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lunedì 26 giugno 2017

Giuliana Martirani: RISPOSTA ALLA LETTERA A UNA PROFESSORESSA




Giuliana Martirani: 

RISPOSTA ALLA LETTERA A UNA PROFESSORESSA





COMPLETAMENTE REALIZZATO CON LA SCRITTURA COLLETTIVA CON CUI DON MILANI E I RAGAZZI DI BARBIANA SCRISSERO LA LETTERA A UNA PROFESSORESSA




Caro don Milani e cari Francuccio, Michele, Franco, Sandro, Gianni, «non tutti i professori sono come quella signora ... ».
Io sono d'accordo su tutto quello che voi avete detto. Come deve esservi costato sulla pelle! Lo posso immaginare! Io sono sempre stata definita una studentessa... indisciplinata. Ma mi è servita molto quella esperienza vissuta sulla pelle. Non sono proprio riuscita ad essere una «professoressa» che sa tutto, un cane poliziotto che ha «la mania del trabocchetto». Non sono riuscita a «stare in guerra coi miei ragazzi», anzi la guerra ho insegnato loro ad odiarla, quella planetaria e quella che si fanno tra di loro, spinti dal programma, dal voto e dalla smania dell'interesse individuale. A loro ho continuato a dire che l'interesse individuale è una bestemmia, che per uscire dalle crisi personali l'unica via è assumere quelle collettive così che risolvendo le seconde si trovi soluzione anche alle prime. Mi sono sentita «impreparata» ad affrontare la mia disciplina, la geografia, la politica dell'ambiente, ed anche un poco vergognosa perché, diciamocelo francamente, è sempre stata una disciplina del «principe» come oggi l'economia; ha sempre accompagnato colonizzatori, multinazionali, dominatori d'ogni sorta, per i quali è legge installarsi comodamente sul proprio territorio e scrivere dettagliate carte che permettano di ben penetrare in territori altrui.

E in un periodo in cui parlare di politica fuori dei partiti veniva dichiarato pericoloso e quasi visto come una insolenza, io non ho temuto di dire che il problema dell'uno è dell'altro «E CHE SORTIRNE INSIEME È POLITICA. SORTIRNE DA SOLI È L’AVARIZIA». Anzi la prima indispensabile condizione che ho messo in ogni luogo in cui ho fatto educazione (perché l'ho fatta tra i giovani volenterosi di cambiare il mondo, tra insegnanti stufi di insegnare, terremotati sbattuti sempre più ai margini delle città, suore stanche dei conventi), in tutti questi luoghi, la prima condizione è sempre stata di fare COMUNE UNITÀ, gruppo, comitato o associazione che fosse. E ho fatto bene attenzione a non lasciare un baratro tra il sapere che dal gruppo si sprigionava come una rondine e la realtà che si stava muovendo intorno. Anzi la realtà è entrata di prepotenza in ogni gruppo, portata di forza, con tutta la sua carica di tragedia e di amore, di disperazione e di speranza, quella dei luoghi più lontani e di quelli più vicini. E ho mostrato a giovani studenti e vecchie professoresse, padri analfabeti e madri cariche di figli che «IN AFRICA, IN ASIA, IN AMERICA LATINA, NEL MEZZOGIORNO, IN MONTAGNA, NEI CAMPI, PERFINO NELLE GRANDI CITTÀ, MILIONI DI PERSONE ASPETTANO DI ESSERE FATTI UGUALI, TIMIDI COME NOI, CRETINI COME NOI, SVOGLIATI COME NOI», PROPRIO COME I VOSTRI SANDRO E GIANNI. «IL MEGLIO DELL'UMANITÀ»!

E con tutta questa gente con cui ho fatto educazione, che, secondo certe tecniche che sono andata elaborando, ispirandomi a voi, io chiamo «AUTOEDUCAZIONE COLLETTIVA ORIENTATA ALL'AZIONE», con tutta questa gente ho imparato che la prima cosa, una volta messi insieme, è aiutarsi ad alzarsi in piedi, gli uni gli altri con amore. DA CURVÀTI AD AIZÁTI. E che alzandoci in piedi insieme incominciamo a trasformare il mondo trasformando noi stessi.

E i voti migliori (se ancor voti ci saranno); e sennò la figura migliore, ce la fa proprio il «Gianni» che di natura se ne intende, di missili non sa che farsene lui che proprietà non ne ha da difendere, e di sottouomini non ne vuole né in Africa, né in Asia, né in America latina, né nei campi del Mezzogiorno perché tutti gli uomini gli son fratelli.
LA FIGURA MIGLIORE, NELL'ERA DELL'INNOCENTÍA, CE LA FA PROPRIO IL GIANNI, in grado di trasformarla la realtà perché lui la conosce, ne ha esperienza, non è come Pierino, pieno di dottrine e di idee.
Pierino fortunato perché sa parlare...

Gianni perché appartiene al mondo grande, diceste voi a Barbiana affermando: «LA CULTURA VERA, QUELLA CHE ANCORA NON HA POSSEDUTO NESSUN UOMO, È FATTA DI DUE COSE: APPARTENERE ALLA MASSA E POSSEDERE LA PAROLA. UNA SCUOLA CHE SELEZIONA DISTRUGGE LA CULTURA. AI POVERI TOGLIE IL MEZZO DI ESPRESSIONE. AI RICCHI TOGLIE LA CONOSCENZA DELLE COSE. GIANNI DISGRAZIATO PERCHÉ NON SI SA ESPRIMERE, LUI FORTUNATO CHE APPARTIENE AL MONDO GRANDE. FRATELLO DI TUTTA L'AFRICA, DELL'ASIA, DELL'AMERICA LATINA. CONOSCITORE DA DENTRO DEI BISOGNI DEI PIÙ»

Gianni fortunato perché lui vive la storia, la vive nel modo sommerso dei poveri, che sembra non facciano storia. Perché in lui è la «continuità narrativa» della storia dell'umanità, del suo dinamismo, dei suo eterno camminare.

Pierino fortunato perché sa parlare. Disgraziato perché parla troppo.
Lui che non ha niente di importante da dire. Lui che ripete solo cose lette sui libri, scritte da un altro come lui. Lui chiuso in un gruppetto raffinato. Tagliato fuori dalla storia e dalla geografia».
Pierino possiede la «parola», legge interpreta spiega e scrive, può elaborare l'idea, possiede l'anello della trasformazione tra la realtà e la realtà: possiede la teoria (prassi teoria prassi), un anello indispensabile per il miglioramento delle condizioni umane. Ma non ha niente di importante da dire, ha perduto la creatività che si accompagna al dinamismo storico. Per di più va fiero del suo anello, si insuperbisce e cade nella trappola delle dogmatizzazioni, nemiche di ogni trasformazione.

Pierino si trova nella situazione in cui si trova oggi il Nord del mondo con la sua civiltà della scrittura, fortemente alfabetizzata e oggi anche informatizzata, buona per gestire (o controllare e dominare?) grossi spazi, ma fortemente soggetta alle dogmatizzazioni, ai suoi errori tramandati e cristallizzati, e alla sua staticità.

Gianni invece si trova nella situazione delle immense masse marginalizzate del Sud dei mondo con la loro civiltà dell'oralità, della parola orale, o a volte, quando l'omogeneizzazione culturale ai modelli dominanti ha fatto perdere la propria identità, addirittura senza più parola. Ma la civiltà dell'oralità, così come la situazione di Gianni, offre il non piccolo vantaggio di essere estremamente flessibile, non soggetta alla staticità e agli errori della dogmatizzazione, perché è legata all'esperienza, alla realtà delle persone nella loro singolarità e nel loro essere comunità.

Una cultura legata ad uno spazio territorio, di cui si conoscono le regole, autogestibile, e ad un tempo cosmico e naturale, non lineare nella sua angosciante progressione passato presente futuro dove il passato è irrimediabile, il presente fugge e il futuro imprevedibile , ma ad una concezione di tempo circolare nei suoi ritmi solari e stagionali, e cosmico nel suo essere ponte tra il visibile e l'immaginario, tra il già esistente e il non ancora, tra la realtà e l'utopia.

TRA PIERINO E GIANNI, TRA RICCO E POVERO, TRA NORD E SUD, CI DEVE ESSERE UN «PONTE», CI DEVE ESSERE UN PRIORE CHE RESTITUISCA LA PAROLA A CHI È STATA TOLTA. Che aiuti la gente a trar fuori dalla loro realtà la loro parola con la tecnica del cavatappi, direbbe Frei Betto, per poi col cacciavite stringere le viti (teoria), aprendo nella testa della gente uno stenditoio in cui i diversi capi da stendere sono collegati l'uno all'altro, perché si possano cogliere le relazioni che ogni cosa ha con le altre, nel tragico gioco sociale come nel rapporto con la natura.

CHE SI OFFRA COME PONTE PERCHÉ I SENZA PAROLA, AD UN TEMPO RIAPPROPRIANDOSI DI SÉ, DELLA REALTÀ E DELLA PAROLA, POSSANO PASSARE DALLA PERCEZIONE DELLA VITA COME PROCESSO BIOLOGICO ALLA PERCEZIONE DI ESSA COME PROCESSO BIOGRAFICO STORICO E COLLETTIVO. 
Il «ponte», l'intellettuale organico, il vero educatore è colui che prende a cuore la sorte del misero, è colui che avendo la parola, prende a cuore la situazione di colui che non ce l'ha. E non fa come Pierino che parla al posto di Gianni e dice cose inutili che non servono a nessuno e tanto meno a Gianni.

E’ colui che non resta indifferente dinnanzi alla «timidezza» e al mutismo di Gianni. 
Sa che Gianni ha «la vita da dire» e fa di tutto per fargliela dire, col «cavatappi», poi stringe con il «cacciavite», e poi porta lo «stenditoio» per stenderci tutti i suoi pensieri.
Sa che Gianni ha da dire cose importantissime e necessarissime per tutta l'umanità, Pierini compresi; sa che la novità con cui si costruisce la storia viene proprio dai Gianni, lontani dall'impero.

L'educatore è colui che vivendo la situazione del povero riesce a stabilire, a gettare un ponte tra Gianni e Pierino, semplicemente PORTANDO L'UMANITÀ DALL'OTTICA DELLO SPAVENTO A QUELLA DELL'ASPETTATIVA. Senza di che la povertà resta oscura, silenziosa: senza parola e senza riscatto per Gianni, spaventosa e sporca per Pierino. L'educatore diventa allora anche voce di quelli che non hanno voce. Ma non parlando in nome loro! Basta coi Pierini che parlano troppo! E’ Gianni che deve prender la parola su di sé. 
L'EDUCATORE DIVENTA VOCE DI QUELLI CHE NON HANNO VOCE SEMPLICEMENTE INDICANDO A GIANNI LE TRAPPOLE DEL MONDO DEI PIERINI E URLANDO A GRAN VOCE, NEL MONDO DEI PIERINI, CHE GIANNI CONTADINO, GIANNI INDIO, GIANNI NEGROAMERICANO E GIANNI NEGROAFRICANO, GIANNI EMIGRATO, GIANNI TOSSICO, GIANNI BARBONE, GIANNI ESISTE.
Non resta allora che chiedersi una cosa: 
L'EDUCATORE, L'INTELLETTUALE, IL MAESTRO, L'ANIMATORE È DAVVERO «PONTE» NELLA NOSTRA SOCIETÀ?
FA SGORGARE LA PAROLA E LA VITA DAL CUORE DEI POVERI, CREANDO VITA INTORNO A SÉ E DENTRO DI SÉ (ED È QUESTO IL VERO E PIÙ PROFONDO SENSO DELLA CULTURA: QUELLO DI CREAR VITA) PERCHÉ DA QUESTA VITA SI SPRIGIONI LA LIBERTÀ?




Vedi anche:
Com’è nata Lettera ad una professoressa
di Sandra Gesualdi