“Un uomo aveva due figli. Già questa semplice dichiarazione contiene in sé un dramma antico, un’eco che risuona nelle prime pagine della storia dell’umanità, laddove l’ombra della fratellanza si allunga fino a farsi minaccia. Due figli. Due fratelli. La prima rivalità, il primo sangue versato. Così, il racconto si apre con un’allusione sottile e crudele: non è la prima volta che un uomo si trova a confrontarsi con il mistero di due figli, con le loro distanze, le loro colpe, il loro dolore. La narrazione ci porta indietro, fino al primo atto di violenza scaturito dal peccato dell’uomo: Caino e Abele, uno nei campi, l’altro tra le greggi, uno con le mani sporche di terra, l’altro con le mani sporche di sangue. E su quella terra, che ancora conserva l’eco del pianto del giusto, si delinea una nuova storia, destinata a diventare la più celebre tra le parabole del Maestro.
Che la si chiami parabola del figlio prodigo o parabola del padre misericordioso, poco cambia, care sorelle e cari fratelli. Il nome che le si dà è un dettaglio, una didascalia utile a chi ha bisogno di incasellare le storie dentro titoli ordinati, ma la sostanza non si lascia ingabbiare così facilmente. Perché il cuore di questo racconto non è un ritorno a casa, non è l’epopea di un’anima smarrita che ritrova la via, né la celebrazione di un padre capace di perdonare senza riserve. No. È qualcosa di più sfumato, più inquieto. È la traiettoria di un affetto che si spezza e tenta di ricomporsi, la distanza tra chi parte e chi resta, il rancore che sedimenta in chi sente di essere stato dimenticato. È una riconciliazione che si promette, ma non si compie mai del tutto.
Si potrebbe pensare che il centro di questa vicenda sia il padre, lui con le sue braccia aperte, lui con il suo sguardo lungo che cerca oltre la polvere della strada, lui con il mantello spalancato come una vela pronta a riprendere il mare. Ma no. Il centro della storia sono i fratelli. Sono loro il nervo scoperto di questo racconto, la ferita che non si chiude, il bivio che rimane irrisolto.
C’è il fratello che parte, che si stacca dalla casa come una foglia che si lascia andare al vento, convinto che la vita stia altrove, oltre il perimetro della terra conosciuta. Il suo è il viaggio di chi cerca e spreca, di chi si riempie le mani di polvere e di desideri, di chi baratta la sicurezza con l’ebbrezza del rischio, il tetto con il cielo aperto. E poi c’è il fratello che resta, quello che rimane inchiodato al dovere, che vede il proprio posto come una sentenza, che si sforza di essere giusto e si sente tradito dall’ingiustizia di un amore che sembra distribuire doni senza merito.
Eccoli, i due poli di questa storia. Uno torna, l’altro rimane fermo. Uno si getta nelle braccia del padre, l’altro resta sulla soglia, incapace di varcare quella distanza che lo separa non solo dal fratello, ma da sé stesso. E forse, in fondo, questa parabola non è altro che il racconto di questa distanza: quella tra chi sa chiedere e chi non sa ricevere, tra chi osa perdersi e chi non trova il coraggio di andarsene, tra chi torna e chi, pur non essendo mai partito, si sente ancora lontano da casa.
Il padre, in questa vicenda, è un ponte tra due distanze apparentemente incolmabili. La sua figura è chiara, essenziale, come un punto fermo dentro un mare in tempesta. Non trattiene chi vuole partire, non punisce chi torna. Sta, semplicemente. È una presenza che si dona senza riserve, un amore che lascia andare senza paura, che scorge da lontano senza smettere di sperare, che accoglie senza chiedere spiegazioni. Un amore che sa far festa.
Non condanna, non espelle, non impone nulla a nessuno. Rimane aperto, vulnerabile, paziente. La sua porta non si chiude, le sue braccia non si stringono mai a pugno. È lì per chi torna, ma anche per chi fatica ad entrare, come il figlio maggiore, che resta fermo sulla soglia della sua stessa casa. Il padre lo incontra, gli parla, lo invita. Ma non forza, non obbliga. Ama, e basta.
E così, senza clamore, svela la sua vera natura: non un padrone che impone, ma un ponte. Tra il figlio che si è perduto e quello che, pur essendo rimasto, si sente lontano. Tra la festa e il rancore, tra il ritorno e il rifiuto. Lui è lì, attende. Il resto non dipende da lui.
Povero padre! che vede allontanare il figlio e, con quella libertà di cui solo l’amore vero è capace, non antepone la sua sofferenza al desiderio di libertà altrui. Finanche fosse il suo figlio amato. Non è una proprietà suo figlio, non è un bene di cui possa disporre, non è un pezzo di terra, un anello d’oro, un bue, qualcosa da vendere e comprare, qualcosa da cui si possa trarre un profitto. L’amore, quello vero, comprende, sa lasciar andare, accompagna da lontano, se necessario.
Eppure, questo stesso padre, così aperto, così capace di accogliere, non è un buon amministratore. Non calcola, non bilancia, non tiene i conti con la precisione di chi vuole essere giusto a ogni costo. Fa i suoi conti con il cuore, non con la bilancia della ragione. E così, nel momento della divisione, prende il patrimonio e lo spezza in due, non in tre. Non trattiene nulla per sé, non custodisce una porzione che gli spetterebbe di diritto. Distribuisce, come si distribuisce un dono, senza preoccuparsi di quel che verrà dopo.
Il figlio minore prende la sua parte e va. Va lontano, spreca, si disperde, si perde. La sua ricchezza diventa polvere, il suo viaggio si trasforma in sconfitta. Ma il padre rimane lì, e con lui il fratello maggiore. A quest’ultimo resta ciò che il padre non ha dato via: la parte che rimane, il campo, la casa, il bestiame. Eppure, dentro quell’ordine apparente, qualcosa si spezza nel momento in cui il figlio perduto ritorna. Perché per far festa, per celebrare il ritorno, il padre attinge non dalla propria riserva – che non ha mai trattenuto – ma da quella che è rimasta al figlio maggiore. È da lì che prende il vitello grasso, il vestito, l’anello. È da lì che attinge per creare la gioia. E così, ciò che sembrava garantito, dovuto, sicuro, improvvisamente non lo è più.
Il fratello maggiore lo capisce in un istante. Sente, nella carne, l’ingiustizia di quella gioia che non è la sua. Si sente defraudato, privato di ciò che ormai gli apparteneva. Perché il padre non ha chiesto il permesso, non ha fatto i conti, non ha pesato i meriti. Ha solo dato, ancora una volta. E questo è insopportabile.
Padre ingiusto, dunque. Come sa essere ingiusta la misericordia. Perché la misericordia non aspetta che le cose siano a posto, non pretende riparazioni, non chiede prove di redenzione. Misericordia ingiusta, perché per una lacrima cancella anni di errori, per un passo indietro spalanca tutte le porte, per un abbraccio ridisegna la mappa dell’amore. Non pesa, non misura, non conserva rancori. Dimentica e perdona.
E perdonando, scandalizza. Perché chi ha sempre fatto tutto nel modo giusto si ritrova improvvisamente escluso da una logica che non gli appartiene. Perché il padre continua a donare, e a chi ha sbagliato concede ancora di più. Perché il perdono, quando è vero, non ristabilisce l’ordine. Lo ribalta.
Non così i fratelli. Due esistenze che si sfiorano senza mai davvero toccarsi, anime scolpite da tensioni opposte, come linee che corrono parallele nel disegno del tempo. Due figli, due destini. Il primo, quello ribelle, che si lascia sedurre da un altrove fatto di illusioni, di libertà scambiate per vastità, di desideri consumati troppo in fretta. Sogna di possedere il mondo e non si accorge di lasciarsi svuotare da esso. Il secondo, il fratello maggiore, quello rimasto, quello fedele, quello sempre presente. Ma è davvero lì? Il suo corpo abita la casa, ma il suo cuore è assente. La sua fedeltà è un muro, una prigione in cui non filtra il vento della misericordia. Guarda, scruta, osserva, ma non vede. Non vede l’amore del padre, non riconosce il suo volto nel riflesso delle cose. Il suo sguardo è annebbiato dalla pretesa, il suo cuore chiuso come una porta su cui nessuno bussa più. E così il suo risentimento cresce, si fa duro, diventa roccia. Non comprende che l’eredità non è una moneta da spartire, ma un dono da respirare, da abitare, da lasciarsi trasformare.
Ecco il dramma. Non il peccato, non il ritorno, non la misericordia di un padre che attende e che accoglie. No, il vero dramma è il vuoto tra i due fratelli, la distanza mai colmata, la sedia lasciata vuota al banchetto della festa. Il vero dramma è il fratello che non entra, che resta fuori, con il peso di una giustizia che non sa farsi amore. La parabola si spezza qui, in un punto sospeso, lasciandoci con una domanda che ci abita ancora oggi: entrerà mai alla festa? Riconoscerà il volto del fratello dentro la luce tremolante di quella notte? Troverà in lui qualcosa di sé? O resterà inchiodato alla soglia, prigioniero della sua solitudine, della sua pretesa?
È una storia antica, vecchia come il respiro della terra. Una storia che affonda le radici nel sangue di un pastore ucciso dal fratello che coltivava la terra. Una storia che si ripete, che attraversa i secoli come un fiume carsico, riaffiorando in ogni epoca, in ogni guerra, in ogni ferita non sanata. Perché il problema non è il figlio che torna, né il padre che accoglie, ma il fratello che non comprende. Il fratello che rimane fuori, nel freddo della notte, mentre la casa risuona di musica e danze. Il fratello che non sa che tutto ciò che il padre ha è già suo, che non c’è nulla da conquistare, nulla da rivendicare. Solo una porta da attraversare.
Eppure, nella mia mente, nel mio cuore, voglio spingere lo sguardo oltre la parabola. Mi piace immaginare che alla fine quel fratello si sia ravveduto. Che abbia esitato, sì, ancora un istante sulla soglia, con il respiro sospeso e il cuore pesante, ma poi abbia fatto un passo, e poi un altro. Che abbia incrociato gli occhi del fratello, e in essi abbia visto riflessa la propria stessa ombra. Che si sia lasciato cadere in un abbraccio, un abbraccio lungo quanto il tempo della lontananza, un abbraccio in cui sciogliere finalmente l’orgoglio, la paura, il rancore. Li vedo, tutti e tre, stretti insieme, il padre e i suoi due figli. Li vedo ridere, piangere, raccontarsi storie di quando erano bambini, di quando tutto era semplice, di quando la casa era una sola e non c’erano distanze. Li vedo danzare fino a notte fonda, immersi in una gioia che non conosce più il sapore dell’invidia, del confronto, della misura.
Forse non è scritto da nessuna parte. Forse non è così che è andata. Ma io, io non posso fare altro che sperarlo. Sperare contro ogni speranza. Inventarmi un Vangelo che non c’è, osare pensare un finale diverso. Perché ogni volta che il mio piede affonda nella terra, sento il fango, il peso di una storia scritta nel sangue di troppi Abele, uccisi da troppi fratelli maggiori. Perché ancora oggi il mondo brulica di uomini che non sanno attraversare il deserto che separa un cuore dall’altro. E allora lo dico a voi, viandanti come me: non c’è cammino più lungo di quello che porta da un fratello all’altro. Non c’è pellegrinaggio più arduo di quello che si compie dentro il proprio cuore, per imparare ad abitare lo spazio dell’altro, per imparare ad amare senza paura.
Perché il Padre ci ha già accolti, ci ha già amati, ci ha già stretti nel suo abbraccio. Ma il nostro viaggio non è finito. Resta da compiere l’ultimo passo, il più difficile: attraversare la soglia che ci separa dal fratello. Solo allora la festa sarà davvero completa. Solo allora la gioia sarà vera e la nostra preghiera, quella che anche ora ti rivolgiamo, sarà esaudita:
Signore Gesù, Porta della misericordia, tu che spalanchi il cuore del Padre e ci attendi sulla soglia con braccia di tenerezza, insegnaci a non temere il passo dell’altro, a non chiudere le porte della nostra vita con le sbarre del pregiudizio, a non serrare il cuore con i catenacci dell’orgoglio.
Fà che il fratello più piccolo trovi sempre varco nel nostro sguardo e il fratello maggiore non resti prigioniero delle sue sicurezze. Sii per noi Porta di pace, perché possiamo riconciliarci con la nostra storia, con le ferite del passato e con le promesse del futuro. Sii Porta di riconciliazione, perché impariamo a guardarci senza paura, ad abbracciarci senza riserve, a camminare insieme senza più diffidenze. Donaci, Signore, di essere porte sante gli uni per gli altri, porte aperte sulla speranza, soglie spalancate sulla fiducia, case senza chiavistelli, dove l’altro è sempre benvenuto, dove l’amore ha sempre diritto di cittadinanza.
E tu, Maria, Porta del Cielo, quando giungerà la sera, prendici per mano e stringici forte, perché il buio non ci faccia paura, perché il passo non si fermi sulla soglia.
Accompagnaci oltre, fino alla meta della nostra speranza, dove ogni attesa sarà compiuta, dove l’amore avrà l’ultima parola, dove il Padre spalancherà le braccia e finalmente sarà casa, sarà festa, sarà per sempre.
Amen.