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domenica 6 ottobre 2024

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 47 - 2023/2024 anno B

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B 

Vangelo:

Mc 10,2-16

Alla luce della Parola di Gesù, il brano di questa Domenica ci presenta qual è l'atteggiamento che deve assumere la comunità dei credenti circa il matrimonio. E' il sogno che Dio ha sull'umanità «fin dal principio», che cioè ogni creatura umana diventi capace di amare con la stessa fedeltà con la quale viene da Lui amata. La Parola di Gesù dà al matrimonio una dignità divina che né il giudaismo né il paganesimo avevano. Gesù, contro ogni consuetudine umana, non considera affatto la liceità del divorzio, richiamando i suoi interlocutori al senso autentico del comandamento di Dio. Il progetto del Padre sull'umanità è l'unità nella Carità, unità che sta a fondamento di tutta la creazione e così mirabilmente espressa nel matrimonio, che fin dal principio è il simbolo per eccellenza del rapporto d'amore tra Dio e il suo popolo. E' proprio sull'amore e sulle sue esigenze che si gioca il nostro essere cristiani, e le sue condizioni non sono quelle del possesso del partner, ma della totale condivisione della vita, la piena consegna di sé nelle mani dell'altro/a per poter accogliere con semplicità e in totale abbandono il dono della vita, come fanno i bambini. Solo a coloro che diventano come loro - senza diritti, senza sicurezze, senza pretese, senza possedere nulla - appartiene il Regno di Dio.


sabato 5 ottobre 2024

1+1=1 - La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà. Prima la persona e poi la legge! - XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

​1+1=1
 


La legge che noi diciamo di Dio 
non sempre riflette la sua volontà. 
Prima la persona e poi la legge!
 

In quel tempo, alcuni farisei domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall'inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; (...) Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto».(...) Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s'indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro. Mc 10,2-16

 
​1+1=1
 
La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà.
Prima la persona e poi la legge!

Alcuni farisei vanno da Gesù per metterlo alla prova. Quello che gli chiedono è risaputo: “E’ lecito a un marito ripudiare la moglie?”. Chiaro che sì, la tradizione, avallata dalla Parola di Dio, lo permetteva.

Gesù prende subito le distanze e dice: “cosa vi ha ordinato Mosè?” Da buon ebreo, avrebbe invece dovuto dire “che cosa ci ha comandato Mosè?”.

‘Mosè ha permesso l’atto di ripudio’. Ebbene, Gesù prende le distanze anche da Mosè e sottolinea: “per la durezza del vostro cuore egli scrisse questa norma.

Afferma così qualcosa di enorme: La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà. E per questo non ha valore assoluto. Gesù non si ferma a redigere altre norme, non gli interessa regolamentare la vita, ma rinnovarla; custodire il fuoco, non venerare la cenere.

Come bambini che non comprendono, ci prende per mano e ci accompagna nei territori di Dio e del suo sogno iniziale: all’inizio Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e i due diventeranno una carne sola.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Allora uno più uno uguale a uno.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome biblico del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo.

Allora il problema non è ripudio o non ripudio, separarsi o meno, ma è alla radice: si tratta della manutenzione, tenace, del sogno, perché l’amore è fragile e affamato di cure.

Se non ti impegni a fondo per le tue relazioni, se non dai loro tempo, se non le custodisci con fedeltà, con timore e tremore, le hai già ripudiate nel tuo cuore.

‘Portavano dei bambini a Gesù perché li toccasse. Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò’. L’indignazione è un sentimento proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria; è la reazione di Gesù per la profanazione del tempio (Gv 2,14).

Qui reagisce allo stesso modo, perché i bambini sono cosa sacra: a chi è come loro appartiene il regno di Dio.

Chi è come loro? I bambini non sono più buoni degli adulti, ma sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, sanno giocare tutto il giorno come i delfini, incuriositi da ciò che porterà loro, facili al sorriso e all’abbraccio. Il bambino fino ai 12 anni non ha obblighi verso la Legge, è ai margini, non ha riti da osservare, e Gesù lo addita a modello! Prima la persona e poi la legge!

Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino che si rialza da terra.

Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla non contaminato ancora.



Enzo Bianchi Beata debolezza

Enzo Bianchi
Beata debolezza 


La Repubblica - 30 settembre 2024

Prima di organizzare dibattiti e confronti su un tema oggi evocato con frequenza come quello della “fragilità”, occorrerebbe fare con intelligenza una distinzione tra fragilità, debolezza, vulnerabilità e imperfezione. Altrimenti si fa confusione e non si accede a una consapevolezza che aiuti il nostro cammino di crescita umana.

Certamente viviamo in un contesto di relativismo, di oblio delle esigenze morali e di fuga dalla fatica che incoraggia una certa inerzia e che non può non diventare debolezza spirituale. Anche la crescita delle ansie esistenziali e delle paure di fronte alla vita stessa, al futuro, alla morte, al fallimento, hanno alimentato un clima di depressione che porta a rimuovere le virtù da conseguirsi con fatica, mentre incoraggia la fragilità. Vulnerabili siamo tutti noi in quanto esseri umani: ma la fragilità è altra cosa e non va confusa!

“Vulnerabilità” significa capacità di essere feriti, apertura ed esposizione all’altro: l’altro che ci sta davanti e ci mostra il volto con le sue ferite e il suo pianto ferisce anche noi, ci fa soffrire e ci porta alla compassione, al “soffrire insieme”. Essere vulnerabili è una grande possibilità di comunione anche perché la vulnerabilità non solo non esclude la fortezza, ma può incitarci all’acquisizione di questa virtù, tanto necessaria per poter aiutare con responsabilità e intelligenza l’altro che soffre.

La fragilità invece è il male che ci coglie a causa della vita, della malattia, delle vicende del mondo. Dalla fragilità vorremmo “essere liberati” perché è un impedimento alla pienezza della nostra vita.

Oggi c’è un elogio della fragilità che è insensato. Viene fatto da impotenti e inerti, ma va giudicato con chiarezza come giustificazione di una vita nella quale si rifiuta la fortezza per un equivoco: la fortezza infatti non è violenza, non è un vile prevalere sugli altri, ma è capacità di resistenza, di saldezza, di resilienza, di pazienza, di makrotymía, capacità di continuare a pensare in grande e a vedere in grande.

Per questo le persone fragili sono riconosciute da chi sa di essere fragile e sono conosciute nel faccia a faccia, guardandosi negli occhi, nel mettere la mano nella mano, nell’abbracciarsi. Abbracciare un corpo deforme o malato, dare la mano a un mendicante, dare un bacio a un povero, accogliere un viandante in casa, è vivere la beatitudine di chi riconosce e discerne l’uomo fragile, dicono i salmi nella Bibbia.

E infine possiamo dire che la debolezza è una consapevolezza spirituale della nostra situazione: siamo sempre deboli, ma è vero che in certi momenti sprofondiamo in una debolezza che rasenta la morte. Nonostante la lotta contro la tentazione cadiamo nel compiere il male, falliamo nel fare il bene, contraddiciamo l’amore. Gregorio Magno dice che se non fossimo deboli e soggetti a cadute e a fallimenti nella vita penseremmo che il bene che facciamo viene da noi e non da Dio. E arriva a dire con molta audacia che i peccati che facciamo, soprattutto quelli impuri, sono un rimedio all’orgoglio. Ma è il grande san Bernardo che dopo una vita in cui comandava al papa e ai re vive una crisi profonda: esce dal monastero e va a vivere da solo, in una capanna nella foresta. E qui confessa a causa dei suoi peccati il fallimento della sua vita da monaco, il fallimento del cammino verso la santità che si era prefisso. Ne esce come un uomo spogliato e canta: O optanda infirmitas! O beata desiderabile debolezza!
(fonte: blog dell'autore)


venerdì 4 ottobre 2024

Guardando Francesco di Assisi oggi…

Diana Papa
Guardando Francesco di Assisi oggi…

(Foto Siciliani - Gennari/SIR)

Quale stile di vita ci propone Francesco di Assisi, uomo che, nella sua prima fase di vita, si sarebbe trovato bene anche nel nostro tempo?
Riflettendo su alcuni tratti del suo percorso, si rileva che, secondo la mentalità del 1200, fu educato dai genitori fin dalla culla con eccessiva tolleranza e dissolutezza (cfr.1Cel I,1: FF 318).
Le figure di attaccamento perciò non contribuirono positivamente alla formazione della struttura della personalità di Francesco e, quindi, alla crescita integrale della sua persona. Egli conduceva infatti l’esistenza alla ricerca affannosa di soddisfazioni immediate, investiva le sue risorse nell’apparenza, nella visibilità per essere qualcuno, sfruttando anche le amicizie nobiliari del suo tempo.
Connotato da forte egocentrismo, inseguiva i suoi bisogni materiali o psicologici che non riusciva a gestire, perché, idolatrando narcisisticamente se stesso, non aveva individuato ancora dentro di sé la capacità di saper orientare l’esistenza secondo un senso da dare alla propria vita. Rimanendo in uno stato adolescenziale, viveva nella frammentarietà e, perciò, non favoriva l’unificazione della persona.

Anche oggi molti rincorrono la gratificazione immediata in tutti i campi, ma spesso non riescono ad approdare a nulla, perché privi di un orientamento. La mancanza di speranza è data proprio dal fatto che attualmente gli individui non cercano obiettivi da raggiungere capaci di dare, passo dopo passo, un significato all’esistenza. Quando ciò accade, vengono meno le forze. Solo un appiglio alla vita autentica può offrire ai cercatori di speranza un aggancio per risalire la china.
E Francesco?

Smette di adorare se stesso, quando incontra il Signore e scopre di essere amato da Lui.

Decide di dare una svolta alla sua esistenza e, dalla ricerca individuale del successo e del riconoscimento sociale, passa all’accoglienza incondizionata dell’Altro/altri, anche dei lebbrosi verso i quali prova un’istintiva ripugnanza. L’incontro con Cristo e con i reietti della società lo portano a vivere da minore nel mondo degli esclusi.
Scoprendo il senso della propria vita nel Crocifisso con il suo smisurato amore e dolore della sua passione (Fior: FF 1952) , Francesco si lascia raggiungere dalla sua misericordia che veicola tra gli emarginati che non sperano più. In questa circolarità d’amore egli riconosce la sua unificazione interiore e sceglie di “osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e seguire fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e il fervore del cuore l’insegnamento del Signore nostro Gesù Cristo e di imitarne le orme (1Cel XXX, 84: FF 466).

Quale messaggio oggi ci offre Francesco che ha scelto di liberarsi di tutto per imitare alla lettera Cristo e vivere radicalmente il Vangelo?
È urgente rimettere al centro Gesù e il Vangelo, coltivare la relazione con Lui per una vita di fede, conoscerlo attraverso la sua Parola, per essere riflesso della Sua costante presenza nella storia, saper cogliere in ogni altro/a e nel creato l’azione dello Spirito che conduce sempre alla custodia della comunione fraterna e universale.

Non si può imitare Gesù alla lettera come Francesco, se non Lo si conosce! 
Solo la cura della relazione affettiva con Cristo povero e crocifisso per amore ci permette di vivere radicalmente il Vangelo e ci consente di assumere come Francesco lo stile di Gesù soprattutto tra gli esclusi del nostro tempo.

Oggi c’è fame di senso, di appartenenza, di relazioni. Spesso, quando si fa riferimento a coloro che sono rifiutati, il pensiero corre solo ai poveri a livello materiale. La povertà prende forma anche tra coloro che non sanno gestire la propria vita, che non curano nella gratuità le relazioni, che consumano l’esistenza nel groviglio dell’attimo presente, che non hanno contatto reale con la profondità esistenziale abitata da Dio, che credono che la vita inizia e finisce con il proprio io, che calpestano le creature, che chiudono il proprio orizzonte esistenziale nei social, che trascurano l’approfondimento culturale che apre nuovi file per il bene dell’umanità, ecc.
In questo tempo c’è bisogno di persone autenticamente umane capaci di ascolto, disposte ad attendere i tempi per non giungere a conclusione affrettate, a guardare gli eventi secondo la prospettiva di Dio e anche dell’altro/a trovando punti di connessione, ad accogliere i dissensi e ad attivarsi per tenere aperti i ponti relazionali…
In questo tempo sinodale e di attesa dell’apertura dell’anno giubilare ognuno è interpellato dal Signore e dalla storia ad incarnare i valori evangelici, per costruire il Regno di Dio.
Come può aiutarci l’esperienza di Francesco? Dove siamo noi adulti battezzati e a che punto ci troviamo nel cammino cristiano?
(fonte: Sir 04/10/2024)

P. Ibrahim Faltas: Pace e bene per la Terra Santa

Mentre la guerra infuria e divide, l’invocazione francescana risuona a Gerusalemme dove bambini e ragazzi studenti della Custodia celebrano la festa liturgica del Poverello d’Assisi

Pace e bene
per la Terra Santa


Pace e bene! Così salutava Francesco d’Assisi, il giovane convertito all’amore di Cristo, il santo della pace che desiderò e immaginò la pace nei tempi oscuri della guerra. Con lo stesso saluto francescano ho accolto nella nostra chiesa di San Salvatore i bambini e i ragazzi della Scuola della Custodia di Terra Santa a Gerusalemme celebrando la messa per la festa di san Francesco nel giorno del suo transito. I nostri bambini e ragazzi vivono con molte difficoltà la tragedia della guerra ma insieme abbiamo pregato per rinnovare ancora la speranza della pace. Dopo un anno doloroso, in Terra Santa la guerra urla ancora e la pace fa fatica a far sentire la sua voce. San Francesco incontrò a Damietta il sultano al-Malik al-Kamil; si presentò povero, umile, armato solo della sua fede in Cristo e il sultano lo ascoltò perché lo riconobbe come uomo di Dio. Un altro Francesco, uomo di Dio dei nostri tempi, cerca la strada del dialogo per affermare il bisogno, la necessità e il desiderio di pace. Ero presente ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 quando Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, firmarono il Documento sulla fratellanza umana. Fu una dichiarazione storica che Papa Francesco aveva voluto fortemente. Insieme ad Al-Tayyeb chiedeva di sentirsi fratelli e lavorare insieme per la pace giusta, per garantire i diritti umani essenziali e il reciproco rispetto per la libertà religiosa. Il Pontefice e il Grande Imam, uniti, chiedevano agli uomini di fede di credere nella fratellanza umana, di impegnarsi a lavorare insieme per sconfiggere l’odio e la violenza, soprattutto quando odio e violenza sono causati da motivi religiosi.

Il dialogo porta sempre soluzioni. C’è dialogo se c’è un incontro. E dall’incontro nasce la conoscenza dell’altro, del proprio prossimo. Papa Francesco ha sempre affermato che l’odio e la violenza sono incompatibili con la fede, con ogni fede. E chiede ai credenti, a ogni credente di essere testimone e di operare per il bene della pace nel rispetto della differenza. Accogliendo i numerosi appelli del Pontefice in questo anno di guerra, abbiamo più volte chiesto ai potenti del mondo di tornare al dialogo, di arrivare a trattative di pace con intenzioni di pace. Abbiamo chiesto responsabilità nel dare opportunità di pace attraverso proposte concrete e ferme: senza escludere ogni possibile mediazione e senza favorire chi vuole e sostiene la guerra, la morte e la distruzione fisica e morale dell’umanità. Dobbiamo credere nell’uomo creato da Dio a sua immagine, non possiamo più accettare esseri umani sordi alle grida di dolore dei propri simili, non possiamo più accettare esseri umani ciechi davanti agli occhi disperati di propri simili che chiedono indulgenza e pace. Abbiamo chiesto senso di responsabilità a chi può fermare la guerra e non lo fa. Abbiamo chiesto il coraggio della pace nella verità e nella giustizia. E ci sarà giustizia vera quando ogni essere umano non avrà fame e sete, se potrà vivere in sicurezza nella sua terra e nella sua casa, godere dei diritti umani essenziali come la salute fisica e mentale, se gli sarà offerto un livello di istruzione che gli consenta di esprimere il suo pensiero e libertà di agire nella legalità, se gli saranno concessi il rispetto e la dignità dovuti a ogni essere umano.

Abbiamo chiesto agli organismi internazionali di applicare le leggi di diritto internazionale già esistenti per tutelare tutta la “comunità umana”. Non ci siano criteri diversi di applicazione ma siano garantiti i diritti umani essenziali a ogni cittadino del mondo. Abbiamo chiesto alla comunità internazionale maggiore presenza, controllo, autorevolezza per evitare privilegi e interessi e per fermare la catastrofe. Abbiamo chiesto di limitare la fabbricazione, l’uso e il commercio delle armi per non dare ancora strumenti di morte a mani fratricide. Dopo un anno di guerra sta venendo meno la speranza perché viviamo nella violenza quotidiana e non vediamo e non sentiamo condannare e fermare la guerra. Lavorare per la pace significa impegnarsi per affrontare e per risolvere la gravità della guerra, senza girarsi di spalle davanti a un bambino che muore, senza rimandare la possibile salvezza di tante vite, senza aspettare ancora di sfamare e di soccorrere chi ha perso tutto ma che ha diritto al rispetto della dignità umana. La pace fino a ora è stata desiderata, sperata, immaginata.

Mai avrei pensato che la guerra iniziata con il terribile attacco del 7 ottobre potesse così tanto allungarsi nei tempi e allargarsi e dilatarsi dal sud fino al nord di questa importante area geografica. L’amata Terra Santa è stretta in una spirale di violenza che parte da lontano e allarga sempre e ancora il raggio di azione. La guerra distrugge le case costruite con sacrificio e con le mani da uomini responsabili di altre vite. Case che custodivano storie di famiglie e sentimenti, gioie e dolori, ora sono un cumulo di macerie. È incomprensibile allontanare un popolo dalla propria terra, distruggendo e uccidendo, spingendo i sopravvissuti verso luoghi sconosciuti, affrontando pericoli e insicurezze, vivendo nella paura, nella sofferenza e nel disagio.

La pace si concretizza offrendo il diritto allo studio a bambini e a ragazzi che vivono la curiosità e l’entusiasmo dei loro anni. Questo diritto essenziale è stato negato a Gaza dove sono morti 15.000 bambini e ragazzi, dove si sono interrotti bruscamente i percorsi scolastici di centinaia di migliaia di studenti e dove 39.000 ragazzi non hanno potuto affrontare gli esami di maturità alla fine dello scorso anno scolastico. Quando ricomincerà un nuovo anno scolastico a Gaza? Più di 42.000 morti, più di 96.000 feriti e un numero non calcolabile di dispersi sotto le macerie: ogni morto innocente non rappresenta solo un numero del triste bilancio di questa tragedia. Ci sono storie di vita dietro numeri tanto alti di morti, di feriti, di dispersi, di sopravvissuti che dovranno affrontare dolore e sofferenza per il resto dei loro giorni. Possiamo e dobbiamo solo implorare il Dio di tutti, che è Dio di amore, di illuminare le menti di tutti i governanti del mondo intero. Che ognuno di essi sia responsabile e si faccia veramente carico dei bisogni essenziali della vita delle persone.

Le guerre devono essere abolite, eliminate, perché la guerra non può far parte della storia dell’uomo e dei suoi valori universali. La guerra è sempre una sconfitta come dice Papa Francesco. È uno scandalo non fermare la guerra ed è immorale distruggere il futuro di tanti per gli interessi del presente di pochi. Desiderare la pace è un diritto e, allo stesso tempo, un dovere per l’umanità e la pace è il suo progetto di vita più coraggioso.
p. Ibrahim Faltas
Vicario custodiale
(fonte: L'Osservatore Romano 04 ottobre 2024)


Docenti precari: perché l’UE ha deferito l’Italia. Boom in 7 anni, +134%

Docenti precari: perché l’UE ha deferito l’Italia. Boom in 7 anni, +134%

Il numero di docenti con contratto a tempo determinato è esploso negli ultimi anni.
La sequenza è impressionante: erano 100 mila nel 2015-16, 135 mila nel 2017-18, 212 mila nel 2020-21, fino ai 235 mila del 2022-23 (ultimi dati disponibili, ascrivibili alla gestione dell’ex ministro dell’istruzione Bianchi, Governo Draghi).
Nel 2015 erano precari il 12% degli insegnanti, nel 2022 il 25%.
Di fronte a questo trend (+135 mila precari in un settennio) evidentemente la Commissione europea ha detto “basta”.
Il fenomeno non è omogeneo sul territorio: a fronte di un tasso di precarietà del 25% a livello nazionale, a Milano raggiungono il 37%, a Lodi addirittura il 43%. Più bassa l’incidenza al sud: a Napoli il 20%, ad Agrigento il 10%

L’analisi di Tuttoscuola

I numeri sono allarmanti, tanto da richiedere un intervento da parte della Commissione Europea che in queste ore ha deferito l’Italia alla Corte di Giustizia dell’Ue perché non ha posto fine, come richiesto, all’uso “abusivo” di contratti a tempo determinato e a condizioni di lavoro “discriminatorie” nella scuola. In pochissimi anni il numero di supplenti in cattedra è infatti aumentato a dismisura gettando spesso le scuole nel caos.
Secondo l’analisi di Tuttoscuola sui dati MIM, nel 2015-16 i docenti supplenti nelle scuole statali con contratto a tempo determinato, annuale o fino al termine delle lezioni (30 giugno), erano stati complessivamente poco più di 100mila, il 12% di tutti i docenti in servizio in quell’anno. Da quell’anno il numero di supplenti è andato aumentando in valori assoluti e percentuali, tanto da arrivare nel 2022-23 (ultimo anno di pubblicazione dei dati ufficiali da parte del Ministero) ad oltre il doppio, quasi 235mila, un quarto di tutti i docenti in servizio.

In particolare – in base all’elaborazione di Tuttoscuola dei dati MIM – è il numero dei docenti di sostegno precari ad essere fuori controllo: è aumentato di 92 mila unità in 7 anni (+250%).
Ma il fenomeno riguarda anche gli altri insegnanti (posti comuni): +42 mila (+66%).

Complessivamente il numero di docenti con contratto a tempo determinato su posti comuni e di sostegno è salito da 100.277 del 2015-16 a 234.576 nel 2022-23 con un incremento di quasi 135mila unità.


Ma quali sono le province italiane con il maggior numero di supplenti?

Tuttoscuola analizzando i dati dei docenti con contratto a tempo determinato (annuali o fino al 30 giugno), relativi all’anno scolastico 2022-23 e pubblicati sul Portale Unico del Ministero dell’Istruzione e del Merito, ha rilevato anche le situazioni delle singole province per quanto riguarda sia la quantità complessiva dei contratti attivati sia l’incidenza rispetto al numero di cattedre e posti funzionanti. Sono le grandi province con città metropolitane a registrare il più elevato numero di contratti per docenti supplenti: Roma è in testa con 16.542 supplenti, seguita da Milano con 15.469, Torino con 11.030, Napoli con 10.716. È, invece, interessante conoscere l’incidenza del numero di supplenti rispetto al numero delle cattedre e dei posti funzionanti, perché rappresenta la situazione di precarietà delle scuole nella provincia italiana.

È la provincia di Lodi ad avere la percentuale più alta (42,6%) di supplenti (1.254) in rapporto al numero delle cattedre e dei posti di varia tipologia (2.941) funzionanti, seguita da Novara con il 40,3% (1.914 supplenti su 4.755 cattedre). In una situazione diametralmente opposta per ridotta incidenza di supplenti si trovano Agrigento con il 10,4% e Caserta con il 10,9%. Le province delle grandi città metropolitane con elevato numero di supplenti hanno registrato questa incidenza: Milano 37,2% (15.469 supplenti su 41.618 posti-cattedra), Torino 33,7% (11.030 supplenti su 32.740 posti-cattedra), Roma 28,4% (16.542 supplenti su 58.156 posti cattedra), Napoli 20,6% (10.716 supplenti su 51.937 posti-cattedra).

La top-ten vede presenti quattro province lombarde (Lodi, Mantova, Milano e Monza), quattro province piemontesi (Novara, Alessandria, Biella e Verbano-Cusio-Ossola) e due province emiliano-romagnole (Reggio E. e Rimini).


Anche per il personale ATA i supplenti sono in aumento costante

Si potrebbe pensare che il continuo incremento di supplenti dipenda in massima parte dai contratti a tempo determinato, annuali e in deroga, sui posti di sostegno, ma, se si pone attenzione ai supplenti ATA (collaboratori scolastici e amministrativi), dove il sostegno non ha alcuna incidenza, anche per questa tipologia di personale c’è un forte incremento.

In base ai dati relativi al 2022-23 pubblicati sul Portale unico del MIM, elaborati da Tuttoscuola, nel 2022-23 i supplenti con contratto annuale (13.982) o fino al termine del 30 giugno (36.439) sono stati complessivamente 50.421 su un totale di 232.972 ATA in servizio, pari al 21,6%.

Andando a ritroso fino al 2016-17, allora la percentuale era del 10,7%, la metà di quella registrata sette anni dopo.


Evidentemente il problema del precariato riguarda tutto il personale scolastico (docenti e personale ATA) e chiama in causa fattori comuni ad entrambi i settori, a cominciare dalla cronica lentezza delle modalità di reclutamento. Ma indubbiamente il “braccino corto” del MEF nell’autorizzare i posti da mettere a concorso e nel consentire la conversione di posti a termine in posti pieni concorre a mantenere aperto il precariato scolastico. Anzi lo ha fatto esplodere.

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San Francesco, umile ma gigante visionario

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Francesco continua a far parlare di sé nonostante siano trascorsi quasi 800 anni dalla sua morte.

Fiumi di inchiostro alimentano continue riflessioni sulla vita del poverello di Assisi. Come di solito accade per tutti i giganti, le riflessioni sono state spesso contraddittorie: in maggioranza c’è chi ne esalta l’aspetto spirituale, una parte poco credibile invece ha tentato di sollevare critiche considerandolo una operazione mediatica veicolata prima dalla Chiesa del 1200 e dopo dalla politica.
Una cosa è certa: l’esempio di Francesco vive ancora tra le famiglie ed i giovani. Lo dimostra la presenza di tanti giovani e famiglie che ogni anno si ritrovano ad Assisi per la festa del Perdono.

Francesco è il Santo più rappresentato in opere cinematografiche e letterarie, è il più conosciuto al mondo, amato da tutti, persino dagli atei anticlericali. L’attore Giovanni Scifoni, nella sua ultima rappresentazione, restituisce un ritratto tanto eccezionale quanto umano di san Francesco. Azzarda definendolo “una pop star medioevale”: Francesco predicava e affascinava immense folle, parlava con gli animali, recitava ed improvvisava in francese, utilizzava i movimenti del corpo, perfino la propria malattia e il dolore fisico, per raccontare il mistero di Dio. Insomma, Francesco era capace di arrivare a ogni tipo di ascoltatore, grazie alla gestualità, alla mimica, all’intonazione.

Francesco è l’esempio di come ci si possa convertire in qualsiasi momento. Egli, da giovane che sperimenta la frammentarietà esistenziale perché attratto ad idolatrare se stesso, diviene giovane che scopre la sua vera identità aperta ad accogliere gli emarginati. Papa Francesco lo definisce l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità. … In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore (cfr: Enciclica Laudato sì)

Francesco è un gigante del desiderio celeste. Entrando nella Porziuncola ancora oggi riecheggiano nell’aria le parole che Francesco pronunziò nel 1216 al cospetto di Papa Onorio III “Padre Santo non domando anni, ma anime” e “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso”. In quel preciso istante Francesco anticipò il Giubileo che tra qualche mese la chiesa universale sarà chiamata a celebrare. A distanza di più di 800 anni sarà ancora la richiesta di misericordia (guarigione e liberazione dal peccato) avanzata da Francesco a Papa Onorio III come il faro dell’imminente anno giubilare che ci apprestiamo a vivere.

Francesco è un instancabile visionario, che ha remato in direzione ostinata e contraria, senza mai farsi tentare dagli echi ammalianti e seducenti del compromesso. Quanto gli importasse del giudizio degli altri? Non lo possiamo sapere. Ciò di cui si è convinti è che fu l’uomo dell’ascolto e del dialogo. Nel Cantico di Frate Sole, Francesco ci insegna che per superare i conflitti bisogna “guardare oltre”, senza continuare ad esaminare soltanto l’oggetto del contendere. Come si può pensare di condurre negoziati applicando alle parti in causa categorie mentali che ad esse non appartengono? Se fosse ancora in vita, sicuramente questo sarebbe stato il messaggio che Francesco avrebbe rivolto ai Potenti della Terra, per dirimere i conflitti in atto.

Questo è Francesco: uomo coraggioso e libero di osare. Ed è per questo che ancora oggi è parte della nostra vita.
(fonte: Sir, articolo di Marco Valeri 03/10/2024)


giovedì 3 ottobre 2024

SINODO DEI VESCOVI - Intervento di Papa Francesco all'apertura dei lavori - Lo Spirito Santo ci guidi per dare una risposta, dopo tre anni di cammino, alla domanda come essere Chiesa sinodale missionaria. Io aggiungerei misericordiosa. (foto, testi e video)

SECONDA SESSIONE DELLA
XVI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI (2-27 ottobre 2024)
PRIMA CONGREGAZIONE GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 2 ottobre 2024


Diario del Sinodo, l'esercizio collegiale e sinodale del ministero episcopale

Il “secondo tempo” della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dedicato alla sinodalità ha preso il via con la Messa che il Papa ha presieduto questa mattina sul sagrato della Basilica Vaticana

La XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi | | Daniel Ibanez CNA

Il “secondo tempo” della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dedicato alla sinodalità ha preso il via con la Messa che il Papa ha presieduto questa mattina sul sagrato della Basilica Vaticana.

Al termine dell’omelia il Papa – la cui preghiera per la pace non ha mai conosciuto sosta – ha annunciato l’intenzione per domenica 6 ottobre di recarsi nella Basilica di Santa Maria Maggiore per la recita del Rosario per la pace, mentre il giorno successivo ha invitato ad aderire ad una giornata di digiuno e preghiera.

L’attenzione di tutti si è poi spostata nell’Aula Paolo VI dove anche quest’anno si svolgono i lavori dell’Assemblea che – almeno visivamente, per la disposizione dei tavoli ma anche per le pause di silenzio e meditazione – ricorda molto le congregazioni generali della Compagnia di Gesù, da cui il Papa proviene.

Nel suo intervento alla prima congregazione generale davanti a 350 membri, Papa Francesco – dopo aver ricordato come il Sinodo sia cambiato dalla sua istituzione da parte di Paolo VI nel 1965 - prova a fare chiarezza e spiega le motivazioni che lo hanno spinto a introdurre come membri a pieno titolo dell’assemblea sinodale anche laici, sia uomini che donne, e non solo vescovi.

“Quando ho deciso – ha raccontato Papa Francesco - di convocare come membri a pieno titolo di questa XVI Assemblea anche un numero significativo di laici e consacrati , diaconi e presbiteri, sviluppando quanto già in parte previsto per le precedenti Assemblee, l’ho fatto in coerenza con la comprensione dell’esercizio del ministero episcopale espressa dal Concilio Vaticano II: il Vescovo, principio e fondamento visibile di unità della Chiesa particolare, non può vivere il proprio servizio se non nel Popolo di Dio, con il Popolo di Dio, precedendo, stando in mezzo, e seguendo la porzione del Popolo di Dio che gli è affidata. Questa comprensione inclusiva del ministero episcopale chiede di essere manifestata e resa riconoscile evitando due pericoli: il primo l’astrattezza che dimentica la concretezza fertile dei luoghi e delle relazioni, e il valore di ogni persona; il secondo pericolo è quello di spezzare la comunione contrapponendo gerarchia a fedeli laici. Non si tratta certo di sostituire l’una con gli altri. Ci è chiesto invece di esercitarci insieme in un’arte sinfonica”.

Ma il passaggio più delicato il Papa lo ha affrontato subito dopo, quando ha ricordato che “mai il Vescovo, come ogni altro cristiano, può pensarsi senza l’altro. Come nessuno si salva da solo, l’annuncio della salvezza ha bisogno di tutti, e che tutti siano ascoltati. La presenza all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi di membri che non sono Vescovi non fa venir meno la dimensione episcopale dell’Assemblea”.

Poi il Papa – verrebbe da dire – ha forse anticipato una delle conclusioni a cui mira questa sessione sinodale. “Si dovranno individuare, in tempi adeguati, diverse forme – ha detto il Pontefice - di esercizio collegiale e sinodale del ministero episcopale sempre rispettando il deposito della fede e la Tradizione viva, sempre rispondendo a quello che lo Spirito chiede alle Chiese in questo tempo particolare e nei diversi contesti in cui esse vivono e non dimentichiamo che lo Spirito è l’armonia, è una armonia esistenziale”.
(fonte: ACI Stampa, articolo di Marco Mancini 02/10/2024)

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Papa Francesco ha aperto i lavori della Seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi

Un’arte sinfonica al servizio della misericordia


«Ci è chiesto di esercitarci insieme in un’arte sinfonica, in una composizione che tutti accomuna nel servizio alla misericordia di Dio, secondo i differenti ministeri e carismi che il vescovo ha il compito di riconoscere e promuovere». Così ieri pomeriggio Papa Francesco ha introdotto nell’Aula Paolo VI i lavori della prima Congregazione generale della Seconda sessione della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, dedicata al tema della sinodalità. Dal Pontefice è giunto anche un richiamo all’umiltà come «dono dello Spirito Santo» che «permette di guardare il mondo riconoscendo di non essere meglio degli altri».

Oltre all’intervento del Pontefice, che ha offerto in dono ai partecipanti un breve testo contenente passaggi delle omelie di Macario Alessandrino, hanno caratterizzato i lavori le relazioni dei cardinali Grech e Hollerich, rispettivamente segretario generale del Sinodo e relatore generale dell’Assemblea, e la presentazione dei risultati del lavoro di alcuni gruppi di studio: cammino ecumenico; relazioni tra Chiese orientali cattoliche e Chiesa latina; grido dei poveri; servizio di vescovi, preti e diaconi e relazione con il Popolo di Dio; formazione alla sinodalità; ambiente digitale; rapporti tra Chiese locali, funzione dell’istituto del Sinodo; servizio dell’unità che compete al Vescovo di Roma; questioni dottrinali, pastorali ed etiche "controverse”; ministeri nella Chiesa e rapporti tra carismi e ministeri.
(fonte: L'Osservatore Romano 03/10/2024)

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INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Cari fratelli e sorelle,

Da quando la Chiesa di Dio è stata “convocata in Sinodo”, nell’ottobre 2021, abbiamo percorso assieme una parte del lungo cammino al quale Dio Padre chiama da sempre il suo popolo, inviandolo tra tutte le genti a portare il lieto annuncio che Gesù Cristo è la nostra pace (Efesini 2,14) e confermandolo nella missione con il Santo Spirito.

Questa Assemblea, guidata dallo Spirito Santo, che “piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch’è sviato”, dovrà offrire il suo contributo perché si realizzi una Chiesa sinodale in missione, che sappia uscire da se stessa e abitare le periferie geografiche ed esistenziali avendo cura di stabilire legami con tutti in Cristo nostro Fratello e Signore.

C’è un testo di un autore spirituale del IV secolo [1] che potrebbe riassumere cosa avviene quando lo Spirito Santo è messo nella condizione di operare a partire dal Battesimo che genera tutti in eguale dignità. Le esperienze che descrive ci permettono di riconoscere quanto è avvenuto in questi tre anni, e quanto potrà ancora avvenire.

La riflessione di questo autore spirituale ci aiuta a comprendere che lo Spirito Santo è guida sicura, e nostro primo compito è imparare a distinguere la sua voce, perché Egli parla in tutti e in tutte le cose e questo processo sinodale ce ne ha fatto fare esperienza.

Lo Spirito Santo ci accompagna sempre. È consolazione nella tristezza e nel pianto, soprattutto quando– proprio per l’amore che nutriamo per l’umanità – di fronte alle cose che non vanno bene, alle ingiustizie che prevalgono, all’ostinazione con cui ci opponiamo a rispondere con il bene di fronte al male, alla fatica di perdonare, all’assenza di coraggio nel cercare la pace, siamo presi dallo sconforto, ci sembra che non ci sia più niente da fare e ci consegniamo alla disperazione. Così come la speranza è la virtù più umile ma più forte, la disperazione è il peggio, più forte.

Lo Spirito Santo asciuga le lacrime e consola perché comunica la speranza di Dio. Dio non si stanca, perché il Suo amore non si stanca.

Lo Spirito Santo penetra in quella parte di noi che spesso è tanto simile alle aule dei tribunali, dove mettiamo gli imputati alla sbarra e formuliamo i nostri giudizi, per lo più di condanna. Proprio questo autore, nella sua omelia, ci dice che lo Spirito Santo accende in quanti lo ricevono un fuoco, il «fuoco di tanta gioia e amore, che se fosse possibile prenderebbero nel loro cuore tutti, buoni e cattivi, senza distinzione alcuna». Questo perché Dio accoglie tutti, sempre, non dimentichiamo: tutti, tutti, tutti e sempre, e a tutti offre nuove possibilità di vita, fino all’ultimo momento. È per questo che noi dobbiamo perdonare tutti e sempre, consapevoli che la disposizione a perdonare nasce dell’esperienza di essere stati perdonati. Soltanto uno può non perdonare: colui che non è stato perdonato.

Ieri, durante la veglia penitenziale abbiamo fatto questa esperienza. Abbiamo chiesto perdono, abbiamo riconosciuto di essere peccatori. Abbiamo messo da parte l’orgoglio, ci siamo distaccati dalla presunzione di sentirci migliori degli altri. Siamo diventati più umili?

Anche l’umiltà è dono dello Spirito Santo: dobbiamo chiederlo. L’umiltà, come dice l’etimologia della parola, ci restituisce alla terra, all’humus, e ci ricorda l’origine, dove senza il soffio del Creatore saremmo rimasti fango senza vita. L’umiltà ci permette di guardare il mondo riconoscendo di non essere meglio degli altri. Come dice san Paolo: «Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,16). E non si può essere umili senza amore. I cristiani dovrebbero essere come quelle donne descritte da Dante Alighieri in un sonetto, donne che hanno il dolore nel cuore per la perdita del padre della loro amica Beatrice: «Voi che portate la sembianza umile, con gli occhi bassi, mostrando dolore» (Vita Nuova, XXII, 9). Questa è l’umiltà solidale e compassionevole, di chi si sente fratello e sorella di tutti, patendo lo stesso dolore, e riconoscendo nelle ferite e nelle piaghe di ognuno, le ferite e le piaghe di nostro Signore.

Vi invito a meditare in preghiera su questo bel testo spirituale e a riconoscere che la Chiesa - semper reformanda - non può camminare e rinnovarsi senza lo Spirito Santo e le sue sorprese; senza lasciarsi modellare dalle mani del Dio creatore, del Figlio, Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, come ci insegna Sant’Ireneo di Lione (Contro le eresie, IV, 20, 1).

Infatti, da quando, in principio, Dio trasse dalla terra l’uomo e la donna; da quando Dio chiamò Abramo a essere benedizione per tutti i popoli della terra e chiamò Mosè a condurre attraverso il deserto un popolo liberato dalla schiavitù; da quando la Vergine Maria accolse la Parola che la rese Madre del Figlio di Dio secondo la carne e Madre di ogni discepolo e di ogni discepola di suo Figlio; da quando il Signore Gesù, crocifisso e risorto, effuse il suo Santo Spirito nella Pentecoste: da allora siamo in cammino, come dei “misericordiati”, verso il pieno e definitivo compimento dell’amore del Padre. E non dimentichiamo quella parola: siamo misericordiati.

Conosciamo la bellezza e la fatica del cammino. Lo percorriamo assieme, come popolo che, anche in questo tempo, è segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (LG 1). Lo percorriamo con e per ogni uomo e ogni donna di buona volontà, in ciascuno dei quali lavora invisibilmente la grazia (GS 22). Lo percorriamo convinti dell’essenza relazionale della Chiesa, vigilando affinché le relazioni che ci sono donate e che sono affidate alla nostra responsabilità e alla nostra creatività siano sempre manifestazione della gratuità della misericordia. Un sedicente cristiano che non entri nella gratuità e nella misericordia di Dio, è semplicemente un ateo travestito da cristiano. La misericordia di Dio ci fa affidabili e responsabili.

Sorelle, fratelli, percorriamo questo cammino sapendo di essere chiamati a riflettere la luce del nostro sole, che è Cristo, come pallida luna che assume fedelmente e gioiosamente la missione di essere per il mondo sacramento di quella luce, che non brilla da noi stessi.

La XVI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, giunta ora alla Seconda Sessione, sta rappresentando in modo originale questo “camminare insieme” del popolo di Dio.

L’ispirazione colta da Papa San Paolo VI, quando nel 1965 ha istituito il Sinodo dei Vescovi, si è rivelata assai feconda. Nei sessant’anni da allora trascorsi abbiamo imparato a riconoscere nel Sinodo dei Vescovi un soggetto plurale e sinfonico capace di sostenere il cammino e la missione della Chiesa cattolica, aiutando in modo efficace il Vescovo di Roma nel suo servizio alla comunione di tutte le Chiese e della Chiesa tutta.

San Paolo VI era ben consapevole che «questo Sinodo, come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato» (Apostolica Sollicitudo). La Costituzione apostolica Episcopalis communio ha inteso far tesoro dell’esperienza delle diverse Assemblee sinodali (ordinarie, straordinarie, speciali), configurando in modo esplicito l’Assemblea sinodale come processo e non solo come evento.

Il processo sinodale è anche un processo di apprendimento, nel corso del quale la Chiesa impara a conoscere meglio se stessa e a individuare le forme di azione pastorale più adeguate alla missione che il suo Signore le affida. Questo processo di apprendimento coinvolge anche le forme di esercizio del ministero dei pastori, in particolare dei vescovi.

Quando ho deciso di convocare come membri a pieno titolo di questa XVI Assemblea anche un numero significativo di laici e consacrati (uomini e donne), diaconi e presbiteri, sviluppando quanto già in parte previsto per le precedenti Assemblee, l’ho fatto in coerenza con la comprensione dell’esercizio del ministero episcopale espressa dal Concilio Ecumenico Vaticano II: il Vescovo, principio e fondamento visibile di unità della Chiesa particolare, non può vivere il proprio servizio se non nel Popolo di Dio, con il Popolo di Dio, precedendo, stando in mezzo, e seguendo la porzione del Popolo di Dio che gli è stata affidata. Questa comprensione inclusiva del ministero episcopale chiede di essere manifestata e resa riconoscibile evitando due pericoli: il primo, l’astrattezza che dimentica la concretezza fertile dei luoghi e delle relazioni, e il valore di ogni persona; il secondo pericolo è quello di spezzare la comunione contrapponendo gerarchia a fedeli laici. Non si tratta certo di sostituire l’una con gli altri, eccitati dal grido: adesso tocca a noi! No, questo non va: “adesso tocca a noi laici”, “adesso tocca a noi preti”, no, non va questo. Ci è chiesto invece di esercitarci insieme in un’arte sinfonica, in una composizione che tutti accomuna nel servizio alla misericordia di Dio, secondo i differenti ministeri e carismi che il vescovo ha il compito di riconoscere e promuovere.

Camminare insieme, tutti, tutti, tutti è un processo nel quale la Chiesa, docile all’azione dello Spirito Santo, sensibile nell’intercettare i segni dei tempi (Gaudium et spes, 4), si rinnova continuamente e perfeziona la sua sacramentalità, per essere testimone credibile della missione a cui è chiamata, per radunare tutti i popoli della terra nell’unico popolo atteso alla fine, quando Dio stesso ci farà sedere al banchetto da Lui preparato (cfr Is 25,6-10).

La composizione di questa XVI Assemblea è quindi più che un fatto contingente. Essa esprime una modalità di esercizio del ministero episcopale coerente con la Tradizione viva delle Chiese e con l’insegnamento del Concilio Vaticano II: mai il Vescovo, come ogni altro cristiano, può pensarsi “senza l’altro”. Come nessuno si salva da solo, l’annuncio della salvezza ha bisogno di tutti, e che tutti siano ascoltati.

La presenza all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi di membri che non sono Vescovi non fa venir meno la dimensione “episcopale” dell’Assemblea. E questo lo dico per qualche tempesta di chiacchiericci che sono andati da una parte all’altra. Meno ancora pone qualche limite o deroga all’autorità propria del singolo Vescovo e del Collegio Episcopale. Essa piuttosto segnala la forma che è chiamato ad assumere l’esercizio dell’autorità episcopale in una Chiesa consapevole di essere costitutivamente relazionale e per questo sinodale. La relazione con Cristo e tra tutti in Cristo – quelli che ci sono e quelli che ancora non ci sono ma che sono attesi dal Padre - realizza la sostanza e modella in ogni tempo la forma della Chiesa.

Si devono individuare, in tempi adeguati, diverse forme di esercizio “collegiale” e “sinodale” del ministero episcopale (nelle Chiese particolari, nei raggruppamenti di Chiese, nella Chiesa tutta), sempre rispettando il deposito della fede e la Tradizione viva, sempre rispondendo a quello che lo Spirito chiede alle Chiese in questo tempo particolare e nei diversi contesti in cui esse vivono. E non dimentichiamo che lo Spirito è l’armonia. Pensiamo a quella mattina di Pentecoste: era un disordine tremendo, ma Lui faceva l’armonia, in quel disordine. Non dimentichiamo che Lui è proprio l’armonia: non è un’armonia sofisticata o intellettuale; è tutto, è un’armonia esistenziale.

È lo Spirito Santo a far sì che la Chiesa sia perennemente fedele al mandato del Signore Gesù Cristo e perennemente in ascolto della sua parola. Lo Spirito guida i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,13). Sta guidando anche noi, radunati nello Spirito Santo in questa Assemblea, per dare una risposta, dopo tre anni di cammino, alla domanda come essere Chiesa sinodale missionaria. Io aggiungerei misericordiosa.

Con il cuore pieno di speranza e di gratitudine, consapevole del compito impegnativo che vi è affidato (e che ci è affidato), auguro a tutti di aprirsi con disponibilità all’azione dello Spirito Santo, nostra guida sicura, nostra consolazione. Grazie.
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[1] Cfr Macario Alessandrino, Om. 18, 7-11: PG 34, 639-642.

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Vedi anche i post precedenti:

SINODO DEI VESCOVI Messa solenne di inaugurazione - La Chiesa in cammino sinodale per sperimentare la cultura dell’incontro (foto, testi e video)

APERTURA DELL’ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

SANTI ANGELI CUSTODI - SANTA MESSA

CAPPELLA PAPALE

Piazza San Pietro
Domenica, 2 ottobre 2024


La XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi - Seconda sessione

La Chiesa in cammino sinodale 
per sperimentare la cultura dell’incontro


Un tiepido sole d’autunno ha riscaldato, stamane 2 ottobre, memoria dei santi Angeli custodi, il sagrato della basilica Vaticana, dove Papa Francesco ha presieduto la messa inaugurale della Seconda sessione della xvi Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi. Poco dopo le 9, una lunga processione partita dal Braccio di Costantino si è snodata fino all’altare, addobbato da composizioni floreali di colore bianco: ministranti, delegati fraterni, laici e religiosi del Sinodo, hanno sfilato insieme a diaconi, concelebranti sacerdoti, vescovi e cardinali dell’assise.

Numerosi i fedeli presenti, circa 25.000. Visti dall’alto, formavano uno scacchiere colorato di abiti, quasi il simbolo dell’unità nella diversità che si vive nella Chiesa. Spiccava, in particolare, un gruppo di donne e bambini che indossavano una maglia gialla: erano una settantina di madri e figli dell’Ucraina, cattolici di rito latino, giunti in Italia con un pellegrinaggio organizzato dalla diocesi di Lutsk. Tra le loro mani, un piccolo quadro, con la scritta “L’Ucraina ricorda il Papa nelle sue preghiere”. Nelle prossime ore, si recheranno a Pompei, in occasione della Supplica alla Vergine del Rosario che si terrà domenica 6 ottobre. Francesco li ha salutati appena arrivato in piazza san Pietro e ha baciato la bandiera gialla e blu del Paese martoriato da oltre due anni di guerra.

L’invocazione alla pace ha fatto da filo conduttore all’intera celebrazione, animata dal coro della Cappella Sistina, guidato dal maestro Marco Pavan, e dal coro ospite della diocesi di Dresden-Meißen, i cui pellegrini sono stati ricevuti dal Pontefice prima dell’inizio della messa.

Dopo la lettura di un passo del Libro dell’Esodo (23, 20-23ª) e l’intonazione del Salmo 102, è stato proclamato il Vangelo di Matteo (18, 1-5.10), seguito da un momento di silenzio per lasciare spazio alla riflessione personale.

La parola “pace” è quindi tornata a risuonare nell’omelia di Papa Francesco, della quale pubblichiamo il testo integrale in queste pagine, e ancora nella successiva Preghiera dei fedeli, le cui intenzioni sono state pronunciate in inglese, arabo, francese, cinese e tedesco.

In particolare, si è pregato per «la convivenza e la pace tra tutti i popoli», per la fine delle «tante sofferenze presenti nel mondo», per la custodia del creato e per uno sviluppo umano da realizzare attraverso «riconciliazione e giustizia».

Un’orazione specifica, inoltre, è stata dedicata alla Chiesa «in cammino sinodale», affinché «sperimenti una cultura dell’incontro capace di trasformare le distanze in prossimità e le diversità in accoglienza».

Dopo la distribuzione della comunione, il Santo Padre è tornato ad invocare il Signore affinché «ci guidi, con l’assistenza degli angeli, nella via della salvezza e della pace».

La celebrazione si è quindi conclusa con l’intonazione dell’antifona mariana “Sub tuum praesidium”. A bordo della papamobile, infine, Francesco ha compiuto un lungo giro di piazza San Pietro, salutando i tanti fedeli presenti.
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Isabella Piro 02/10/2024)

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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Oggi celebriamo la memoria liturgica dei Santi Angeli Custodi, e riapriamo la Sessione plenaria del Sinodo dei Vescovi. In ascolto di ciò che la Parola di Dio ci suggerisce, potremmo allora prendere spunto da tre immagini per la nostra riflessione: la voce, il rifugio e il bambino.

Primo, la voce. Nel cammino verso la Terra promessa, Dio raccomanda al popolo di ascoltare la “voce dell’angelo” che Lui ha mandato (cfr Es 23,20-22). È un’immagine che ci tocca da vicino, perché anche il Sinodo è un cammino, in cui il Signore mette nelle nostre mani la storia, i sogni e le speranze di un grande Popolo: di sorelle e fratelli sparsi in ogni parte del mondo, animati dalla nostra stessa fede, mossi dallo stesso desiderio di santità, affinché con loro e per loro cerchiamo di comprendere quale via percorrere per giungere là dove Lui ci vuole portare. Ma come possiamo, noi, metterci in ascolto della “voce dell’angelo”?

Una via è certamente quella di accostarci con rispetto e attenzione, nella preghiera e alla luce della Parola di Dio, a tutti i contributi raccolti in questi tre anni di lavoro, di condivisione, di confronto e di paziente sforzo di purificazione della mente e del cuore. Si tratta, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare e comprendere le voci, cioè le idee, le attese, le proposte, per discernere insieme la voce di Dio che parla alla Chiesa (cfr Renato Corti, Quale prete?, Appunti inediti). Come abbiamo più volte ricordato, la nostra non è un’assemblea parlamentare, ma un luogo di ascolto nella comunione, in cui, come dice San Gregorio Magno, ciò che qualcuno ha in sé parzialmente, è posseduto in modo completo in un altro e benché alcuni abbiano doni particolari, tutto appartiene ai fratelli nella “carità dello Spirito” (cfr Omelie sui Vangeli, XXXIV).

Perché ciò avvenga c’è una condizione: che ci liberiamo da quello che, in noi e tra noi, può impedire alla “carità dello Spirito” di creare armonia nella diversità. Non è in grado di sentire la voce del Signore chi con arroganza presume e pretende di averne l’esclusiva (cfr Mc 9,38-39). Ogni parola va accolta con gratitudine e con semplicità, per farsi eco di ciò che Dio ha donato a beneficio dei fratelli (cfr Mt 10,7-8). Nel concreto, badiamo a non trasformare i nostri contributi in puntigli da difendere o agende da imporre, ma offriamoli come doni da condividere, pronti anche a sacrificare ciò che è particolare, se ciò può servire a far nascere insieme qualcosa di nuovo secondo il progetto di Dio. Altrimenti finiremo per chiuderci in dialoghi tra sordi, dove ciascuno cerca di “tirare acqua al proprio mulino” senza ascoltare gli altri, e soprattutto senza ascoltare la voce del Signore.

Le soluzioni ai problemi da affrontare non le abbiamo noi, ma Lui (cfr Gv 14,6), e ricordiamoci che nel deserto non si scherza: se non si presta attenzione alla guida, presumendo di bastare a sé stessi, si può morire di fame e di sete, trascinando con sé anche gli altri. Mettiamoci dunque in ascolto della voce di Dio e del suo angelo, se davvero vogliamo procedere sicuri nel nostro cammino al di là dei limiti e delle difficoltà (cfr Sal 23,4).

E questo ci porta alla seconda immagine: il rifugio. Il simbolo è quello delle ali che custodiscono: «sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). Sono strumenti potenti le ali, capaci di sollevare un corpo da terra coi loro movimenti vigorosi. Però, pur così forti, possono anche abbassarsi e raccogliersi, facendosi scudo e nido accogliente per i piccoli, bisognosi di calore e di protezione.

Questo è un simbolo di ciò che Dio fa per noi, ma è anche un modello da seguire, in particolare in questo momento assembleare. Tra noi, cari fratelli e sorelle, ci sono molte persone forti, preparate, capaci di sollevarsi in alto con i movimenti vigorosi di riflessioni e intuizioni geniali. Tutto ciò è una ricchezza, che ci stimola, ci spinge, ci costringe a volte a pensare in modo più aperto e ad andare avanti con decisione, come pure ci aiuta a rimanere saldi nella fede anche di fronte a sfide e difficoltà. Il cuore aperto, il cuore in dialogo. Non è dello Spirito del Signore un cuore chiuso nelle proprie convinzioni, questo non è del Signore. È un dono l’aprirsi, un dono che va unito, a tempo opportuno, alla capacità di rilassare i muscoli e di chinarsi, per offrirsi gli uni agli altri come abbraccio accogliente e luogo di riparo: per essere, come diceva San Paolo VI, «una casa […] di fratelli, un’officina d’intensa attività, un cenacolo di ardente spiritualità» (Discorso al Consiglio di Presidenza della C.E.I., 9 maggio 1974).

Ciascuno, qui, si sentirà libero di esprimersi tanto più spontaneamente e liberamente, quanto più percepirà attorno a sé la presenza di amici che gli vogliono bene e che rispettano, apprezzano e desiderano ascoltare ciò che ha da dire.

E questa per noi non è solo una tecnica di “facilitazione” – è vero che nel Sinodo ci sono i “facilitatori”, ma questo è per aiutare ad andare avanti meglio –, non è solo una tecnica di facilitazione del dialogo o una dinamica di comunicazione di gruppo: abbracciare, proteggere e prendersi cura è infatti parte stessa dell’indole della Chiesa. Abbracciare, proteggere e prendersi cura. La Chiesa è per sua vocazione luogo ospitale di raccolta, dove «la carità collegiale esige una perfetta armonia, da cui risulta la sua forza morale, la sua bellezza spirituale, la sua esemplarità» (ivi). Quella parola è molto importante, l’“armonia”. Non c’è maggioranza, minoranza; questo può essere un primo passo. Quello che importa, quello che è fondamentale è l’armonia, l’armonia che può fare solo lo Spirito Santo. È il maestro dell’armonia, che con tante differenze è capace di creare una sola voce, con tante voci diverse. Pensiamo alla mattina di Pentecoste, come lo Spirito ha creato quell’armonia nelle differenze. La Chiesa ha bisogno di “luoghi pacifici e aperti”, da creare prima di tutto nei cuori, in cui ciascuno si senta accolto come figlio in braccio a sua madre (cfr Is 49,15; 66,13) e come bimbo sollevato alla guancia dal padre (cfr Os 11,4; Sal 103,13).

Ed eccoci così alla terza immagine: il bambino. È Gesù stesso, nel Vangelo, a “metterlo nel mezzo”, a mostrarlo ai discepoli, invitandoli a convertirsi e a farsi piccoli come lui. Loro gli avevano chiesto chi fosse il più grande nel regno dei cieli: Lui risponde incoraggiandoli a farsi piccoli come un bambino. Ma non solo: aggiunge anche che accogliendo un bambino nel suo nome si accoglie Lui (cfr Mt 18,1-5).

E per noi questo paradosso è fondamentale. Il Sinodo, data la sua importanza, in un certo senso ci chiede di essere “grandi” – nella mente, nel cuore, nelle vedute –, perché sono “grandi” e delicate le questioni da trattare, e ampi, universali gli scenari entro cui esse si collocano. Ma proprio per questo non possiamo permetterci di staccare gli occhi dal bambino, che Gesù continua a mettere al centro delle nostre riunioni e dei nostri tavoli di lavoro, per ricordarci che l’unica via per essere “all’altezza” del compito che ci è affidato, è quella di abbassarci, di farci piccoli e di accoglierci a vicenda come tali, con umiltà. Il più alto nella Chiesa è quello che si abbassa di più.

Ricordiamoci che è proprio facendosi piccolo che Dio ci «dimostra che cosa sia la vera grandezza, anzi, che cosa voglia dire essere Dio» (Benedetto XVI, Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 11 gennaio 2009). Non a caso Gesù dice che gli angeli dei bambini «vedono sempre la faccia del Padre […] che è nei cieli» (Mt 18,10): che sono, cioè, come un “telescopio” dell’amore del Padre.

Fratelli e sorelle, riprendiamo questo cammino ecclesiale con uno sguardo rivolto al mondo, perché la comunità cristiana è sempre a servizio dell’umanità, per annunciare a tutti la gioia del Vangelo. Ce n’è bisogno, soprattutto in quest’ora drammatica della nostra storia, mentre i venti della guerra e i fuochi della violenza continuano a sconvolgere interi popoli e Nazioni.

Per invocare dall’intercessione di Maria Santissima il dono della pace, domenica prossima mi recherò nella Basilica di Santa Maria Maggiore dove reciterò il santo Rosario e rivolgerò alla Vergine un’accorata supplica; se possibile, chiedo anche a voi, membri del Sinodo, di unirvi a me in quell’occasione.

E, il giorno dopo, 7 ottobre, chiedo a tutti di vivere una giornata di preghiera e di digiuno per la pace nel mondo.

Camminiamo insieme. Mettiamoci in ascolto del Signore. E lasciamoci condurre dalla brezza dello Spirito.

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