incertezza che mi distrugge e mi intristisce. La felicità ha bisogno di maestri e discepoli, che non parlino (soltanto) ma camminino insieme, esplorando l'animo proprio e accostandosi con rispetto a quello altrui, imparando cos'è dedizione e servizio, non temendo la fatica, apprendendo che l'immediatezza non è amica dell'autenticità e che la distanza, il tempo, come anche le ferite e i fallimenti, sono passaggi che ci permettono di entrare in sintonia con una percezione della felicità che non è tanto fatta di categorie, ma di animo limpido, pensieri non menzogneri, sguardi aperti, desiderio di verità e non solo bisogni.
Come può dire di aver vissuto la felicità nella sua vita?
Io ho cinquant'anni e sono prete da ventisei: credo di essere in una stagione in cui la felicità ha bisogno di più radice, e di maggiore pazienza. Ho vissuto felicità egoiste, o semplicemente funzionali solo al mio benessere, e fuggito talvolta la pazienza di coltivare gioie più serene e più durature. Ho sperimentato momenti di pienezza, relazioni vere, e insieme la tristezza di sentirmi bloccato, incapace, inadeguato, con la delusione e talvolta la rabbia che mi incupivano l'animo. Ho ricevuto molto, non in situazioni eccezionali ma nella quotidianità. Ho incontrato persone luminose, ho cercato di essere anch'io una persona vera, affidabile. Ho visto percorsi di vita avviarsi spediti, e sentieri interrompersi. Ho avuto in dono amore, e amicizia, e molta gratuità. Ho cercato di corrispondere, non sempre adeguatamente (per paura, pigrizia, stupidità). Ora credo che la felicità sia per me non un oggetto da possedere, ma un modo di rapportarmi alle cose, alle situazioni, alle persone: più positività, più accoglienza, meno pretese, meno rigidità. Mi consola la percezione che l'umanità di Gesù - che ho conosciuto nella giovinezza e continuamente mi interpella - è modello accessibile per una felicità che non pretende di trattenere ma si allena a donare. Spero che Dio mi doni ancora tempo per essere felice meno ingenuamente, con più saggezza.
Durante gli incontri di catechesi spesso ci dicono che solo capendo quale sia la nostra vocazione possiamo essere felici, secondo lei quali sono i criteri che ci permettono di individuare quella che è la nostra vera vocazione?
La vocazione - detto in termini un po' estremi - non ha un 'criterio', perché non è un contratto. Parte dalla percezione che la vita è chiamata ben prima della sua esistenza fisica. Dunque non esiste una 'vera vocazione' ma la ricerca umile, talvolta ardua, di una 'voce' che mi fa percepire l'esistenza non solo in termini fisiologici o razionali. Vocazione è percepirmi - nella prospettiva delle testimonianza che ci offrono la Bibbia e la vicenda umana di Gesù - generato da Qualcuno che non è un Essere Superiore, ma una persona (Padre e Madre) che mi ama, mi vuole, mi mette nel mondo chiedendomi di non accontentarmi del mondo, perché sono fatto per altri orizzonti e destini (sono 'suo figlio'). La 'vocazione' si genera mentre ti domandi chi sei, da dove vieni, per cosa sei al mondo, e intuisci una presenza che silenziosamente ti strappa alla solitudine, mettendoti in una relazione. Un po' come dire: come faccio a capire di essere innamorato, e di desiderare che la mia vita oltrepassi il suo egoismo per aprirsi senza paura all'esperienza dell'essere due? Solo osando, conoscendo me e l'altro/a, andando oltre il bisogno e la necessità, rispondendo a una logica che logica non è: io sono per te, tu sei per me, io e te siamo più della nostra somma.
Molti dei nostri coetanei non vedono la Chiesa come un luogo felice; come le situazioni parrocchiali possono essere un luogo di crescita e di relazione profonda, che permetta di interrogarsi sulla propria vocazione?
La Chiesa è un concetto astratto, finché non diventa persone e consuetudine, finché non ci consente la scoperta che Gesù ha voluto dietro a sé non tante singolarità occupate ad autoperfezionarsi, ma persone che - proprio nell'esperienza di camminare insieme, di fare comunità (non club o condominio), di dialogare e cercare insieme strade vere per vivere il vangelo, cioè una vita buona - sperimentano un modo 'altro' di vivere l'essere uomini e donne. E forse un giovane non deve aspettare che si creino 'situazioni parrocchiali' propizie, ma deve generarle, osando la profezia di proposte che sveglino la sonnolenza delle abitudini (non sbagliate per forza, ma spesso inadeguate) là dove abita e vive quotidianamente. L'essenziale è che sia lo Spirito Santo a soffiare, a suggerire, e non semplicemente l'estro personale: la Chiesa non nasce dalle regole, e nemmeno dalle paturnie o dalle fantasie, ma è generata dall'obbedienza a quello che solo Dio è capace di ispirare.
Come può l'oratorio ritornare ad essere il luogo in cui i giovani cerchino la felicità?
Non so se l'oratorio è mai stato il luogo dove un giovane doveva cercare la felicità, a meno che non si intenda la felicità della spensieratezza dei bimbi e dei ragazzi che giocano, con un bar fornito di caramelle... Senz'altro l'oratorio ha bisogno di essere riformato, non tanto a partire da criteri esteriori (più persone, più eventi, più modernità, più sport, più salamelle e patatine...) quanto da un principio essenziale: è palestra che consente di allenarsi alle virtù - cioè alle abilità buone - che servono per vivere da adulti. Non è (sempre) così, perché manca il coraggio di proporre cose vere, di usare il tempo per dedicarsi alle questioni essenziali (la cultura, la politica, i poveri, il futuro del mondo) come faceva Gesù con i suoi amici. Detto così parrebbe un progetto 'pallosissimo': la realtà è che se ti dedichi a cose vere aumenta anche la gioia di percepire che la strada ti si apre davanti... Forse la forma dell'oratorio è inadeguata, perché oggi occorrono segni diversi e parole inedite, ma senz'altro non è inadeguata l'intuizione di dedicare tempo, creatività e pazienza a generare chi domani sarà adulto. Non con un progetto costruito 'sopra' ma 'da terra'.