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venerdì 12 giugno 2020

L’odio non è un virus. È una malattia sociale. L’odio produce odio. - Parole violente: una maratona per dire no di Walter Veltroni


Parole violente: una maratona per dire no 
venerdì su Corriere.it
Parteciperanno testimoni o vittime dell’odio e tanti protagonisti della cultura
di Walter Veltroni

L’odio non è un virus. È una malattia sociale. Nasce e si diffonde con la velocità di un’epidemia quando le crisi sociali si manifestano con maggiore virulenza. L’odio è figlio della frustrazione, della rabbia, dell’ingiustizia. Quando la democrazia, e le idee politiche, sono forti, esse si mostrano capaci di convogliare queste insofferenze verso razionali sbocchi. Altrimenti l’odio galoppa, diventa sentimento abituale, norma codificata delle relazioni sociali.

L’odio, come fenomeno collettivo, si manifesta nei confronti di chi è diverso da sé. Il colore della pelle, la religione praticata, le idee politiche, quelle sportive sono buone ragioni per scagliarsi contro l’altro. Ciò che sta accadendo ai neri d’America, i rigurgiti antisemiti in giro per l’Europa, ciò che è successo ai cristiani in tanti Paesi, ciò che hanno voluto dire gli attentati dell’estremismo islamico o quelli del terrorismo nell’Italia degli anni settanta e ottanta rispondono tutti alla stessa, inossidabile, convinzione: «Io sono la verità, la normalità, ciò che ha diritto di vivere. La mia è la verità assoluta e tu, che ne vivi un’altra, sei nient’altro che un ostacolo da rimuovere, un fastidio, un inutile intralcio alla piena affermazione del mio potere».

Il 12 giugno è la data in cui nacque Anne Frank. Ed è la data in cui lei, bambina, iniziò il suo diario. Anne morì a quindici anni e mezzo a Bergen Belsen. La sua vita, come quella dei tanti deportati italiani, fu uno strazio. Perché era ebrea e questa identità non poteva essere tollerata dalla mostruosità della «difesa della razza» teorizzata dagli aguzzini nazisti e dai fascisti italiani. Dall’odio sono nati i campi di sterminio e i gulag staliniani. O le fosse comuni dei Balcani. Dall’odio nasce la perdita di umanità di cui siamo pervasi. 
Nel libro «Odiare l’odio» che venerdì sarà letto sul sito del Corriere da tanti testimoni o vittime dell’odio e da tanti protagonisti della cultura, che ne è il principale antidoto, ricordo come questa bava livida sia entrata nella rete, spingendo persino esseri umani a gioire per la morte di questo o di quello, come fosse normale. La rete è nata per unire, per mettere in relazione. Invece è diventata una somma di recinti dai quali si getta olio bollente sui presunti avversari.

L’odio produce odio. In una pericolosa omologazione di linguaggi. Ai quali è dovere civile sottrarsi. Non è la maggioranza, quella degli odiatori. Ma fa rumore, la violenza di quelle parole. Usarne altre, sottrarsi, anche individualmente, a questa facile e comoda deriva — l’odio fa ascolti — è un modo per dare forma a un’idea della vita. Farlo è il modo per non dover mai dire, del tempo in cui si vive: «Non riesco a respirare».
(fonte: Corriere della Sera 10/06/2020)