Quello che i piccoli ci insegnano
di Eraldo Affinati
Il maestro, in una scuola elementare di Foligno, ordina a un bambino nero di mettersi davanti alla finestra, spalle alla classe, poi dice ai suoi compagni: "Guardate quant'è brutto". Si giustifica così: "Ho voluto fare un esperimento sociale". Stentiamo a crederlo. Ma un’interrogazione parlamentare e un’indagine conoscitiva avviata dal Miur dopo che i piccoli allievi avevano raccontato in famiglia l’accaduto ci spinge a riflettere, ancora una volta, sui rigurgiti razzisti presenti ormai in tutta Europa e in particolar modo, sebbene sia doloroso ammetterlo, nel nostro Paese. Le ripetute offese rivolte ai genitori adottivi del giovane senegalese di Melegnano, in provincia di Milano, hanno suscitato sconcerto. Così come ha fatto impressione l’aggressione fisica nei confronti di un dodicenne egiziano da parte dei suoi compagni di classe a Roma.
Cosa sta succedendo in Italia? Consiglio la lettura di un libro, "Il Terzo Reich dei sogni", in cui l’autrice, Charlotte Beradt, analizzando i sogni di molti cittadini tedeschi negli anni dell’avvento del nazismo, confermava in sostanza una celebre intuizione di Carl Gustav Jung, secondo il quale Adolf Hitler aveva conquistato l’inconscio del suo popolo. Questo vale per i totalitarismi, certo, ma anche nelle fiorenti democrazie avanzate occidentali, complice la presenza pervasiva dei social, dobbiamo purtroppo constatare che le peggiori intolleranze, stupidità e protervie possono essere introiettate nella coscienza collettiva a una velocità impressionante, rispetto alla quale il vecchio pettegolezzo, che un tempo passava di bocca in bocca senza venire nemmeno verificato, era ben poca cosa.
È questa la ragione per cui la scuola, di fronte allo sfacelo etico contemporaneo, alla mancanza di valori e gerarchie, alla decadenza dei canoni, alla scomparsa delle opere e degli stili, dovrebbe diventare una postazione di resistenza dove custodire la sapienza, mantenere le promesse e diffondere lo spirito critico. Se invece proprio in classe, addirittura alle elementari, nel punto in cui la pianta umana conosce il suo momento più bello e rigoglioso, chi dovrebbe innaffiarla la inaridisce, chi è chiamato a formare i caratteri li mortifica, allora davvero rischiamo di perdere la fiducia necessaria.
Per fortuna non sempre è così. Prendiamo Foligno: sono andato diverse volte nelle scuole della città umbra e ricordo ragazzi fantastici, docenti appassionati, molte associazioni tese a costruire legami. Poi basta un caso come quest’ultimo – che si può solo sperare di vedere infine solidamente smentito – per gettare fango nel mucchio.
Ormai accade quasi ogni giorno: dal famoso giocatore di calcio vilipeso dal pubblico alla sconosciuta nigeriana che non viene fatta salire sull'autobus. Personalmente, avendo a che fare con gli immigrati, ne sento tante: come se certi insulti sul treno, in aula, o nei posti di lavoro, fossero diventati la norma, non più percepiti alla maniera di un reato. Anzi, chi interviene a difesa del malcapitato di turno, viene a sua volta ricoperto d’improperi. Perché è stato così facile scivolare nel fondo oscuro della nostra natura, quella meno rassicurante, dove ci illudevamo non saremmo più precipitati? Guardiamoci intorno: le parole dei politici appaiono vuote, tutte gergali, prive di vera tensione morale; le principali agenzie educative sembrano in crisi; gli adulti credibili sono confinati nella solitudine. Se non c’è argine alla tracotanza degli invasati, ciò dipende anche da un vuoto culturale più profondo. Abbiamo affidato il timone delle dottrine ai conduttori televisivi; la lettura agli smartphone; le citazioni a Wikipedia; le interpretazioni a Facebook; la fatica del conoscere ai talk show; la potenza dei nostri giovani agli sprovveduti. Eppure educare non è una mera competenza. Io lo so chi domani insegnerà a noi le responsabilità oggi disattese dagli adulti: saranno gli stessi bambini indignati che hanno raccontato ai genitori la bizzarra trovata di quello strano maestro. Magari non tutti. Ne basterà uno solo per restituirci la speranza.
(fonte: Avvenire, Eraldo Affinati 22 febbraio 2019)
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