«È un problema dimenticato. Sembra che a nessuno importi della loro sorte. Eppure decine di persone continuano a morire, a essere torturate, a essere violentate». Abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo, è, allo stesso tempo, sconsolato e irritato dall’insensibilità che organizzazioni internazionali, Egitto, Israele e Stati Uniti hanno dimostrato nei confronti del dramma che i profughi eritrei ed etiopi vivono nella penisola del Sinai. Lui, insieme a un gruppo di operatori umanitari e giornalisti, denuncia il problema e chiede interventi per evitare nuove morti, ma ricevendo risposte interlocutorie.
«Attualmente - spiega abba Mussie - sappiamo che nel Sinai ci sono tra i 250 e i 300 profughi eritrei ed etiopi. Sono stati sequestrati dalle bande di beduini. Quegli stessi trafficanti che contrabbandano armi, cibo e droga verso Israele e Gaza. Li tengono negli scantinati delle ville che si sono costruiti con i lucrosi proventi delle loro attività illecite. Li picchiano, li torturano. Le ragazze sono violentate e talvolta rimangono incinte». Questi profughi sono quasi tutti giovani scappati dal loro Paese per fuggire alla miseria e alla guerra. Dopo essere transitati per il Sudan arrivano in Egitto. Da qui, cercando di raggiungere Israele, sono costretti ad affidarsi ai beduini per attraversare il Sinai. Questi appartengono a grandi clan che vivono di traffici illeciti e solitamente li rapiscono chiedendo un ingente riscatto per il rilascio.
«Due anni fa - ricorda abba Mussie - chiedevano fino a 8mila dollari a persona. Oggi il riscatto medio si aggira sui 60mila dollari a persona.
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Oltre mezzo milione di profughi. È questa la cifra, tutt’ora per difetto secondo l’ONU, di persone che sono dovute riparare dalla Siria nei paesi vicini o che comunque hanno abbandonato le proprie case per cercare scampo da combattimenti e bombardamenti.
Oltre 3000 al giorno arrivano nelle strutture costruite in Turchia, Iraq e Libano che sono ormai al collasso.
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... «Non ho sentito un lamento. Anzi, quando il capo scout ha detto all’uomo che bruciava la plastica che prima sarebbe andato da chi non aveva neppure quella, lui ha abbassato la testa per dire di sì. Pensavo a quanto mi è dato e di cui non mi accorgo e pensavo ai miei no, alla mia ribellione davanti a circostanze molto meno dure».
Dohu è appoggiato al bancone di un piccolo alimentari nell'androne del primo piano. In vendita espone dentifrici e pomodori, tessere telefoniche e cipolle, accostati con lo stesso caos policromo e pulsante dei mercati africani: «Ci vedi? Tutti noi qui siamo sbarcati a Lampedusa, poi siamo passati per qualche CARA (Centri di accoglienza richiedenti asilo, ndr) in giro per l'Italia, e ora ci ritroviamo in questo palazzo. Viviamo alla giornata», e indica gruppetti di gente intorno a lui, sparpagliati in giro per il primo piano. Dohu vive insieme ad altre ottocento persone in un edificio occupato nella periferia sudorientale di Roma, che un tempo ospitava una sede dell'Università di Tor Vergata e che oggi tutti chiamano Palace Selam. Gli inquilini sono di quattro nazionalità: somali, sudanesi, eritrei, etiopi. Gente arrivata in Italia attraverso gli sbarchi disperati a Lampedusa. Tutti hanno in mano un permesso di soggiorno per motivi umanitari: «Veniamo da paesi in guerra. Appena arrivati nei CARA ci hanno concesso la richiesta di protezione internazionale, poi però la nostra odissea non è mai finita. Quando ci hanno mandato fuori, dove potevamo andare?»
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Gli ultimi dati diffusi dall'UNHCR sono allarmanti: ogni giorno ci sono 3200 nuovi profughi. E mentre l'Unione Europea stanzia altri 30 milioni di euro in loro aiuto, nei campi ci si batte per una coperta
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