di Enzo Bianchi
pubblicato su
"La Repubblica"
il 1 giugno 2017
I secoli di cristianesimo che ci stanno alle spalle testimoniano che quando la fede è pensata, ovvero quando tutti gli ambiti in cui essa si esprime non sono ignorati, trascurati o lasciati al caso, la fede giunge da sé a creare cultura. Sì, una fede vissuta con intelligenza crea cultura, che si esprime tanto nelle forme del pensiero quanto nell’espressione artistica, sia essa figurativa, musicale o architettonica. Ma in quale misura oggi la fede cristiana è capace di generare cultura, creando arte e bellezza in immagini, in suoni, ma anche in spazi e luoghi? Se la bellezza e l’arte hanno certamente un fine in se stesse, non si deve dimenticare che nel cristianesimo esse possiedono anche un significato e un valore testimoniale. Se Simone Weil è giunta ad affermare che il canto liturgico può testimoniare quanto la morte di un martire, noi possiamo aggiungere che anche un luogo di culto cristiano è autentica martyria, testimonianza della fede. La storia, anche quella contemporanea, attesta che molto spesso là dove dei cristiani subiscono il martirio, simultaneamente sono rasi al suolo i loro luoghi di culto, affermando così che la vita dei cristiani e i loro luoghi di assemblea formano un tutt’uno.
Il rinnovato interesse per il rapporto tra liturgia e architettura al quale da alcuni anni si assiste è certamente legato alla presa di coscienza, dopo decenni di oblio, di come lo spazio liturgico sia un luogo simbolico maggiore per la formazione dell’identità cristiana. La crescente scristianizzazione della società occidentale rappresenta una chance offerta ai cristiani per ripensare luoghi e tempi di iniziazione. Come tutte le iniziazioni, anche quella cristiana è efficace nella misura in cui è un processo globale che si rivolge non solo all’intelletto ma anche al cuore, alla memoria e al corpo. Ora, lo spazio liturgico, soprattutto nell’atto della celebrazione, è il luogo simbolico maggiore di formazione dell’identità cristiana, perché esso fa vedere il lessico e la grammatica della vita cristiana così come ce li ha trasmessi la grande tradizione. Lo spazio liturgico è parola “viva ed efficace” che opera e agisce su chi lo abita, su chi giorno dopo giorno lo frequenta, cooperando alla formazione dell’identità del cristiano, e dunque dell’identità della chiesa. L’edificio-chiesa di fatto edifica la chiesa. Come l’ecclesia mater, anche lo spazio di una chiesa è una vera e propria matrice spirituale nella quale donne e uomini cristiani sono generati alla fede.
Tale è il ruolo dello spazio liturgico nella formazione dell’identità del cristiano che, inevitabilmente, anche le brutture di uno spazio liturgico diventeranno prima o poi deformazioni e patologie della vita spirituale di chi lo frequenta. Sappiamo bene come certe chiese siano veri e propri ostacoli alla preghiera e all’esperienza di Dio. Questo dice l’estrema fragilità alla quale lo spazio liturgico cristiano è esposto. Per questo esso, come ogni altra realtà cristiana, ha costantemente bisogno di essere evangelizzato, ovvero verificato, rinnovato e corretto alla luce dello specifico cristiano. La fragilità dello spazio liturgico è stata ben colta da quanti nella storia della chiesa sono stati dei riformatori, capaci di creare nuove forme di vita spirituale. Basti pensare a san Bernardo e all’architettura liturgica che ha creato, espressione visiva del rinnovamento spirituale da lui intrapreso.
Probabilmente l’interesse attuale per l’architettura liturgica testimonia la necessità di un ripensamento dello spazio liturgico alla luce dei modelli di vita cristiana, di chiesa e di liturgia indicati dal Vaticano II. La ricerca sul significato antropologico, biblico, teologico e architettonico dello spazio liturgico è anch’essa espressione della comune volontà di riscoprire il valore e il significato originari dello spazio liturgico cristiano, uno spazio che fa la chiesa, attraverso una grammatica dell’abitare e del costruire, del trasformare e del celebrare. È dunque un’esigenza intrinseca al cristianesimo quella di avere un luogo dove l’assemblea santa è convocata in unum per celebrare il mistero della fede. Un luogo che non sia un semplice contenitore e neppure la somma di elementi e spazi funzionali, ma che sia parte sostanziale della celebrazione. Lo spazio liturgico cristiano è infatti anch’esso “liturgia”. Questa verità per noi irrinunciabile attesta che l’architettura liturgica non è tale se non è il frutto dell’incontro tra l’ars celebrandi e l’ars aedificandi.
Nel contempo, sappiamo bene che la più elementare manifestazione pubblica della chiesa sono quelle chiese che essa edifica al cuore delle città. Ma una chiesa la si edifica in una città affinché essa sia chiesa per quella città, perché la città è sempre destinataria della presenza della chiesa e mai un semplice mezzo e tanto meno uno mero strumento. Non c’è chiesa senza città perché la salvezza di Dio in Cristo è sempre propter nos homines, “per noi uomini”. Questa è la ragione per cui la chiesa di Dio non è mai stata e non potrà mai essere una realtà apolide. La città, infatti, è sorta per proteggere l’umanità stessa e favorire processi di umanizzazione: contro il pericolo di un nomadismo che desitua l’uomo e non gli permette di custodire la terra, e anche contro l’assolutezza del clan, che dà identità al singolo, ma lo imprigiona nello spazio della parentela e della somiglianza. La città è stata ed è il luogo per eccellenza della costruzione e della manifestazione dell’umano, il luogo più fecondo per l’espressione dell’ethos, proprio perché costruire una città significa fare un’opera architettonica etica, che riguarda cioè il rapporto degli esseri umani tra loro e con lo spazio.
In tale ottica, progettare ed edificare una chiesa non significa solo dotare la comunità cristiana di un luogo di culto, ma anche trasformare in realtà l’idea che ogni chiesa è metafora della presenza della chiesa di Dio nella polis, in quanto la chiesa si rende pubblica e si rappresenta nelle sue chiese che sono forma alta e altra di linguaggio. Disseminate nel tessuto urbano, le chiese sono l’immagine al tempo stesso della prossimità e dell’alterità di ciò di cui sono segno. Più sono luoghi di bellezza e più testimoniano un ethos che ispira e plasma relazioni belle e legami buoni, così che non solo per i cristiani ma per i credenti di ogni religione costruire i propri luoghi di culto significa partecipare alla costruzione etica di una città. Accanto ai luoghi e agli spazi pubblici e in mezzo alle case, le chiese rivelano lo stile della presenza dei cristiani nella società che è sempre al tempo stesso vicinanza nella differenza e presenza nella diaconia, nella logica della piena comunione e mai della separazione o, peggio ancora, della contrapposizione. La facciata di una chiesa è il volto della chiesa che nella prossimità a tutti dice accoglienza, condivisione e consolazione. Se sono questo, le chiese sono il sacramento della presenza di Dio in mezzo agli esseri umani. Una presenza nella fedeltà a Dio e nella compagnia degli uomini.