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venerdì 6 gennaio 2017

Mohammed come Aylan: un'altra foto che spezza il cuore, ma anche questa purtroppo presto sarà scordata...



Immagini senza speranza che inchiodano le coscienze

Orrore nel Golfo del Bengala come nel Mediterraneo. Il piccolo Mohammed Shohayet, 16 mesi, è morto affogato attraversando il fiume Naf mentre tentava di fuggire da Myanmar verso il Bangladesh. Con lui sono affogati la madre e il fratello di tre anni. L’immagine del bimbo birmano esanime con il volto conficcato nella sabbia grigia ripropone l’orrore per la morte di Aylan Kurdi, il bimbo curdo di tre anni travolto dalle acque del Mediterraneo nel settembre 2015 mentre fuggiva dalla Siria in guerra, ritrovato su una spiaggia turca nei pressi di Bodrum. Le sagome senza vita di Mohammed e Aylan ci appartengono perché descrivono tragedie umane che accompagnano il fenomeno delle migrazioni che investe in maniera crescente l’intero pianeta. La scelta di pubblicare allora la foto di Aylan e oggi quella di Mohammed nasce dalla perdurante necessità di confrontarsi senza paludamenti con disastri umanitari fatti di singole vite spezzate: ognuna delle quali conta, doveva essere vissuta e merita di essere raccontata. 

Perché il rispetto per la vita si fonda sulla granitica convinzione che ogni essere umano sia uguale e al tempo stesso differente, titolare degli stessi diritti naturali e inalienabili. 

Lo sdegno pubblico che accompagnò la diffusione delle immagini di Aylan Kurdi si è consumato nello spazio di un mattino, lasciando campo libero su entrambe le sponde del Mediterraneo alla ferocia dei trafficanti di uomini come al cinismo di chi preferisce voltarsi dall’altra parte, con le motivazioni più disparate. 

Ma la dinamica dell’orrore è spietata: più tentiamo di negarlo, ignorarlo ed allontanarlo da noi più ci insegue nelle nostre case, bracca le nostre coscienze. 

La verità che ci aggredisce con la foto di Mohammed oggi come di Aylan ieri è che l’ecatombe di esseri umani di origini e fedi differenti si rinnova nelle nostre acque, nei fiumi e mari attraversati da altri migranti in più continenti. Come il popolo Rohingya protagonista da ottobre di una fuga di massa dalla violenta repressione armata del governo di Htin Kyaw, del quale fa parte anche il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. 

I migranti non sono un fenomeno astratto da cui difendersi come se fosse una sorta di fastidioso diluvio: è un dramma planetario composto da milioni di singoli individui aggrediti da violenza e povertà fino al punto di dover affidare ai più pericolosi spostamenti la propria sopravvivenza. 

Conosciamo Mohammed e Aylan perché abbiamo visto le loro immagini e dobbiamo essere consapevoli di non poter ignorare che altri come loro, nei luoghi più distanti e diversi, muoiono nella stessa orrenda maniera. 

Ciò significa che non potremo dire di non aver saputo quando i sopravvissuti ci chiederanno dove eravamo, cosa facevamo e perché non fu possibile rompere il muro dell’indifferenza su una strage di essersi umani destinata a diventare una macchia terribile sulla coscienza collettiva
(fonte: articolo di Maurizio Molinari La Stampa del 5/01/2017)


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«Ecco l’Alan Kurdi Rohingya: ora il mondo prenderà atto?». È l’interrogativo che ieri ha lanciato la rete televisiva statunitense Cnn accanto alla foto di Mohammed Shohayet, un rifugiato Rohingya di 16 mesi fuggito dalle violenze nello Stato birmano di Rakhine verso il Bangladesh solo per annegare durante il viaggio insieme alla madre, lo zio e al fratello di tre anni. La sua foto era circolata su vari siti bengalesi già all’inizio dello scorso dicembre, ma è diventata virale solo ieri dopo che la giornalista della Rebecca Wright ha incontrato il padre del piccolo Mohammed in un campo bengalese e raccontato la sua storia. L’uomo, Zafor Alam, aveva traversato il fiume Naf che separa la Birmania dal Banghadesh da solo, la famiglia avrebbe dovuto raggiungerlo a inizio dicembre ma la loro nave era affondata. «Mi hanno detto di aver ritrovato il corpo di mio figlio e mandato la sua foto tramite cellulare. Ogni volta che la vedo mi sento morire». (fonte: La Repubblica)

Stando alle accuse, che hanno trovato fondamento anche nei documenti raccolti e pubblicati da Amnesty International, le forze birmane hanno vessato la popolazione rohingya con omicidi, torture e stupri, costringendola alla fuga. Da ottobre sarebbero oltre 30mila le persone fuggite dai propri villaggi in cerca di salvezza. Tra queste c’era anche la famiglia del piccolo Mohammed: il bimbo era insieme alla madre e al fratello quando la barca che avrebbe dovuto portarli in Bangladesh è affondata nel fiume Naf. Il suo corpicino è stato poi trovato nel fango a faccia giù in una posizione che ricorda in maniera assolutamente tragica quella di Aylan Kurdi, il giovanissimo rifugiato annegato al largo della costa della Turchia mentre cercava di fuggire in Siria.

E ora il padre di Mohammed, Zafor Alam, sta supplicando il mondo affinché prende atto della situazione dei rohingya. “Nel nostro villaggio, i soldati ci sparano addosso. I miei nonni sono stati bruciati vivi. Tutto è stato bruciato dai militari. Non è rimasto niente”, è la sconvolgente testimonianza dell’uomo alla CNN. “Ora che ho perso anche Mohammed mi sento come se volessi morire. Non vi è nessuna ragione per la quale io debba continuare a vivere. Ma voglio solo che il mondo veda e capisca cosa stiamo passando. Il governo del Myanmar non sta facendo nulla. Oggi giorno che passa, significa altri rohingya uccisi” dice con amarezza Zafor.
(fonte:fanpage.it)


Il corpo di un bambino di pochi mesi annegato quando la sua famiglia cercava la salvezza fuggendo dall’oppressione e dalla repressione. Lo avevamo già visto. Allora, nel settembre 2015, si chiamava Alan Kurdi, oggi Mohammed Shohayet. Come allora, il mondo presta attenzione, si commuove. Sinceramente, di certo, ma è anche legittimo chiedersi come mai questi due piccoli siano riusciti a rompere quel muro di sostanziale indifferenza che caratterizza questo nostro tempo — il tempo di una protratta, atroce strage di innocenti dalla Siria allo Yemen.

Si ripropone qui per chi fa un giornale un problema di etica professionale, nel senso che non è facile giustificare quella che può sembrare la concessione a una commozione che sappiamo troppo episodica e troppo poco coerente rispetto a una sistematica sordità morale fatta di ignoranza ed egoismo. È giusto resistere alle tentazioni del conformismo patetico, ma è anche vero che la solidarietà umana può scattare solo se l'astratto si trasforma in concreto, solo se i bambini morti, i tanti bambini morti per noi senza volto e senza nome, diventano Alan e Mohammed.

La commozione però dovrebbe diventare la premessa di una presa di coscienza sia morale che politica. Certo, la responsabilità è direttamente proporzionale al potere di cui si dispone per incidere sulla realtà, e oggi più che mai la sensazione degli individui — in questo mondo sempre più ingovernabile — è quella dell'impossibilità di contare e di agire. Ma siamo davvero così irrimediabilmente impotenti? Quanto meno in quella ristretta parte del mondo in cui esiste ancora la figura del cittadino ed è possibile pronunciarsi sulle scelte politiche, solidarietà o chiusura sono due strade ugualmente praticabili, costituiscono anzi una componente sempre più importante del dibattito politico.

Lo spostamento attraverso le frontiere di grandi masse umane, sia rifugiati che migranti, ci chiama in causa soprattutto alla luce della drammatica contraddizione che sta alla radice del presente disordine mondiale: quella fra la realtà globale dei grandi fenomeni — dalla sicurezza all'ambiente, dalla finanza alle pandemie — e il persistere di una struttura non solo politica, ma anche etico-culturale, che ancora riconosce solo istituzioni e appartenenze identitarie di tipo parziale, nazionale quando non tribale. Quei bambini a faccia in giù su una spiaggia o sulla riva di un fiume (o quelli dilaniati dai bombardamenti in Siria o in Yemen) sono nostri, ci appartengono, così come appartengono a tutti gli italiani le vittime del terremoto in Umbria.

Ma la presa di coscienza di tipo morale non può avvenire senza la conoscenza. Qui la responsabilità di chi fa informazione è primaria e indiscutibile. Così come si è cercato di spiegare perché Alan è annegato vicino alla costa turca oggi è doveroso raccontare le vicende che hanno portato Mohammed a morire in un fiume che divide la Birmania dal Bangladesh. Posti lontani, ma dove le tragedie umane non sono poi così diverse da quelle che vediamo sulle coste del Mediterraneo.

Sono tragedie che sempre rientrano nella categoria della violazione di diritti umani, in particolare nella negazione dei diritti delle minoranze. In Myanmar, un paese a maggioranza buddista che un tempo si chiamava Birmania, vivono oltre un milione di musulmani, i Rohingya. Ci vivono da lungo tempo, ma non vengono riconosciuti come cittadini e li si considera immigrati privi di diritti. Vengono discriminati e sono oggetto di una repressione dura e indiscriminata. 
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