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martedì 9 dicembre 2025

DA CUORE A CUORE: IL PRESBITERO TRA FRAGILITÀ E SLANCI - Meditazione di don Mimmo Battaglia Arcivescovo di Napoli

DA CUORE A CUORE: 
IL PRESBITERO TRA FRAGILITÀ E SLANCI 
Meditazione di don Mimmo Battaglia,
Cardinale - Arcivescovo di Napoli


Venerdì 28 novembre 2025, a Pompei, i presbiteri delle diocesi della Campania si sono ritrovati per l’incontro regionale «Da cuore a cuore: il presbitero tra fragilità e slanci», promosso dalla Conferenza Episcopale Campana e pensato come primo appuntamento di un cammino annuale di fraternità e formazione.

Al centro della mattinata è stata la meditazione di S.Em. il Cardinale Domenico Battaglia, Arcivescovo di Napoli, che ha scelto di parlare al “cuore credente” dei presbiteri, partendo dalle parole del Vangelo di Giovanni: «Li amò sino alla fine». Il cuore trafitto di Cristo, ha ricordato, è la sorgente di ogni vocazione: non chiede preti perfetti o invulnerabili, ma «cuori aperti» che si lasciano raggiungere dalla sua misericordia.



        Carissimi Presbiteri, 
con gioia profonda sono qui, insieme a voi e ai nostri fratelli vescovi — che saluto con affetto — e al caro amico Erri. Oggi il mio desiderio è parlare al vostro cuore, non al cuore stanco e ferito, né a quello che si agita nel timore, ma a quel cuore ardente che ancora crede e cerca, quel cuore che, nonostante le tempeste, continua a danzare con la vita. È proprio lì, in quel pulsare tenace, che si nasconde il mistero sublime della nostra vocazione, il segreto sacro che ci sostiene quando tutto intorno pare svanire. È in quel battito, forte e vero, che Dio si fa vicino, perché l’amore primo e eterno, colui che ci chiama e ci sostiene, è sempre Lui! 

Dilexit eos usque ad finem (Gv 13,1): «Li amò sino alla fine». Non solo li amò, ma li amò fino a consumarsi. Fino a lasciare che il proprio cuore si aprisse, diventando sorgente di misericordia. Questo è il punto di partenza di ogni servizio, di ogni vocazione: un cuore aperto. Non un cuore perfetto, non un cuore forte, ma un cuore disponibile a lasciarsi attraversare. Papa Francesco, nella sua lettera Dilexit nos (29 giugno 2024), ci ha ricordato che l’amore di Cristo non si stanca, non si arrende, non pretende nulla in cambio: ci raggiunge e ci abbraccia persino nelle nostre fragilità. È un amore che non si misura, ma si dona. Non si ferma di fronte al peccato, ma lo trasforma in spazio di grazia. E noi, fratelli, siamo chiamati a questo: a non avere paura delle nostre fragilità, ma a farne il luogo dell’incontro con Dio. Perché la fragilità non è il contrario della fede: è invece il terreno in cui la fede fiorisce. Ognuno di noi conosce, come tutti gli uomini e le donne, la fatica di vivere. Le nostre giornate scorrono tra mille impegni, voci, attese, volti. E spesso, quando la sera chiudiamo la porta della canonica, ci resta addosso il silenzio di chi non sa più a chi raccontarsi. Quella solitudine che pesa e che, se non è abbracciata, rischia di diventare amara. Eppure proprio lì, nel vuoto che fa male, Dio ci attende. Non per rimproverarci, ma per ricordarci che la nostra vita è stata scelta, amata, custodita.

      Fratelli, noi non siamo chiamati a essere eroi, ma a essere segni. Segni di un Dio che non si vergogna di noi. Segni di un amore che non chiede di essere capito, ma accolto. Segni di un Cuore che continua a battere nel silenzio delle nostre vite. 

     Ecco, se c’è una cosa che il mondo oggi chiede ai preti è proprio questa: autenticità. Mani che tremano, cuori che si lasciano toccare, parole che nascono dal dolore e dalla speranza. Non si tratta di apparire forti, ma di restare veri. Di imparare a dire: “Ho bisogno anch’io.” Di saperci inginocchiare non solo davanti al tabernacolo, ma davanti alla nostra umanità, riconciliandoci con essa. Perché Dio non si scandalizza delle nostre stanchezze. Le prende sulle sue spalle e le trasforma in luogo di incontro. Perché tutto può diventare spazio di Dio, se lo lasciamo entrare. Per questo dobbiamo sempre ricordare che non siamo chiamati ad essere impeccabili, ma trasparenti. Non siamo votati al successo, ma alla fedeltà. Non siamo destinati al potere, ma al servizio umile e disinteressato. Il mondo non ha bisogno di preti che parlano dall’alto, ma di fratelli che camminano accanto, con la stessa polvere sulle scarpe, lo stesso dolore nel cuore e lo stesso sogno che risplende sul volto. Di uomini che insegnano con la parola e con la vita che ogni ferita può diventare un ponte. Ogni caduta, una nuova possibilità di comunione. Ogni fragilità, una porta spalancata sulla misericordia. Siamo stati amati per amare, e amati nella fragilità per poter accogliere la fragilità degli altri. Alda Merini scriveva: «Sono nata fragile, ma la mia fragilità mi ha insegnato a reggere il mondo» (Vuoto d’amore, Einaudi, 1991, p. 14). 

         Amici miei, vorrei che quest’oggi ci lasciassimo condurre dentro una delle pagine più luminose e disarmanti del Vangelo: la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37). La conosciamo bene, l’abbiamo meditata tante volte, ma forse non abbiamo ancora lasciato che essa ci leggesse nel profondo. Perché ogni volta che ci mettiamo davanti a questo racconto, il rischio è quello di identificarci subito con il Samaritano: quello che scende da cavallo, che si china, che versa olio e vino, che cura e accompagna. È bello pensarsi così: uomini del servizio, ministri della misericordia. Ma forse, fratelli, la parabola ci chiede un passo ulteriore, o meglio, un capovolgimento. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30): è l’inizio. Un uomo qualsiasi, senza nome, scende dalla città santa alla valle più bassa del deserto. È un cammino reale, ma anche simbolico: la discesa da Gerusalemme a Gerico è la discesa del cuore nella propria umanità, là dove la vita si mostra senza difese. E su quella strada l’uomo viene aggredito, spogliato, lasciato mezzo morto. Fratelli, quell’uomo siamo noi. Noi, preti che scendiamo ogni giorno per incontrare la vita della gente, e che spesso torniamo feriti, stanchi, spogliati. A volte dai giudizi, a volte dalle nostre stesse incoerenze, a volte dal senso di impotenza che ci abita. Quell’uomo è il volto del ministero quando si fa fragile, quando non riesce più a reggere la distanza tra il Vangelo annunciato e la vita vissuta. Il sacerdote e il levita che passano oltre non sono semplicemente esempi negativi; sono lo specchio delle nostre difese. Quante volte, per paura di guardare in faccia la ferita, passiamo oltre? Quante volte, davanti al dolore, cerchiamo di essere efficienti invece che presenti? Quante volte ci nascondiamo dietro il dovere pastorale per non sentire la nostra stanchezza più profonda? Ma ecco, nella polvere di quella strada, «un Samaritano che era in viaggio, vedendolo, ebbe compassione» (Lc 10,33). È la frase centrale. Il verbo greco usato da Luca in greco significa “essere toccato nelle viscere”. È il verbo stesso della compassione di Dio, lo stesso usato per Gesù davanti al dolore dell’uomo (cfr. Lc 7,13; 15,20). Il Samaritano, figura dello straniero, del non appartenente, diventa immagine del Cristo che si fa vicino a ogni creatura ferita.

Cristo è il Samaritano che si china su di noi. È Lui che versa olio e vino sulle nostre piaghe: l’olio della consolazione, il vino dell’alleanza. È Lui che ci solleva e ci conduce alla “locanda” — che i Padri della Chiesa, da Origene ad Agostino, hanno sempre letto come simbolo della Chiesa, il luogo della cura, del tempo e della misericordia: «La locanda è la Chiesa — scrive Agostino — dove Cristo fa condurre i feriti perché siano guariti, e affida il loro custode al locandiere, cioè al pastore» (Sermone 171, 2, PL 38, 933). Sì, fratelli, prima di essere pastori, noi siamo uomini feriti condotti alla locanda. Siamo quelli che Cristo ha raccolto sulla strada, medicato e affidato. E questo non è un’umiliazione: è la verità del ministero. Essere preti non significa non avere ferite, ma imparare a lasciarsi curare. Significa saper dire con umiltà: «Anch’io ho bisogno di essere preso in braccio». Perché solo chi si lascia salvare può diventare segno di salvezza. Solo chi si lascia curare può curare gli altri! Solo chi è fedele alla propria fragilità può essere fedele alla fragilità degli altri, accogliendola senza banalizzare, senza giudicare! Amici cari, In questo tempo, prendersi cura della propria fragilità, “maneggiarla con cura” – come è scritto sui pacchi che contengono cose fragili e preziose - richiede tre fedeltà semplici e essenziali: la fedeltà al corpo, la fedeltà alla fraternità e la fedeltà alla realtà. Tre fedeltà radicate nell’unica fedeltà al Signore!

Fedeltà al corpo. Fratelli miei, non si può servire Dio disprezzando la propria carne. Troppi di noi portano una stanchezza che non nasce solo dal lavoro… ma dall’incuria. Dal non dormire per troppi pensieri. Dal non mangiare per troppa fretta. Dal non concedersi mai un tempo umano… perché imprigionati nel “fare”. Ma il corpo, fratelli, non è un ostacolo. È il primo altare che ci è stato consegnato! Dio abita nei battiti, nei respiri, nei limiti. Non ci ha scelti come angeli, ma come uomini: fatti di polvere e di luce, di stanchezza e di desiderio. 

E il corpo parla anche quando si affaccia la demotivazione, quella stanchezza più profonda che non viene dalle ore di attività, ma dal senso di inutilità che a volte ci raggiunge come un’ombra. La riconoscete: è quel fiato corto dell’anima in cui tutto sembra pesante, e persino il bene diventa un dovere privo di colore. Il corpo la registra prima della mente: ci si sveglia più lenti, si perde slancio, si attenua il gusto delle cose. E spesso questo accade perché viviamo in un mondo che sembra correre senza di noi, un mondo che non ci domanda nulla e ci fa credere di non servire più a niente… come se non avesse bisogno delle nostre mani, delle nostre parole, della nostra presenza. Ma non è così: questo mondo, proprio mentre appare autosufficiente, porta dentro una sete immensa di senso, di giustizia, di tenerezza… una sete di Dio. E quando noi ci sentiamo demotivati, è spesso perché abbiamo smesso di percepire questa sete, o perché nessuno ci ha più ricordato che siamo necessari non per ciò che facciamo, ma per ciò che siamo. Il corpo ci ricorda che non siamo padroni di nulla, neppure di noi stessi. E che anche il servizio a Dio e ai fratelli ha bisogno di misura, di respiro, di umanità. Non si può annunciare il Dio della vita trascurando la propria! La fragilità del corpo è maestra di umiltà: ci insegna che non siamo dèi, ma uomini visitati dalla grazia. Per questo vi ricordo che riposare non è peccato: è atto di fede. È dire a Dio: “Tu puoi portare avanti il mondo anche senza di me.” Mangiare con calma. Camminare. Respirare. Guardare un tramonto. Sono gesti teologici! Ci riconsegnano alla verità del limite, ci liberano dall’ansia di dover sempre fare di più. Il corpo, quando è ascoltato, diventa profeta: ci avverte quando stiamo perdendo la rotta. Perché il corpo, fratelli miei, è il primo strumento dell’amore!

Fedeltà alla fraternità. Nessuno regge da solo il peso della vita. Fin dagli albori il Signore ci ha sempre ripetuto che è bene che l’uomo non sia solo. E questo non vale solo per l’amore coniugale ma anche per l’amicizia, la compagnia, e la fraternità: tutte cose indispensabili. Anche per il nostro ministero. L’individualismo clericale è la malattia più sottile del nostro tempo: ti isola, ti fa credere che la solitudine sia segno di forza, ti convince che chiedere aiuto sia una debolezza.

Ma il Vangelo ci mostra un’altra logica: Gesù manda i discepoli a due a due (Mc 6,7), perché sa che la fede non resiste da sola. Non basta celebrare insieme: bisogna camminare insieme. La fraternità è la casa dove si impara la tenerezza, dove il confronto non umilia ma genera, dove la differenza non divide ma completa. Un confratello che sa restare, che ascolta senza correggere, che non pretende di aggiustare ma di accompagnare, è un dono raro e prezioso. È come un balsamo: non guarisce tutto, ma allevia e sostiene. E noi, fratelli, abbiamo un disperato bisogno di balsami più che di ricette. Abbiamo bisogno di uno sguardo che ci dica: “Non sei solo.” Perché l’isolamento, quando si allunga, diventa deserto interiore, e nel deserto il cuore si inaridisce. 

Coltivare la fraternità significa scegliere di non giudicare, di non competere, di non confrontare i frutti. Significa imparare a vedere il bene dell’altro senza sentirlo come una minaccia. Significa custodire la  speranza del fratello come fosse la propria. La fraternità non è solo convivere, è con-credere: credere insieme, anche quando uno dei due non ce la fa. È reggere il peso della fede a turno. Oggi tocca a me sorreggerti, domani toccherà a te. Così si salva la vocazione: non da soli, ma a due a due, come i discepoli di Emmaus che si tengono compagnia nella notte. E ricordiamolo: l’amicizia tra preti non è tempo perso, è tempo di grazia. È ciò che preserva dal cinismo, che riaccende la fiducia, che ci riporta al cuore della chiamata. Nessuno diventa santo da solo, perché la santità è comunione. Chi vive relazioni autentiche è più resiliente, più capace di accogliere le proprie fragilità senza vergogna. La fraternità è un luogo privilegiato della grazia. Non sostituisce la preghiera, la rende incarnata. E allora, fratelli, impariamo a “perdere tempo” insieme. A cenare senza fretta, a passeggiare, a raccontarci la vita. Il tempo condiviso non è sottratto al Vangelo: è Vangelo vissuto. La Chiesa respira solo se i suoi preti respirano insieme. 

Fedeltà alla realtà. Fratelli miei, questa fedeltà è preziosa perché la tentazione più sottile, quando ci si sente fragili, è fuggire. Rifugiarsi in mondi spiritualistici, nelle devozioni come anestesia, nei ruoli come difesa. Ma il prete non è chiamato a scappare: è chiamato a restare nella realtà, anche quando punge, anche quando smentisce le nostre attese. Il Vangelo non è un’evasione: è un’immersione. Dio non si manifesta nei cieli limpidi, ma nella polvere delle strade. Gesù non ha predicato da lontano, ha toccato, ha ascoltato, ha pianto. La fedeltà alla realtà è una forma alta di amore. È scegliere di non girarsi dall’altra parte, di non rimuovere il dolore della gente, di non spiritualizzare ciò che chiede carne e presenza. 

Non c’è Vangelo senza incarnazione: ogni volta che evitiamo la realtà, evitiamo Cristo. Ogni volta che ci lasciamo ferire dal mondo senza disperarci, portiamo Dio dentro la storia. A volte ci rifugiamo nel pensiero per non sentire, nelle parole per non toccare, nella teologia per non piangere. Ma il ministero non può diventare difesa contro la vita. La realtà, con le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio ci parla con verità. Lì ci insegna la compassione, lì ci plasma, lì ci converte. La vera preghiera nasce sempre dal contatto con la terra: non si può amare in astratto. Si ama con mani sporche, con scarpe impolverate, con cuore vivo. Restare fedeli alla realtà significa non perdere contatto con la vita della gente. Significa ascoltare le loro parole, visitare le loro case, respirare il loro mondo. È lì che si gioca la credibilità della Chiesa. Non nelle dichiarazioni, ma nei gesti concreti: un prete che resta, che accompagna, che non fugge davanti al dolore, annuncia il Dio che resta. È la forma più alta di teologia: la teologia dei piedi che camminano, delle mani che curano, degli occhi che vedono. E c’è anche una realtà più piccola, più silenziosa, quella di sé stessi.

Essere fedeli alla realtà significa anche guardarsi dentro senza paura, non negare la propria stanchezza, non coprire i vuoti con l’attivismo. Chi non accoglie la propria realtà interiore finirà per vivere di apparenze. Ma Dio non benedice le apparenze, benedice la verità. E la verità, anche quando è dura, è sempre salvifica. 

      Fratelli miei, prendiamo sul serio queste forme di fedeltà. Non lasciate che il vento delle cose di ogni giorno porti via la fedeltà al corpo, alla fraternità, alla realtà. Custoditele. Con l’aiuto del Signore Gesù, vostro amico, compagno, fratello. E permettetemi, nel concludere, di offrirvi una sorta di decalogo della cura. Perché la cura è la compagna insostituibile della fedeltà: ne è il respiro concreto, il modo in cui ciò che crediamo si traduce in gesti, tempi, attenzioni. Dopo aver guardato in profondità 
dentro la nostra carne, dentro i legami e dentro la realtà che ci abita, la cura diventa il passo quotidiano che tiene insieme tutto: è la forma incarnata della fedeltà. 

Prendetele come parole semplici, consigli fraterni che nascono dal desiderio di restituire alla nostra vita un ritmo più umano, più evangelico, più vero. Capace di prendersi cura della fragilità e di restituirla come benedizione a coloro che ci sono affidati: 

1. Coltivare la semplicità. La semplicità non è povertà di pensiero, ma purezza di cuore. È la libertà di chi non deve dimostrare nulla, di chi non ha più paura di essere sé stesso. Viviamo tra parole complesse e cuori confusi, ma Dio continua a scegliere la via dell’essenziale. Restare semplici significa lasciare che la luce passi attraverso la trasparenza della vita. Il semplice non è ingenuo: è chi ha attraversato il buio e ha scelto la chiarezza. Siate preti semplici, fratelli: capaci di stupore e di pane condiviso. 

2. Imparare a chiedere aiuto. Chiedere aiuto è un atto di coraggio, non di debolezza. È imparare a dire: “Non ce la faccio da solo, ma credo che l’amore dell’altro possa sostenermi.” Siamo abituati a essere pastori, a sostenere, ad ascoltare; ma spesso dimentichiamo che anche noi abbiamo bisogno di essere accompagnati. Nessuno può reggere a lungo senza una spalla su cui appoggiarsi, senza una voce che accolga, senza uno sguardo che contenga. Chiedere aiuto a un confratello, al vescovo, a una persona esperta nello spirito, a un padre che conosce le vie del cuore — non è segno di fragilità, ma di fiducia. È riconoscere che lo Spirito parla anche attraverso l’altro, che la grazia ha voce plurale. Osate la richiesta, fratelli. Non aspettate che il peso diventi troppo grande. Nessuna solitudine è evangelica, nessuna stanchezza va nascosta. La Chiesa non è fatta di eroi, ma di fratelli che si sostengono a vicenda. Un prete che sa chiedere aiuto diventa un testimone credibile dell’umiltà, un maestro di umanità. Perché solo chi accetta di essere custodito può davvero custodire.

3. Coltivare la gratitudine. Anche un solo “grazie” al giorno può cambiare la direzione del cuore. La gratitudine è la lingua dei figli, non dei padroni. È la preghiera silenziosa di chi riconosce che tutto è dono, anche ciò che non ha scelto. Ringraziare non cancella la fatica, ma le restituisce un senso; non nega il dolore, ma lo trasfigura. Il Vangelo ci insegna che la gratitudine è il primo segno della fede autentica: solo uno dei dieci lebbrosi torna indietro a ringraziare, e Gesù gli dice: «La tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Dire “grazie” ci libera dal mormorio, dalla pretesa, dall’amarezza che chiude il cuore. È il modo più semplice e più vero per riconoscere la presenza di Dio nella nostra storia. La gratitudine ci riporta alla sorgente, ci fa tornare bambini tra le mani del Padre, ci ricorda che non siamo autori della grazia, ma destinatari: «In ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.» (1Ts 5,18). 

4. Custodire l’amicizia. L’amicizia vera è una relazione che non chiede spiegazioni, ma accoglie; è quella presenza discreta che ti ricorda chi sei quando non lo ricordi più. È una comunione che non giudica ma sostiene, che ti salva dall’illusione di bastarti. Gesù stesso ha voluto vivere l’amicizia: ha chiamato i suoi discepoli non servi, ma amici. «Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Abbiate accanto qualcuno che vi ami più per la vostra verità che per la vostra efficienza. Non cercate amicizie perfette, ma vere: amicizie che resistano al tempo, alla distanza, alle stagioni del cuore. Un amico nello Spirito è come un pozzo nel deserto: non lo incontri ogni giorno, ma quando ci arrivi ritrovi la freschezza della vita. 

5. Pregare senza stancarsi. La preghiera non è un compito da assolvere, ma un respiro in cui dimorare. È il luogo in cui la vita si lascia raggiungere da Dio e torna a pulsare secondo il suo ritmo. Non servono parole perfette, ma parole vere; non formule, ma disponibilità del cuore. Pregate come chi si confida,
come chi torna a casa dopo un lungo cammino. Pregate parlando al Signore come un amico parla all’amico, perché «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,8). E quando le parole finiscono, lasciate che il silenzio prenda voce: anche il silenzio può essere preghiera, se è abitato dall’attesa e dall’amore. «Lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Non pregate per “fare qualcosa”, ma per “lasciarvi fare”: perché la preghiera non cambia Dio, cambia noi, e ci restituisce la verità di essere figli amati. 

6. Non forzare i tempi. Non tutto deve accadere subito. La grazia ha il passo del lievito e il tempo del seme. Nella lentezza si custodisce la profondità, si impara la fedeltà, si purifica l’intenzione. La fretta è la tentazione di chi non si fida del tempo di Dio. Coltivate la pazienza del tempo e dei processi come una insostituibile pedagogia del cuore. «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme sul terreno: dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.» (Mc 4,26- 27).

7. Custodire il sorriso. Provate ad immaginare il sorriso del nostro compagno e Signore Gesù: quando benediceva i bambini, quando condivideva il pane con gli amici, quando guardava il giovane ricco. Il sorriso di Dio è il primo perdono che raggiunge il cuore. Il sorriso è un atto di fede nella bontà di Dio. E può aiutarci a vivere quell’ironia che blocca tutti i deliri di onnipotenza: ridere di sé non è mancanza di serietà, ma riconoscimento che la nostra vita è custodita da una misericordia più grande di ogni errore. Chi sa sorridere delle proprie fragilità testimonia che la grazia non umilia, ma rialza; non giudica, ma abbraccia. Forse il mondo ha bisogno di preti che sorridano con Dio, non di uomini che si giudichino senza misericordia. Perché il Vangelo non è una cronaca di dolori, ma una storia di gioia e come afferma la Scrittura «Un cuore allegro è una buona medicina, uno spirito abbattuto inaridisce le ossa» (Pr 17,22).

8. Imparare a riposare. Solo chi sa riposare sa anche ripartire. Il ritmo dell’anima non è quello frenetico del mondo, e chi vive di frenesia continua finisce per perdere la direzione del cuore. Fermarsi non è un lusso, ma un atto di fiducia: è dire “non tutto dipende da me”, e lasciare che Dio torni a essere il Signore del tempo. Nel silenzio, quando smettiamo di correre, si risente il battito di Dio dentro di noi. E la grazia può raggiungerci senza essere soffocata dall’urgenza. Riposare significa rispondere all’invito del Signore: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’.» (Mc 6,31) Ricordate che anche il settimo giorno Dio si fermò, e benedisse il riposo (Gen 2,2-3): fermarsi è dunque entrare nel ritmo stesso della creazione, imparare a guardare la vita con lo sguardo di Dio, che non misura il valore dal fare ma dall’essere.

9. Andare oltre le delusioni. Le delusioni fanno parte della vita e del ministero: arrivano quando le attese non coincidono con la realtà, quando il bene non sembra dare frutto, quando la fiducia non è ricambiata. Ma la delusione, se attraversata nella fede, può diventare una soglia: libera dal bisogno di essere perfetti e restituisce alla verità dell’amore gratuito. Gesù stesso ha probabilmente conosciuto la delusione - dei discepoli addormentati, dell’amico che lo tradisce, della folla che si disperde - ma non si è chiuso: ha trasformato il dolore in offerta, la perdita in dono. Andare oltre le delusioni significa imparare a credere ancora, a seminare anche quando la terra sembra arida, a restare fedeli al bene senza pretendere risultati. Chi attraversa la delusione fidandosi del Vangelo scopre che la fedeltà di Dio non viene mai meno, e che ogni sconfitta, se consegnata, diventa seme di resurrezione.

10. Curare le ferite. Non per dimenticarle, ma per imparare a benedire attraverso di esse. Le ferite, se curate, diventano porte: luoghi dove la grazia entra, dove la compassione si fa più profonda, dove la vita si apre all’amore. Solo chi ha sofferto può accogliere senza giudicare, perché conosce la lingua della misericordia. Gesù risorto non ha nascosto le sue piaghe. Le ha mostrate. Le ha offerte come segni di pace: «E mostrò loro le mani e il fianco.» (Gv 20,20) Le sue ferite non gridano più dolore, ma raccontano fedeltà. Sono trofei d’amore, sorgenti di fede e di riconciliazione. Così anche le nostre ferite, quando vengono consegnate, diventano Vangelo: non cicatrici di vergogna, ma segni di grazia. E allora possiamo comprendere quanto scriveva Georges Bernanos: «La grazia delle grazie sarebbe di amarsi umilmente come una delle piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo.» Amarsi così, con le proprie ferite, è entrare nella Pasqua di Dio: dove il dolore diventa luce, e la fragilità si trasforma in sorgente di vita. 
          Fratelli miei, affido a voi queste parole semplici, nate dal cammino e dall’ascolto, dal condividere le vostre notti e le vostre albe, le vostre domande e i vostri “eccomi”. Dentro le fatiche, le fedeltà quotidiane, le stanchezze e le ferite, Dio continua a passare! Passa e rialza. Passa e guarisce. Passa e ricrea. Là dove noi vediamo la fine, Lui sta già preparando un inizio. Là dove sentiamo il limite, Lui scava una sorgente. Là dove diciamo “non ce la faccio più”, Lui sussurra: “Insieme ce la faremo.” Non lasciamo che la tristezza diventi abitudine, che la paura spenga il desiderio, che la rassegnazione prenda il posto della speranza! Il Signore è fedele: non smette mai di credere in noi, anche quando noi smettiamo di credere in noi stessi. Fratelli miei, lasciamoci sorprendere dalla grazia. Lasciamoci riabbracciare da quella tenerezza che non giudica ma rialza. Fidiamoci di Dio, che non chiede eroi ma cuori aperti. Non serve essere forti: basta restare disponibili. È la disponibilità che diventa miracolo, è la fiducia che spalanca le porte chiuse. 

     E allora forza cari presbiteri! Camminiamo con entusiasmo, con gioia, con il coraggio dei piccoli passi. Non smettiamo di credere che la vita può rifiorire anche dopo il gelo, che Dio può far nascere un canto anche dalle crepe della terra. La grazia non finisce, non scade, non delude. È una linfa che torna, sempre, ogni volta che ci arrendiamo all’Amore. Affido ciascuno di voi alle mani della Vergine Maria, Madre della tenerezza, Regina della Pace, Donna del Sì. A Lei che ha saputo custodire la Parola senza volerla possedere. A Lei che ha creduto anche quando non capiva, che nel riconoscersi fragile e semplice si è chiesta: “Come può lo sguardo di Dio posarsi proprio su di me?” Forse, fratelli, lo chiediamo anche noi. Io stesso, tante volte, me lo chiedo. E ogni volta che la guardo, sento la sua voce che m’invita: “Abbi fiducia e non temere perché ‘quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi’ (Is 40,31). Preparano, perfino nella loro notte, l’alba di un mondo nuovo”. 

Grazie per l’ascolto!
   
                                                                                    † don Mimmo Battaglia

 (Fonte: sito conferenza episcopale campana)