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sabato 2 aprile 2016

L’altra mano dell’Onnipotente di Luigino Bruni

Un uomo di nome Giobbe/14 - 
Nel cielo della fede anche le nubi
aiutano a sentire Dio





L’altra mano dell’Onnipotente
di Luigino Bruni





L’ordine sacro, separando mediante il sacrificio espiatorio l’infezione della colpa, che sempre accompagna l’uomo, dalle sue catastrofiche conseguenze, rende possibile l’idea di una colpa che non è male reale, malattia della vita, ma imputazione morale. La colpa diventa allora un disperato artificio, una gabbia per poter far coesistere l’Onnipotente clemente e misericordioso con il dolore. (Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia)

La felicità e il dolore di una civiltà dipendono molto dalla sua idea di Dio. Questo vale per chi crede ma anche per chi non crede, perché ogni generazione ha un suo ateismo profondamente legato alla sua ideologia dominante. Credere in un Dio all’altezza della parte migliore dell’umano, è un grande atto di amore anche per chi in Dio non ci crede. La fede buona e onesta è un bene pubblico, perché essere atei o non credenti in un dio reso banale dalle nostre ideologie, rende meno umani tutti. Nello sviluppo del suo poema all’interno del Libro di Giobbe, Elihu approfondisce il discorso sul valore salvifico della sofferenza. E pur seguendo una linea teologica che non convince né Giobbe né noi, ci suggerisce comunque nuove domande: “Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatore solo fra mille, che mostri all'uomo il suo dovere, che abbia pietà di lui e implori: ‘Scampalo dallo scendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto’, allora la sua carne sarà più florida che in gioventù, ed egli tornerà ai giorni della sua adolescenza” (33,19-26). Il monoteismo biblico è una realtà tutt’altro che semplice e lineare. Assieme alla grande parola sull’unicità di Dio del Sinai, antidoto per l’eterna tentazione idolatrica, scavando nelle scritture ritroviamo viva e feconda anche una falda che ci dona un Dio con una pluralità di volti. Anche Giobbe, nei momenti più drammatici del suo processo, ha invocato un Dio diverso da quello che gli presentava la fede del suo tempo e che lui stesso aveva conosciuto in gioventù. Giobbe cerca continuamente e con tenacia un Dio oltre Dio, un ‘Goel’, un fideiussore, capace di garantire e difendere la sua innocenza e di riconoscere la sua giustizia nei confronti di quel Dio che lo stava uccidendo ingiustamente.
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L’operazione etica compiuta da Giobbe, di portata rivoluzionaria, è consistita allora nel dimostrare l’innocenza della vittima del male, una rivoluzione di cui noi lettori moderni abbiamo perso il significato più profondo (le nostre fedi e le nostre non-fedi sono troppo diverse e lontane). Arrivati a questo punto del suo libro, dobbiamo però riconoscere anche qualcosa che potrebbe sorprenderci: neanche Giobbe si è liberato completamente dalla teologia retributiva, perché nella sua cultura questa liberazione avrebbe significato semplicemente l’ateismo, o rendere la religione irrilevante. Giobbe, infatti, accusando Dio di ingiustizia nei suoi confronti e nei confronti delle vittime, continua a salvare la cornice culturale della visione retributiva o economica della religione e della vita. E dentro l’orizzonte della fede retributiva, neanche lui (che è quello che più ha tentato di mettere in crisi questa teoria religiosa), riesce a riconoscere una duplice innocenza: quella del giusto sventurato e quella di Dio. Giobbe ha allora preferito querelare Dio piuttosto che perdere la fede nel Dio che stava querelando.
Solo la scoperta di un Dio fragile avrebbe potuto salvare la sua innocenza insieme alla sua fede in un Dio innocente. Soltanto un Dio che diventa anche lui vittima del male del mondo poteva affermare la propria giustizia e quella dei poveri giusti. Forse in quella sua attesa di un Elohim diverso che attraversa l’intero libro e permarrà anche dopo la risposta di Dio, c’era in Giobbe la domanda di un Dio ancora sconosciuto capace di accettare la propria impotenza nei confronti del male del mondo. Insieme alla propria innocenza avrebbe dovuto ammettere un Dio debole, un Onnipotente impotente di fronte al male e al dolore.
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Noi siamo capaci di soffrire per le ingiustizie e le cattiverie degli altri, e gioiamo per l’amore e la bellezza attorno a noi, anche quando non ne traiamo alcun danno o vantaggio personali. È questa compassione umana il primo luogo dove possiamo scoprire la compassione di Dio. L’antropologia è il primo banco di prova di ogni teologia che non voglia essere ideologia-idolatria. Se Dio non vuole essere un motore immobile né un idolo, deve soffrire per il male da noi compiuto, deve rallegrarsi per la nostra giustizia, deve morire con noi sulle nostre croci. Se noi lo sappiamo fare – quanti padri e madri si inchiodano sui legni dei figli?! – deve saperlo fare anche Dio. La logica retributiva non è scomparsa dalla terra. La ritroviamo forte e centrale nella ‘religione’ del nostro capitalismo globale. Il suo nuovo nome è meritocrazia, ma gli effetti e la funzione sono gli stessi delle antiche teologie economiche: trovare un meccanismo astratto (mai concreto) che riesca a garantire, allo stesso tempo, l’ordine logico del sistema e rassicurare la coscienza dei suoi ‘teologi’. Così, di fronte agli scarti e alle vittime del Mercato, il circuito ‘morale’ si chiude riconoscendo la mancanza di qualche merito nei vinti, nei perdenti (loosers), nei ‘non-smart’, che si ritrovano sempre più scartati e incolpati per la loro sventura. Al termine del monologo di Elihu, il libro di Giobbe non ci riporta nessuna risposta né di Giobbe né degli amici. Giobbe continua a restare muto, a chiamare un altro Dio. Un Dio che né Elihu, né Giobbe, né l’autore del dramma conoscono ancora - e forse neanche noi. Ma questo Dio nuovo verrà? E perché tarda così tanto a venire, mentre il povero continua a morire innocente?

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