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lunedì 19 gennaio 2015

"Un cammino per le tre religioni" di Enzo Bianchi


La stima e l’amicizia che da decenni nutro nei confronti di rav Laras, già rabbino capo di Milano, mi portano a interloquire con le sue riflessioni apparse sul Corriere della sera in reazione agli eventi di Parigi e rivolte come appello a tutto l’occidente. Vorrei precisare meglio cosa appartiene come necessità e compito a noi cristiani e agli ebrei, nel dialogo condiviso. In verità chi sono oggi ebrei e cristiani? Sono fratelli gemelli nati da un unico tronco, quello della Bibbia ebraica, da noi cristiani definita Antico Testamento. Nel I secolo a.C. erano diversi gli ebraismi presenti (sadducei, farisei, esseni…), ed ebrei erano anche Gesù e i suoi discepoli. Nel I secolo d.C., rispettivamente dopo la parabola storica di Gesù e dopo la distruzione del tempio ad opera dei romani nel 70 d.C., ecco affermarsi i due gruppi dei farisei (l’ebraismo rabbinico) e dei cristiani (definiti anche nazareni, galilei, minim): i primi misero al centro della loro fede la Torah; gli altri, invece, mediante una lettura del compimento delle profezie, misero al centro il Messia promesso, cioè Gesù di Nazaret, riconosciuto Maestro, Profeta, Giusto e, in virtù della sua resurrezione, Signore e Messia.

Questo il grande, originario scisma, una divisione che – come affermò Joseph Ratzinger – era legittima a partire dalle stesse Scritture interpretate in modo diverso. Gli ebrei non sono “fratelli maggiori” (espressione carica di affetto e simpatia ma teologicamente non corretta), sono fratelli che con noi condividono l’unico Padre, Dio, e i padri nella fede: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè e David. Tra ebrei e cristiani vi è certamente un’asimmetria: noi non possiamo vivere da cristiani senza l’Antico Testamento, mentre gli ebrei possono vivere senza il Nuovo Testamento. Nel nostro dialogo, che l’apostolo Paolo arditamente definisce anche “gelosia” (Rm 11,11.14), i rapporti sono di emulazione, e per questo non facili, ma noi siamo chiamati alla riconciliazione sapendo, come scrive lo stesso Paolo, che “la loro riammissione alla fine dei tempi sarà una resurrezione dai morti” (Rm 11,15).

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Ed è complementare a questa riflessione pronunciare una parola sugli eventi dell’ultima settimana. Abbiamo parlato troppo e non sapevamo ciò che dicevamo: parole come armi, parole in guerra, disprezzo lanciato verso l’Islam… Abbiamo sfigurato una religione, l’Islam, l’abbiamo confusa con estremismi che fanno riferimento a essa, ma che non sono molto diversi da quelli presenti ancora oggi in diverse religioni e in ideologie non religiose. Certo, abbiamo la consapevolezza della natura manipolatrice del fondamentalismo, sappiamo che non costa nulla appropriarsi di Dio come di una bandiera (e che Dio sarà quello nella mente dei terroristi?), sappiamo che non è vero che tutti i musulmani sono inclini alla violenza. Sappiamo anche che per ora non c’è uno scontro di civiltà, cioè non si combattono Islam e cristianesimo, non c’è una guerra in corso e dichiararla tale è irresponsabile. C’è invece un terrorismo che si dice ispirato dall’Islam, che individua come nemici alcuni luoghi o soggetti precisi dell’occidente e che miete anche numerosissime vittime musulmane in Medioriente.

Oggi più che mai occorre responsabilità, occorre razionalizzare le paure che ci invadono e non lasciare che siano cavalcate, con l’effetto di accrescerle e renderle ingovernabili, da parte di forze politiche barbare e pronte a dichiarare guerra perché solo se hanno di fronte un nemico, a costo di crearlo, trovano una forte identità che non hanno in se stesse, sprovviste come sono di umanesimo. Il recente discorso del presidente egiziano Al Sisi all’università al-Azhar del Cairo ha tracciato per i musulmani una via che contiene molti spunti e domande. Vogliamo aiutare questi fermenti, vogliamo fare qualcosa perché si apra un cammino diverso, all’insegna dell’ascolto e del rispetto reciproco? Perché non cominciare dal precetto universale della regola d’oro: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, magari vietandoci caricature offensive verso l’islam, coniugando la nostra libertà con il rispetto per l’altro, soprattutto in quest’ora storica in cui ci sentiamo minacciati da un terrorismo che ricorre al nome di Dio e si pretende islamico? È vero: una caricatura, anche offensiva, non può mai essere vendicata con la violenza e l’omicidio, questa è barbarie criminale! Ma con la metafora della reazione spontanea del pugno sferrato a chi offende la madre, papa Francesco si è fatto capire dalle persone più semplici e quotidiane.

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C’è un cammino da fare da parte di tutti e tre i monoteismi che nel passato, pur in forme, modi e intensità diversi, hanno combattuto guerre di religione, hanno perseguitato gli eretici, sono stati intolleranti. In questo cammino è urgente una diversa lettura interpretativa dell’Antico Testamento e del Corano, soprattutto nelle pagine cariche di violenza e di vendette minacciate e consumate. Né va dimenticato che nel corso della storia anche alcune pagine del Nuovo Testamento hanno conosciuto interpretazioni violente e intolleranti, divenute prassi violente e intolleranti. Quanto al rapporto tra ebrei e cristiani – che non può essere paragonato a quello con l’Islam o con le altre religioni perché di natura intrinseca e ineludibile – occorre restare sempre vigilanti per non giudaizzare da parte dei cristiani e per non cedere all’indifferenza verso i cristiani da parte degli ebrei. Sono per sempre fratelli gemelli.



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