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sabato 10 ottobre 2015

LA BIBBIA: NON TEOLOGIA DELL'UOMO, MA ANTROPOLOGIA DI DIO SULLA CONCEZIONE BIBLICA DELL'UMANO di Bruno Forte

LA BIBBIA: NON TEOLOGIA DELL'UOMO, 
MA ANTROPOLOGIA DI DIO 
SULLA CONCEZIONE BIBLICA DELL'UMANO 
di Bruno Forte,
Arcivescovo di Chieti-Vasto

Cortile di Francesco, 

Sacro Convento di Assisi, 

25 Settembre 2015

1. L’antropologia nel dominio dell’identità: l’ideologia moderna - 2. L’antropologia della solitudine insuperabile: il nichilismo -
3. L’antropologia dell’eternità nel tempo: l’umanesimo biblico -
4. Umanesimo e umanesimi - 
5. Il nuovo umanesimo cristiano fra dialogo e annuncio



È un autentico vertice della rivelazione biblica il versetto in cui il profeta Michea presenta la vocazione della creatura umana alla luce della fede nel Dio della storia della salvezza: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,8). Il contesto è quello di un rimprovero d’amore: il Signore, che ha fatto tanto per la salvezza del Suo popolo, si rattrista di non essere riamato - “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho stancato? Rispondimi. Forse perché ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, ti ho riscattato dalla condizione servile?” (6,3-4) -, e il Profeta non esita a ricordare che non olocausti e sacrifici, ma amore umile e fattivo è quanto l’Eterno chiede al Suo eletto (6,6-8). Creatura voluta per amore e chiamata a corrispondere a questo gratuito e fedelissimo amore, l’uomo è il partner di un’alleanza sponsale, il protagonista di un patto eterno che dovrà essere scritto nell’umiltà e nella fatica dei giorni, rispondendo all’amore con l’amore. Si comprende così quanto sia fondata l’osservazione del pensatore ebreo Abraham Heschel, secondo cui “la Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio”(A. Heschel, L’uomo non è solo, Rusconi, Milano 1970, 135.)
La Sacra Scrittura si occupa molto più dell’uomo e di ciò che gli viene chiesto dall’Eterno, che non della natura del divino in se stesso. Anche così si capisce come il Dio biblico non sia in alcun modo il concorrente dell’uomo, ma il suo alleato, e come la gloria dell’Altissimo stia proprio - come dirà Ireneo - nell’uomo vivente: “Gloria Dei vivens homo” (Adversus haereses, 4, 20, 7.)
Questa antropologia fondata sull’alleanza con Dio risulta alternativa a tutte le visioni che concepiscono l’uomo nella sua solitudine, frequenti soprattutto nei tempi di decadenza e di crisi, come quando - con le parole suggestive di Marguerite Yourcenar per descrivere la dissoluzione dell’antica Roma - “les dieux n’étaient plus, le Christ n’était pas encore: l’homme seul a été”.
(M. Yourcenar, Carnets de notes de Mémoires d'Hadrien -1951).
Anche al nostro tempo la decadenza e la crisi si sono affacciate. Lo aveva intuito nel cuore delle tragedie del Novecento Dietrich Bonhoeffer: “Non essendoci più nulla che duri, crolla la base della vita storica, cioè la fiducia, in ogni sua forma. Non essendoci più alcuna fiducia nella verità, il suo posto è preso dai sofismi della propaganda. Non essendoci più alcuna fiducia nella giustizia, si dichiara giusto quello che giova ... Questa è la singolare situazione del nostro tempo, una situazione di vera decadenza” (D. Bonhoefer, Etca, Queriniana, Brescia 1995, 105-107).
 L’uomo è colto in tutta la sua solitudine nelle ideologie che si sono confrontate negli sviluppi del “secolo breve”, sia in quella che tendeva a celebrarne la gloria a prezzo della negazione di Dio, sia in quella ad essa opposta che lo vedeva prigioniero del nulla. Se la prima interpretazione - che potrebbe definirsi un’“antropologia del dominio dell’identità”, perché costruita intorno all’affermazione del protagonismo assoluto del soggetto storico - aveva trovato nell’idealismo moderno la sua formulazione compiuta, la seconda si è espressa nei rivoli più diversi dell’inquietudine e del disagio come una sorta di nichilismo pervasivo, ispirato al rifiuto programmatico di ogni dominio rassicurante della ragione in nome dell’onnipresente incombenza del nulla. Il confronto fra queste concezioni e la loro mescolanza produce quella “modernità liquida” (Cf. ad esempio Modernità liquida, Laterza, Roma –Bari 2002 -Liquid Modernity, Cambridge - Oxford 2000), nella quale ci troviamo, in cui “modelli e configurazioni non sono più ‘dati’, e tanto meno ‘assiomatici’; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione” (XIII). Mancando punti di riferimento certi, tutto appare fluido e come tale giustificato in rapporto all’onda del momento: lo spazio è aperto per ogni forma di “relativismo”, sotto i nomi diversi di “nichilismo”, di “pensiero debole”, di “ontologia del declino”. È di fronte alla sfida di questi orizzonti che si profila in tutta la sua attualità la visione biblica dell’uomo: essa si muove nell’incontro fra l’identità del soggetto storico e il Totalmente Altro, che lo misura e lo attrae. 
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