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domenica 22 agosto 2010

EMERGENZA PAKISTAN

Domenica scorsa in Pakistan, sotto un cielo di piombo, ho visto un mare di sofferenza. Le acque dell’alluvione hanno spazzato via migliaia di città e di villaggi. Strade, ponti e abitazioni in ogni provincia sono andati distrutti. Dal cielo ho visto migliaia di ettari di terreno agricolo - la risorsa essenziale dell’economia del Pakistan - inghiottiti dall’innalzamento delle acque. Sul terreno, ho incontrato gente terrorizzata, che vive nella paura quotidiana di non riuscire a sfamare i propri figli o a proteggerli dalla prossima ondata di crisi: la diffusione di diarrea, epatite, malaria e colera. La portata del disastro quasi sfida l’umana capacità di comprensione. In tutto il Paese si stima che tra 15 e 20 milioni di persone siano state toccate dall’alluvione: più di quanti furono colpiti dallo tsunami nell’Oceano Indiano, dal terremoto in Kashmir nel 2005, dal Ciclone Nargis nel 2007 e dal terremoto ad Haiti di quest’anno, messi insieme...
E ovviamente sappiamo che ciò sta accadendo in una delle regioni più problematiche del mondo, dove stabilità e prosperità sono nell’interesse comune di tutto il mondo. Per tutti questi motivi, le inondazioni di agosto sono molto più di un disastro che riguarda esclusivamente il Pakistan. Esse rappresentano piuttosto la più grande prova di solidarietà globale del nostro tempo...



Se non saranno forniti acqua e presidi igienico-sanitari, la vita di milioni di bambini può essere messa in pericolo dal contagio di malattie trasmesse attraverso l'acqua.

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È una guerra. Sporca e feroce come tutte le guerre. O forse anche di più. Perché tutti – sia le vittime sia i carnefici – sono, comunque, vittime. Di una calamità più grande. Enorme. Ban Ki-moon l’ha definito efficacemente «uno tsunami al rallentatore». Ma le parole descrivono con difficoltà l’inferno d’acqua che sta straziando il Pakistan.

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