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giovedì 24 dicembre 2015

Jean Vanier: salviamo il presepe dalla laicità

Parla il fondatore dell'Arca
Jean Vanier: salviamo il presepe dalla laicità
di Daniele Zappalà
«Esprime una bellezza, una teologia, una storia che lasciano senza fiato. Occorre visitare questo presepio straordinario che mostra i popoli di ogni continente diretti verso il Bambino». Jean Vanier, fondatore dell’Arca, chiude gli occhi rimemorando una creazione umile e grandiosa: un presepio lungo quattro metri, con centinaia di pastori provenzali e napoletani, allestito ogni anno in casa Schléret, famiglia lorenese che l’ha dedicato a Marianne, la figlia con handicap mentale accolta adesso in una comunità dell’Arca. Informato dell’ipotesi di far calare il sipario sulla creazione, Vanier ha osservato: «Sarebbe un peccato. È l’opera di una vita». Così, il presepio resterà visitabile, dopo aver ricevuto una benedizione da monsignor Jean-Louis Papin, vescovo di Nancy. Tanti bagliori minimi d’umanità come questo costellano il percorso di Vanier, classe 1928, ex ufficiale canadese della Royal Navy, appena insignito in America del premio Templeton, nella scia di madre Teresa di Calcutta, di Desmond Tutu, del Dalai Lama o di Solženicyn. Lo incontriamo a Trosly, proprio dove nacque nel 1964 il movimento cristiano di comunione con le persone con handicap, presente oggi in trentacinque Paesi. E pensando alla Natività, in quest’angolo di Piccardia presso la «radura dell’armistizio » dove si mise fine alla Prima guerra mondiale, Vanier evoca presto la «festività autentica» dei canti natalizi: «Sono universali. Proprio durante la Grande Guerra, dei soldati nemici finirono per fraternizzare cantandoli, come ricorda il bel film Joyeux Noël. Una verità dimenticata dalla storia ».

Il suo ultimo libro uscito in Francia, Jésus vulnérable (Salvator), raccoglie meditazioni pronunciate qui a Trosly. In copertina, c’è Gesù durante la lavanda dei piedi. Quel gesto e questo luogo sono legati?
«Il mistero della lavanda è una meraviglia e sono felice che il Papa l’abbia tanto sottolineato. Durante la lavanda, si è presenti per dire all’altro che è importante. La maggioranza delle persone che vengono qui sono state umiliate, considerate come “deficienti”. Ciò che conta è essere al loro servizio per rivelare loro che hanno un valore. Ascoltare le loro storie senza pretendere di trasformare nessuno dall’alto. Si tratta di restare assieme, in basso, per dire: sei importante, sei un figlio di Dio, potremo forse scoprire assieme la santità».

Un famoso scrittore che non si dice più credente, Emmanuel Carrère, confessa, al termine del suo recente romanzo autobiografico Il Regno, di aver «intravisto» qui, a Trosly, «cosa può essere il Regno » cristiano. L’ha colpita?
«L’ho trovato abbastanza toccante. Non me l’aspettavo. Durante il suo passaggio, non sapevo che fosse qualcuno d’importante. È stato colpito dalla Chiesa che lava i piedi, dai gesti d’umiltà. In questo scrittore, c’è una tensione fra il farsi conoscere come grande autore e, allo stesso tempo, servire la verità».

L’Arca ha avuto tanti di questi amici quasi involontari?
«Sì. Penso a un alto funzionario, Jean-Baptiste de Foucauld, già commissario generale alla pianificazione economica, che ha scritto: “L’Arca incanta il mondo”. Era affascinato dall’esercizio dell’autorità attraverso l’amicizia, l’incontro, la gioia, il vivere, lavorare, piangere assieme. Non dall’alto in basso. Uno scoprire assieme che siamo tutti poveri. Nati in povertà e fragilità, moriremo in povertà e fragilità. Lo restiamo per tutta la vita. È la nostra storia. L’essere umano è necessariamente vulnerabile».

Lei ha scritto un libro con Julia Kristeva, altra celebrità intellettuale che si dichiara non credente. Può parlarcene?
«Un giorno è venuta qui per dirmi: “Vorrei scrivere un libro con te”. Le ho suggerito che poteva essere uno scambio di lettere. È curioso constatare, leggendo il libro, che abbiamo trovato una forma d’incontro, un dialogo. La difficoltà di un incontro fra due persone sta nella comunione. Nel riuscire ad essere toccato dall’intimità dell’altro. Non sempre identità e comunione riescono a convivere. Ho l’impressione che in lei si agiti sempre l’interrogativo del figlio, della vera identità profonda di questo fragile figlio».

Un figlio portatore di handicap che ha scoperto l’Arca. A Natale, Trosly si riempie di presepi. L’arca e la mangiatoia sembrano ancor più parenti…
«Nella storia di Noè, c’è un’alleanza che riguarda tutti gli uomini. E Gesù è venuto per annunziare la Buona Novella a tutti. Sono affascinato dal mistero dell’amore di Dio per ciascuno di noi, indipendentemente dalle singole capacità e fragilità. Nel presepio, appare questo mistero dell’incontro con Dio attraverso il corpo. Qui, comprendiamo ogni giorno che l’amore si rivela con il contatto. Occorre fare il bagno, lavare i piedi, saper accogliere abbracci spontanei carichi di gioia».

Nella Francia che l’ha accolta, il presepio suscita nuove polemiche politiche…
«Polemiche dolorose. Questa forma di laicità non è sempre molto intelligente. È un peccato. Oggi, c’è forse una persecuzione verso i cristiani. Verso un simbolo musulmano, ci sarebbe stata forse meno severità. La storia della laïcité è vista come una liberazione dal potere ecclesiale. Come se la Chiesa soffocasse l’umano. Eppure, la Croce e il presepio sono segni di debolezza. Come cristiani, non siamo forti in senso terreno, ma crediamo nell’umano e che ogni essere è importante. Il senso di una lotta perenne di potere resta una minaccia per tutti. Sono felice che il Papa presenti le cose in modo del tutto diverso».

Si riferisce anche all’Anno della misericordia?
«Sì. È straordinario che il Papa sia andato in Africa ad aprire la Porta Santa. Ci sta dicendo che la Chiesa vuol essere una porta fragile capace di farci ritrovare il senso profondo della nostra fragilità. Quella su cui si basa il cristianesimo. Nella debo-lezza, il cristiano è chiamato a rivelare altro, la presenza di Dio. Come cristiani, sappiamo che il mondo non crede sempre in Dio. Ma pure che nel cuore vulnerabile di ognuno, c’è sempre una ricerca d’infinito».
(fonte: Avvenire)