Parole violente: una maratona per dire no
venerdì su Corriere.it
Parteciperanno testimoni o vittime dell’odio e tanti protagonisti della cultura
di Walter Veltroni
L’odio non è un virus. È una malattia sociale. Nasce e si diffonde con la velocità di un’epidemia quando le crisi sociali si manifestano con maggiore virulenza. L’odio è figlio della frustrazione, della rabbia, dell’ingiustizia. Quando la democrazia, e le idee politiche, sono forti, esse si mostrano capaci di convogliare queste insofferenze verso razionali sbocchi. Altrimenti l’odio galoppa, diventa sentimento abituale, norma codificata delle relazioni sociali.
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Il 12 giugno è la data in cui nacque Anne Frank. Ed è la data in cui lei, bambina, iniziò il suo diario. Anne morì a quindici anni e mezzo a Bergen Belsen. La sua vita, come quella dei tanti deportati italiani, fu uno strazio. Perché era ebrea e questa identità non poteva essere tollerata dalla mostruosità della «difesa della razza» teorizzata dagli aguzzini nazisti e dai fascisti italiani. Dall’odio sono nati i campi di sterminio e i gulag staliniani. O le fosse comuni dei Balcani. Dall’odio nasce la perdita di umanità di cui siamo pervasi.
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L’odio produce odio. In una pericolosa omologazione di linguaggi. Ai quali è dovere civile sottrarsi. Non è la maggioranza, quella degli odiatori. Ma fa rumore, la violenza di quelle parole. Usarne altre, sottrarsi, anche individualmente, a questa facile e comoda deriva — l’odio fa ascolti — è un modo per dare forma a un’idea della vita. Farlo è il modo per non dover mai dire, del tempo in cui si vive: «Non riesco a respirare».
(fonte: Corriere della Sera 10/06/2020)