Il 24 marzo la giornata dei missionari martiri. Donne e uomini di misericordia
Donatella Coalova
Presi da un’ardente passione per Cristo e per i più poveri, spinti dal desiderio di comunicare vita e speranza a chi soffre nelle estreme periferie del mondo, tanti missionari anche oggi si donano completamente, fino a sacrificare la propria esistenza. La XXIV Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, che quest’anno si focalizza sul tema Donne e uomini di misericordia, ci invita ad accogliere la testimonianza di questi risoluti «evangelizzatori con Spirito» (cfr. Evangelii gaudium, 259), per custodire nel cuore il loro messaggio e prolungare con la nostra azione la loro opera.
L’iniziativa, portata avanti dalla Fondazione Missio (l’organismo della Conferenza episcopale italiana per il sostegno e la promozione della dimensione missionaria), è ampiamente radicata e diffusa nelle diocesi italiane. Si tiene il 24 marzo, nel giorno in cui ricorre l’anniversario dell’assassinio del beato Óscar Arnulfo Romero. L’arcivescovo salvadoregno, ucciso nel 1980 sull’altare, come già san Stanislao di Cracovia e san Thomas Becket di Canterbury, poco prima di morire aveva detto: «Possa il sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo e il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo». Come lui, tanti altri operatori pastorali hanno trovato la forza di non essere «cani muti, incapaci di abbaiare» (Isaia, 56, 10). Così hanno servito la Parola con coerenza, con determinazione, con parresia. Fedeli all’ispirazione evangelica, e non per ragioni ideologiche, hanno scoperto nei poveri il luogo teologico in cui Dio si manifesta, il roveto ardente da cui il Signore ci parla. Curando con amore le piaghe degli ultimi della terra, hanno avuto la consapevolezza di toccare i lividi e le ferite di Cristo, di alleviare i terribili spasimi e l’arsura bruciante del Crocefisso. Questa è stata la missione di suor Anselm, di suor Marguerite, di suor Judith, di suor Reginette, le missionarie della Carità trucidate il 5 marzo scorso ad Aden, nello Yemen. Negli occhi e nel cuore ci resta la fotografia che le ritrae per l’ultima volta. Ammanettate, con la testa inzuppata di sangue, con un grembiulone da cucina ancora stretto ai fianchi, condividono fino in fondo la kenosis di Cristo e testimoniano silenziosamente l’amore più grande. Per loro non potrà mancare uno speciale ricordo nella giornata del 24 marzo, insieme alla memoria di tutti gli operatori pastorali uccisi l’anno scorso. Secondo il rapporto delle Pontificie opere missionarie presentato dall’agenzia Fides, nel 2015 sono stati uccisi nel mondo ventidue operatori pastorali: tredici sacerdoti, quattro religiose, cinque laici. Per il settimo anno consecutivo, il numero più elevato di omicidi si registra in America, dove sono stati assassinati otto operatori pastorali (sette sacerdoti e una religiosa). In Africa sono stati uccisi cinque operatori pastorali (tre preti, una religiosa, una laica), in Asia sette operatori pastorali (un sacerdote, due religiose, quattro laici), in Europa due sacerdoti. Più specificamente, queste morti violente sono avvenute in Messico, in Colombia, in Brasile, in Venezuela, in Argentina, in Nigeria, nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudafrica, in Kenya, in Siria, in India, in Bangladesh, nelle Filippine, in Spagna. «La maggior parte degli operatori pastorali — spiega l’agenzia Fides — è stata uccisa in seguito a tentativi di rapina o di furto, compiuti anche con ferocia, in contesti che denunciano il degrado morale, la povertà economica e culturale, la violenza come regola di comportamento, la mancanza di rispetto per la vita. In queste situazioni, simili a tutte le latitudini, i sacerdoti, le religiose e i laici uccisi vivevano nella normalità quotidiana la loro testimonianza: amministrando i sacramenti, aiutando i poveri e gli ultimi, curandosi degli orfani e dei tossicodipendenti, seguendo progetti di sviluppo o semplicemente tenendo aperta la porta della loro casa. E qualcuno è stato ucciso proprio dalle stesse persone che aiutava». Si tratta di una scia di sangue innocente che si unisce a quello del Signore per la salvezza del mondo. Una scia ancora più impressionante se si pensa che dal 2000 al 2015 sono stati uccisi nel mondo trecentonovantasei operatori pastorali, di cui cinque vescovi. A essi va purtroppo aggiunto il baratro di dolore causato dalla scomparsa di alcuni servitori della Parola di cui non si hanno più notizie, come è avvenuto per padre Paolo Dall’Oglio, sequestrato in Siria nel luglio 2013. Il Signore però sa dove si trova ciascuno di loro e sostiene con la forza della grazia chi è più intimamente innestato nella passione di Cristo. Così non esiste croce che non abbia una sua misteriosa fecondità. Lo attesta l’esempio dei testimoni scelti per questa giornata, tutti periti di morte violenta: padre Ezechiele Ramin, don Sandro Dordi, padre Fausto Tentorio, don Andrea Santoro, suor Leonella Sgorbati, san Massimiliano Maria Kolbe. A essi si unisce la figura del cardinale François Xavier Nguyên Van Thuân, che non fu ucciso, ma conobbe un lungo martirio, durato tredici anni, nelle prigioni vietnamite. Donne e uomini di misericordia, tutti condivisero con passione le gioie e le ansie delle genti che servirono, e affrontarono la sofferenza perdonando, con un amore più forte della morte. Non per finta padre Ezechiele Ramin, giovane missionario comboniano assassinato in Brasile nel 1985, aveva scritto: «Io, in questa Chiesa di cui Cristo è il capo, vorrei essere il cuore. Chiedo troppo? Chiedete alla Madonna che mi aiuti a essere cuore».
(fonte: L'Osservatore Romano, 24 marzo 2016)
«Mio zio mi ha insegnato a dire sempre con rispetto ciò che penso, a lottare per far valere i diritti di ciascuno e a condividere quello che possiamo con i poveri». È il tratto familiare del profilo dell’arcivescovo Óscar Arnulfo Romero tracciato dalla nipote Cecilia, che ha abbracciato Papa Francesco proprio a trentasei anni esatti dal martirio dello zio, al termine dell’udienza in piazza San Pietro segnata dalla preghiera per le vittime della strage di Bruxelles.
«Avevo diciotto anni quel 24 marzo 1980 — ricorda Cecilia Romero — e non dimentico il clima di terrore e anche il dolore di tutto il popolo salvadoregno per l’uccisione di un uomo che per tutti era punto di riferimento». Tanto che «la sua beatificazione, il 23 maggio 2015, è stato un evento di speranza e di riscatto per tutti» aggiunge Cecilia, accompagnata all’udienza dal marito Massimo e dall’ambasciatore di El Salvador in Italia, Sandra Elizabeth Alas Guidos. «L’eredità di monsignor Romero ci chiede di continuare a lottare per i diritti di ogni persona» ribadisce la donna...
Leggi tutto: Mio zio martire