Andrea Grillo
La riserva maschile, le donne che votano al Sinodo e un testo di S. Paolo
52 donne avranno diritto di voto alla assemblea del Sinodo dei Vescovi di ottobre. Per quanto maturata in un contesto parasacramentale, come è appunto un Sinodo, si tratta di un fatto teologicamente importante e che cambia molte cose. La riserva maschile, che fino a pochi anni fa sembrava fondata sulla “divina costituzione della Chiesa” e che teologi non secondari avevano letto come frutto di una sorta di principio (o pregiudizio) della “perenne gerarchia tra i sessi”, ora cade non solo per l’accesso ai ministeri istituiti, ma anche nel cuore dell’esercizio episcopale del munus regendi.
Si può leggere una dovizia di commenti scandalizzati, per un presunto cedimento della chiesa ad una mentalità mondana e al relativismo della eguaglianza. Pensata su modelli medievali e moderni, la Chiesa sarebbe una sorta di custode della società dell’onore e non dovrebbe cedere alle lusinghe della società della dignità, tra cui brilla la “emancipazione femminile”.
Più interessante è scoprire in S. Paolo, proprio in uno degli autori più citati per giustificare la incompetenza della donna circa l’insegnare, il comandare e il presiedere, una delle ispirazioni originarie di questo superamento della riserva maschile. Leggiamo infatti in Gal 3,28 una relativizzazione impressionante delle “grandi differenze” di cui vive la cultura e la società antica, medievale e moderna: ossia la differenza di etnica e religiosa, la differenza sociale e la differenza sessuale. Dice il testo famoso: “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Non si tratta di una negazione delle differenze, ma di una sua relativizzazione “in Cristo”: il dono di grazia che scaturisce dalla fede in Cristo non si lascia condizionare del tutto né dalle differenze etnico-religiose, né dalle differenze di autorità sociale, né dalle differenze di genere-sesso. Sembra che questo possa essere il frutto di una rilettura tardo moderna del testo paolino, influenzata dalla nuova cultura della società aperta.
Ma questo non è del tutto vero. Anche nel mondo medievale i grandi autori coglievano, in questo testo di Paolo, la potenza di una profezia che aiutava a superare, per quanto allora possibile, la forza, per non dire la violenza, delle convenzioni religiose, sociale e sessuali.
Possiamo leggere, molto brevemente, il valore che questo testo paolino ha avuto nel pensiero “sulla donna autorevole” in due teologi come Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto.
Tommaso e la donna ministro del battesimo
Quando Tommaso affronta la questione se una donna possa essere ministro del battesimo, utilizza un duplice argomento per poter ammettere l’autorità della donna come ministro del rito del battesimo: da un lato ricorda il fatto che il battesimo ha come attore principale Cristo e non il ministro. In secondo luogo può riconoscere, secondo Gal 3,28, che in Cristo non vi è né maschio né femmina e può quindi concedere che la donna, sia pure fuori di ogni spazio pubblico, possa essere ministro del sacramento. Questo duplice passaggio indica la possibilità di una “mediazione femminile” in contesto autorevole e sacramentale. Resta, ovviamente, la questione della differenza tra ambito privato e ambito pubblico, che determina una rigorosa delimitazione della autorità femminile. Ma questo è il frutto non della rivelazione, ma della cultura antica e medievale, che arriva fino al XIX secolo e che verrà almeno inizialmente superata dal riconoscimento della entrata della donna “in re publica”, che si trova nel 1963, in Pacem in terris. Anche la differenza sessuale, così profondamente sentita sul piano culturale, non condiziona fino in fondo l’autorità di Cristo, nel quale anche questa differenza diventa relativa.
Duns Scoto e l’inizio della riflessione sulla ordinazione femminile dal testo di Paolo
Altrettanto interessante è il contesto in cui Giovanni Duns Scoto utilizza il testo di Gal 3: ossia proprio all’inizio della questione intorno alla ordinazione della donna, che nel suo Commento alle Sentenze viene sviluppata in parallelo alla questione dei minori: il testo viene citato evidentemente a sostegno della ipotesi positiva. Duns Scoto rigetta questa possibilità, asserendo che il caso della ordinazione della donna è un caso di “ordinazione nulla” e utilizza per questo un altro passo di Paolo (1 Tm 2,12) in cui si esclude la possibilità che le donne possano insegnare (riferendo Duns Scoto tale divieto non a Paolo ma a Gesù stesso)! Tuttavia, nel momento in cui Duns Scoto deve rispondere all’argomento positivo offerto dal passo di Gal 3,28, la sua risposta appare complessa:
““quantum ad gloriam consequendam et ad gratiam habendam, non est distinctio in lege Christi inter foeminam et masculum, quia tantam gratiam habere et tantam gloriam attingere potest illis, sicut iste; sed quantum ad gradum excellentem habendum in Ecclesia, bene decet esse distinctionem inter virum et mulierem in lege Christi, quia hoc consonat legi naturae”1
Il testo suona così:
“Quanto al conseguimento della gloria e alla ricezione della grazia, non c’è distinzione nella legge di Cristo tra donna e uomo, poiché tanta grazia possono avere e tanta gloria raggiungere quelle come questi; ma quando al grado più alto da tenere nella Chiesa, è bene mantenere una distinzione tra uomo e donna nella legge di Cristo, perché ciò concorda con la legge naturale”
La interpretazione del testo paolino, in Duns Scoto, non è tanto segnata dalla differenza tra pubblico e privato, quanto da quella tra attivo e passivo. In comune con Tommaso il doctor subtilis ha una comprensione della differenza tra uomo e donna in termini di “autorità”, di subordizione della seconda al primo. Per questo anch’egli, come già aveva fatto Tommaso, tende ad assolutizzare una “evidenza culturale, sociale e civile”, che condiziona la lettura del testo paolino e la soluzione della questione teologica.
La differenza sessuale come “schermo”?
Ciò che accade negli ultimi anni può essere letto come una più profonda ermeneutica del testo paolino di Gal 3: le differenze etnico-religiose, le differenze sociali non pesano più da tempo sull’annuncio del Vangelo, da più di100 anni, almeno in buona parte del mondo. Ma la differenza sessuale continua ad essere percepita e raccontata come un “luogo di resistenza”, che rischia di confondere la difesa della “riserva maschile” con la difesa del Vangelo. Il percorso aperto verso l’accesso della donna all’esercizio della autorità ecclesiale, che ha già superato la riserva maschile nei ministeri istituiti e nel diritto di voto per le partecipanti alla Assemblea del Sinodo dei Vescovi, permette di leggere Gal 3,28 senza il condizionamento ideologico di forme culturali prepotenti, riconoscendo che questo condizionamento è avvenuto molto più in passato che nel presente. E’ la teologia della riserva maschile ad essere ideologica, non la domanda di accesso delle donne al ministero della Chiesa. Interpretare questo cambiamento come una migliore comprensione del Vangelo implica un profondo ripensamento del rapporto tra dottrina, disciplina e parola di Dio.
1 Johannis Duns Scoti, Quaestiones in librum quartum sententiarum, d. XXV, q. II.
(fonte: blog: Come se non 9 Luglio 2023)