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domenica 30 marzo 2025

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 21 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 IV DOMENICA DI QUARESIMA - LAETARE ANNO C

Libertà da ogni vincolo, anche da quello familiare, libertà da se stessi fino a perdere la reputazione e la vita, libertà dall'idolatria del denaro e dei beni (Lc 14,24-35). Queste le dure condizioni poste da Gesù per la sequela. Nonostante le evidenti difficoltà, pubblicani e peccatori gli si accostano, lo ascoltano volentieri e sono da Lui accolti, mentre scribi e farisei, i fedeli custodi della dottrina e dell'ortodossia, educati alla logica delle virtù e del merito, mormorano. Proprio per stigmatizzare il loro comportamento, Gesù narra le Parabole della Misericordia: la pecora smarrita, la dracma perduta e la parabola del figlio spendaccione o del Padre misericordioso o meglio, del figlio che crede di essere perfetto. Si tratta di un trittico di parabole, ma in realtà la parabola è una sola. Come nel trittico pittorico, le due parti più brevi (le due pale laterali) acquistano significato solo se messe in relazione con quella più lunga (la pala centrale), la quale è illuminata e completata dalle parti più brevi. Un Padre, il cui figlio scapestrato scappa di casa, non se ne starà certo con le mani in mano ad aspettare un suo improbabile ritorno, ma invierà il Buon Pastore perché ritrovi la pecorella che si è perduta e la riporti a casa sana e salva anche abbandonando il resto del gregge nel deserto. Chi di noi non farebbe lo stesso, dice Gesù? In verità, nessuno farebbe questo se non uno squilibrato. Tutto è illogico, assurdo, incomprensibile, come illogico, assurdo e incomprensibile è l'amore del Padre per ogni figlio. Solo un folle accoglierebbe in casa uno che ha dilapidato metà del patrimonio di famiglia senza il minimo rimprovero, e per di più reintegrandolo nel suo rango originario (la veste, l'anello, i sandali). Tale è l'amore del Padre, come l'utero accogliente di una madre che si dilata, fa spazio alla vita che cresce. L'amore di Dio non risponde a nessuna logica umana, non fa calcoli, agisce senza un'apparente ragione, è offerto gratuitamente a tutti, buoni e cattivi, al figlio ribelle come a quello che crede di essere giusto e per questo giudica suo fratello. Nel cuore del Padre nessun figlio è escluso dal suo amore, nessun figlio è così perduto da non poter essere cercato, trovato e, infine, avvolto nel suo tenero abbraccio. «Perché nostro fratello era morto ed è tornato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato»


sabato 29 marzo 2025

FIGLIO DI DOMANI - IV DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

FIGLIO DI DOMANI


IV DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C


È giusto il padre della parabola? Dio è così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, Dio è solo amore.
E l’amore non è giusto, è oltre, è centuplo, è eccedenza. E sempre un po’ fuorilegge.

Luca 15,11-32

Un padre aveva due figli.
Un incipit che causa subito tensione, perché nella Bibbia le storie di fratelli non sono mai facili, raccontano di violenza e menzogne, di riconciliazioni mancate. La fraternità non è un dato da cui partire, ma un progetto da costruire.
Io voglio bene al figlio prodigo. Quante volte i ribelli in realtà sono solo dei richiedenti amore. 
Il ragazzo se ne va, un giorno, con la sua parte di “vita”, di eredità, in cerca di felicità, e crede di trovarla nelle cose. Il padre lo lascia andare, anche se teme che si farà male. Un uomo saggio.
Ma quella che sembrava la vita ideale, si rivela un lento morire; si dissangua di umanità, fino a ritrovarsi solo e affamato in una porcilaia.
Allora rivede la sua casa, la casa del padre, la sente profumare di pane.
Ci sono persone con così tanta fame che per loro Dio non può che avere la forma di un pane (Gandhi).
Qualcosa gli si muove dentro, rientra in sé e decide di tornare. La vita gli ha insegnato a volare raso terra, lui non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso.
Non torna perché ha capito, ma perché ha fame. Ma al Padre importa solo che tu ritorni verso casa.
Il padre lo vide da lontano e gli corse incontro.
L’uomo cammina, Dio corre.
L’uomo si avvia, Dio è già arrivato.
E ci ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima che apriamo bocca.
Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto?
Non chiede: perché l’hai fatto? Ma: vuoi ricostruire la casa?
Non si lancia in un: te l’avevo detto! Ma: hai fame?
Non è esperto in rimorsi quel padre, ma in abbracci.
Il perdono di Dio non libera il passato, fa di più:
libera il futuro, ci rende figli nuovi.
Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, li cerchi invano, è piena di gente che cambia strada e idee, di ripartenze sotto il vento delle passioni, ma poi alla fine sotto il vento di Dio.
L’ultima scena gira attorno all’altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che non ha la festa nel cuore.
Il ragazzo bravo in tutto è triste, come se fosse ai lavori forzati; per lui la bella vita era l’altra, quella del fratello.
Ma il padre nella sua casa vuole figli, e non servi ubbidienti; esce e lo prega di entrare: vieni, è in tavola la vita!
Il ragazzo avrà capito? Sarà entrato? Si saranno guardati, abbracciati? Non ci viene detto.
Ed ecco la grande domanda: perché neppure l’ombra di un castigo? È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre?
Sì, è l’immensa rivelazione per la quale Gesù darà la vita: Dio è solo amore.
E l’amore non è giusto, è sempre oltre, è centuplo, è eccedenza. E sempre un po’ fuorilegge.

Così è il mio Dio, il Dio di Gesù, il Dio che ancora m’innamora

(Fonte: blog S. Maria del Cengio)

Dove vanno gli Stati Uniti di Tonio Dell'Olio

Dove vanno gli Stati Uniti 
di Tonio Dell'Olio



Per comprendere meglio dove vanno gli Stati Uniti bisognerebbe guardare con attenzione ad alcune decisioni dell’amministrazione Trump che rischiano di passare sotto silenzio nonostante la loro gravità.

Tra questi l’espulsione di Ebrahim Rasool, ambasciatore del Sudafrica presso gli Usa, considerato persona non grata. Oltre ad aver citato Israele a rispondere di crimini contro l’umanità davanti alla Corte penale internazionale, il Sudafrica, per mezzo del suo rappresentante negli Usa, ha espresso giudizi particolarmente pesanti verso l’amministrazione ma anche il Segretario di Stato era arrivato ad accusare il Governo di Pretoria di adottare politiche di apartheid contro i bianchi (afrikaner) che vivono in Sudafrica. L’altra misura di Trump che ha gravissime conseguenze nella vita degli americani Usa è la chiusura del dipartimento dell’Istruzione considerato “dannoso perché promuove politiche progressiste sull’inclusione, l’uguaglianza e la diversità. Il dipartimento amministra i fondi federali per promuovere l’istruzione, tra i quali i 18,4 miliardi destinati alle scuole nelle aree più povere del Paese, e 15,5 miliardi per il sostegno agli studenti con disabilità” (Il Sole 24 ore) oltre i 1.600 miliardi di dollari agli studenti universitari. Ora tutto quanto sarà demandato alle amministrazioni dei singoli Stati che faranno come credono. Ad esempio in Florida dove una docente fu licenziata per aver mostrato in classe il Davide di Michelangelo

(Fonte: Mosaico dei giorni - 26 marzo 2025)

venerdì 28 marzo 2025

GIUBILEO - “NON C’È PELLEGRINAGGIO PIÚ ARDUO DI QUELLO CHE SI COMPIE DENTRO IL PROPRIO CUORE” don Mimmo Battaglia, Arcivescovo di Napoli

“NON C’È PELLEGRINAGGIO PIÚ ARDUO
 DI QUELLO CHE SI COMPIE 
DENTRO IL PROPRIO CUORE” 
 don Mimmo Battaglia, 
Arcivescovo di Napoli

22 marzo 2025

Santa Messa del Giubileo Diocesano
in Piazza San Pietro



“Un uomo aveva due figli. Già questa semplice dichiarazione contiene in sé un dramma antico, un’eco che risuona nelle prime pagine della storia dell’umanità, laddove l’ombra della fratellanza si allunga fino a farsi minaccia. Due figli. Due fratelli. La prima rivalità, il primo sangue versato. Così, il racconto si apre con un’allusione sottile e crudele: non è la prima volta che un uomo si trova a confrontarsi con il mistero di due figli, con le loro distanze, le loro colpe, il loro dolore. La narrazione ci porta indietro, fino al primo atto di violenza scaturito dal peccato dell’uomo: Caino e Abele, uno nei campi, l’altro tra le greggi, uno con le mani sporche di terra, l’altro con le mani sporche di sangue. E su quella terra, che ancora conserva l’eco del pianto del giusto, si delinea una nuova storia, destinata a diventare la più celebre tra le parabole del Maestro.

Che la si chiami parabola del figlio prodigo o parabola del padre misericordioso, poco cambia, care sorelle e cari fratelli. Il nome che le si dà è un dettaglio, una didascalia utile a chi ha bisogno di incasellare le storie dentro titoli ordinati, ma la sostanza non si lascia ingabbiare così facilmente. Perché il cuore di questo racconto non è un ritorno a casa, non è l’epopea di un’anima smarrita che ritrova la via, né la celebrazione di un padre capace di perdonare senza riserve. No. È qualcosa di più sfumato, più inquieto. È la traiettoria di un affetto che si spezza e tenta di ricomporsi, la distanza tra chi parte e chi resta, il rancore che sedimenta in chi sente di essere stato dimenticato. È una riconciliazione che si promette, ma non si compie mai del tutto.

Si potrebbe pensare che il centro di questa vicenda sia il padre, lui con le sue braccia aperte, lui con il suo sguardo lungo che cerca oltre la polvere della strada, lui con il mantello spalancato come una vela pronta a riprendere il mare. Ma no. Il centro della storia sono i fratelli. Sono loro il nervo scoperto di questo racconto, la ferita che non si chiude, il bivio che rimane irrisolto.

C’è il fratello che parte, che si stacca dalla casa come una foglia che si lascia andare al vento, convinto che la vita stia altrove, oltre il perimetro della terra conosciuta. Il suo è il viaggio di chi cerca e spreca, di chi si riempie le mani di polvere e di desideri, di chi baratta la sicurezza con l’ebbrezza del rischio, il tetto con il cielo aperto. E poi c’è il fratello che resta, quello che rimane inchiodato al dovere, che vede il proprio posto come una sentenza, che si sforza di essere giusto e si sente tradito dall’ingiustizia di un amore che sembra distribuire doni senza merito.

Eccoli, i due poli di questa storia. Uno torna, l’altro rimane fermo. Uno si getta nelle braccia del padre, l’altro resta sulla soglia, incapace di varcare quella distanza che lo separa non solo dal fratello, ma da sé stesso. E forse, in fondo, questa parabola non è altro che il racconto di questa distanza: quella tra chi sa chiedere e chi non sa ricevere, tra chi osa perdersi e chi non trova il coraggio di andarsene, tra chi torna e chi, pur non essendo mai partito, si sente ancora lontano da casa.

Il padre, in questa vicenda, è un ponte tra due distanze apparentemente incolmabili. La sua figura è chiara, essenziale, come un punto fermo dentro un mare in tempesta. Non trattiene chi vuole partire, non punisce chi torna. Sta, semplicemente. È una presenza che si dona senza riserve, un amore che lascia andare senza paura, che scorge da lontano senza smettere di sperare, che accoglie senza chiedere spiegazioni. Un amore che sa far festa.

Non condanna, non espelle, non impone nulla a nessuno. Rimane aperto, vulnerabile, paziente. La sua porta non si chiude, le sue braccia non si stringono mai a pugno. È lì per chi torna, ma anche per chi fatica ad entrare, come il figlio maggiore, che resta fermo sulla soglia della sua stessa casa. Il padre lo incontra, gli parla, lo invita. Ma non forza, non obbliga. Ama, e basta.

E così, senza clamore, svela la sua vera natura: non un padrone che impone, ma un ponte. Tra il figlio che si è perduto e quello che, pur essendo rimasto, si sente lontano. Tra la festa e il rancore, tra il ritorno e il rifiuto. Lui è lì, attende. Il resto non dipende da lui.

Povero padre! che vede allontanare il figlio e, con quella libertà di cui solo l’amore vero è capace, non antepone la sua sofferenza al desiderio di libertà altrui. Finanche fosse il suo figlio amato. Non è una proprietà suo figlio, non è un bene di cui possa disporre, non è un pezzo di terra, un anello d’oro, un bue, qualcosa da vendere e comprare, qualcosa da cui si possa trarre un profitto. L’amore, quello vero, comprende, sa lasciar andare, accompagna da lontano, se necessario.

Eppure, questo stesso padre, così aperto, così capace di accogliere, non è un buon amministratore. Non calcola, non bilancia, non tiene i conti con la precisione di chi vuole essere giusto a ogni costo. Fa i suoi conti con il cuore, non con la bilancia della ragione. E così, nel momento della divisione, prende il patrimonio e lo spezza in due, non in tre. Non trattiene nulla per sé, non custodisce una porzione che gli spetterebbe di diritto. Distribuisce, come si distribuisce un dono, senza preoccuparsi di quel che verrà dopo.

Il figlio minore prende la sua parte e va. Va lontano, spreca, si disperde, si perde. La sua ricchezza diventa polvere, il suo viaggio si trasforma in sconfitta. Ma il padre rimane lì, e con lui il fratello maggiore. A quest’ultimo resta ciò che il padre non ha dato via: la parte che rimane, il campo, la casa, il bestiame. Eppure, dentro quell’ordine apparente, qualcosa si spezza nel momento in cui il figlio perduto ritorna. Perché per far festa, per celebrare il ritorno, il padre attinge non dalla propria riserva – che non ha mai trattenuto – ma da quella che è rimasta al figlio maggiore. È da lì che prende il vitello grasso, il vestito, l’anello. È da lì che attinge per creare la gioia. E così, ciò che sembrava garantito, dovuto, sicuro, improvvisamente non lo è più.

Il fratello maggiore lo capisce in un istante. Sente, nella carne, l’ingiustizia di quella gioia che non è la sua. Si sente defraudato, privato di ciò che ormai gli apparteneva. Perché il padre non ha chiesto il permesso, non ha fatto i conti, non ha pesato i meriti. Ha solo dato, ancora una volta. E questo è insopportabile.

Padre ingiusto, dunque. Come sa essere ingiusta la misericordia. Perché la misericordia non aspetta che le cose siano a posto, non pretende riparazioni, non chiede prove di redenzione. Misericordia ingiusta, perché per una lacrima cancella anni di errori, per un passo indietro spalanca tutte le porte, per un abbraccio ridisegna la mappa dell’amore. Non pesa, non misura, non conserva rancori. Dimentica e perdona.

E perdonando, scandalizza. Perché chi ha sempre fatto tutto nel modo giusto si ritrova improvvisamente escluso da una logica che non gli appartiene. Perché il padre continua a donare, e a chi ha sbagliato concede ancora di più. Perché il perdono, quando è vero, non ristabilisce l’ordine. Lo ribalta.

Non così i fratelli. Due esistenze che si sfiorano senza mai davvero toccarsi, anime scolpite da tensioni opposte, come linee che corrono parallele nel disegno del tempo. Due figli, due destini. Il primo, quello ribelle, che si lascia sedurre da un altrove fatto di illusioni, di libertà scambiate per vastità, di desideri consumati troppo in fretta. Sogna di possedere il mondo e non si accorge di lasciarsi svuotare da esso. Il secondo, il fratello maggiore, quello rimasto, quello fedele, quello sempre presente. Ma è davvero lì? Il suo corpo abita la casa, ma il suo cuore è assente. La sua fedeltà è un muro, una prigione in cui non filtra il vento della misericordia. Guarda, scruta, osserva, ma non vede. Non vede l’amore del padre, non riconosce il suo volto nel riflesso delle cose. Il suo sguardo è annebbiato dalla pretesa, il suo cuore chiuso come una porta su cui nessuno bussa più. E così il suo risentimento cresce, si fa duro, diventa roccia. Non comprende che l’eredità non è una moneta da spartire, ma un dono da respirare, da abitare, da lasciarsi trasformare.

Ecco il dramma. Non il peccato, non il ritorno, non la misericordia di un padre che attende e che accoglie. No, il vero dramma è il vuoto tra i due fratelli, la distanza mai colmata, la sedia lasciata vuota al banchetto della festa. Il vero dramma è il fratello che non entra, che resta fuori, con il peso di una giustizia che non sa farsi amore. La parabola si spezza qui, in un punto sospeso, lasciandoci con una domanda che ci abita ancora oggi: entrerà mai alla festa? Riconoscerà il volto del fratello dentro la luce tremolante di quella notte? Troverà in lui qualcosa di sé? O resterà inchiodato alla soglia, prigioniero della sua solitudine, della sua pretesa?

È una storia antica, vecchia come il respiro della terra. Una storia che affonda le radici nel sangue di un pastore ucciso dal fratello che coltivava la terra. Una storia che si ripete, che attraversa i secoli come un fiume carsico, riaffiorando in ogni epoca, in ogni guerra, in ogni ferita non sanata. Perché il problema non è il figlio che torna, né il padre che accoglie, ma il fratello che non comprende. Il fratello che rimane fuori, nel freddo della notte, mentre la casa risuona di musica e danze. Il fratello che non sa che tutto ciò che il padre ha è già suo, che non c’è nulla da conquistare, nulla da rivendicare. Solo una porta da attraversare.

Eppure, nella mia mente, nel mio cuore, voglio spingere lo sguardo oltre la parabola. Mi piace immaginare che alla fine quel fratello si sia ravveduto. Che abbia esitato, sì, ancora un istante sulla soglia, con il respiro sospeso e il cuore pesante, ma poi abbia fatto un passo, e poi un altro. Che abbia incrociato gli occhi del fratello, e in essi abbia visto riflessa la propria stessa ombra. Che si sia lasciato cadere in un abbraccio, un abbraccio lungo quanto il tempo della lontananza, un abbraccio in cui sciogliere finalmente l’orgoglio, la paura, il rancore. Li vedo, tutti e tre, stretti insieme, il padre e i suoi due figli. Li vedo ridere, piangere, raccontarsi storie di quando erano bambini, di quando tutto era semplice, di quando la casa era una sola e non c’erano distanze. Li vedo danzare fino a notte fonda, immersi in una gioia che non conosce più il sapore dell’invidia, del confronto, della misura.

Forse non è scritto da nessuna parte. Forse non è così che è andata. Ma io, io non posso fare altro che sperarlo. Sperare contro ogni speranza. Inventarmi un Vangelo che non c’è, osare pensare un finale diverso. Perché ogni volta che il mio piede affonda nella terra, sento il fango, il peso di una storia scritta nel sangue di troppi Abele, uccisi da troppi fratelli maggiori. Perché ancora oggi il mondo brulica di uomini che non sanno attraversare il deserto che separa un cuore dall’altro. E allora lo dico a voi, viandanti come me: non c’è cammino più lungo di quello che porta da un fratello all’altro. Non c’è pellegrinaggio più arduo di quello che si compie dentro il proprio cuore, per imparare ad abitare lo spazio dell’altro, per imparare ad amare senza paura.

Perché il Padre ci ha già accolti, ci ha già amati, ci ha già stretti nel suo abbraccio. Ma il nostro viaggio non è finito. Resta da compiere l’ultimo passo, il più difficile: attraversare la soglia che ci separa dal fratello. Solo allora la festa sarà davvero completa. Solo allora la gioia sarà vera e la nostra preghiera, quella che anche ora ti rivolgiamo, sarà esaudita:

Signore Gesù, Porta della misericordia, tu che spalanchi il cuore del Padre e ci attendi sulla soglia con braccia di tenerezza, insegnaci a non temere il passo dell’altro, a non chiudere le porte della nostra vita con le sbarre del pregiudizio, a non serrare il cuore con i catenacci dell’orgoglio.

Fà che il fratello più piccolo trovi sempre varco nel nostro sguardo e il fratello maggiore non resti prigioniero delle sue sicurezze. Sii per noi Porta di pace, perché possiamo riconciliarci con la nostra storia, con le ferite del passato e con le promesse del futuro. Sii Porta di riconciliazione, perché impariamo a guardarci senza paura, ad abbracciarci senza riserve, a camminare insieme senza più diffidenze. Donaci, Signore, di essere porte sante gli uni per gli altri, porte aperte sulla speranza, soglie spalancate sulla fiducia, case senza chiavistelli, dove l’altro è sempre benvenuto, dove l’amore ha sempre diritto di cittadinanza.

E tu, Maria, Porta del Cielo, quando giungerà la sera, prendici per mano e stringici forte, perché il buio non ci faccia paura, perché il passo non si fermi sulla soglia.

Accompagnaci oltre, fino alla meta della nostra speranza, dove ogni attesa sarà compiuta, dove l’amore avrà l’ultima parola, dove il Padre spalancherà le braccia e finalmente sarà casa, sarà festa, sarà per sempre.

Amen.

La generosità della vita di Tonio Dell'Olio

La generosità della vita
di Tonio Dell'Olio




La vita è stata generosa con me. Credo che lo sia stato per tutte e tutti.

Anche per coloro per i quali il tempo è stato avaro o per quelli che hanno attraversato le tempeste che non si riescono nemmeno a raccontare. La generosità la si rintraccia soprattutto nei volti di tante presenze significative che hanno arricchito il cammino o reso più ricco e meno pesante il bagaglio. Ciascuna e ciascuno di noi – sincero con sé stesso – dovrebbe poter dire che al punto in cui si trova e nel modo in cui si ritrova, deve essere grato alla vita per le persone che ha incontrato sul cammino. Sia chiaro che dire “la vita” è la traduzione laica di ciò che io dico Dio. Ecco, noi siamo esattamente il risultato degli incontri che abbiamo realizzato. E non parlo della carriera, del successo, del lavoro… ma della qualità della nostra stessa esistenza. Ce ne accorgiamo ogni volta che, con sincerità, ci guardiamo dentro e ci guardiamo dietro, ovvero volgiamo lo sguardo al cammino sin qui compiuto.
Ma quant’è stata generosa con noi la vita! Persino le vicende di cui avevi smarrito la traccia nella memoria, hanno lasciato un segno nella coscienza e sono state monito, fattore di crescita, elemento e contributo per avanzare nel cammino. Il più delle volte si tratta di persone che non hanno riconoscimento vasto ma, da rabdomanti dell’esistenza, hanno scavato dentro fino ad aiutarti a trovare l’acqua pura di cui il tuo affanno aveva bisogno

(Fonte: Mosaico dei giorni - 25 marzo 2025) 

giovedì 27 marzo 2025

La Samaritana. «Dammi da bere!» (Gv 4,7) - PAPA FRANCESCO - Catechesi preparata per l'udienza generale del 26 marzo 2025

La Samaritana. «Dammi da bere!» (Gv 4,7)
PAPA FRANCESCO
Catechesi preparata
per l'udienza generale
del 26 marzo 2025


Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. 
Gesù Cristo nostra speranza. 
II. La vita di Gesù. Gli incontri. 
2. La Samaritana. «Dammi da bere!» (Gv 4,7)

Cari fratelli e sorelle,
dopo aver meditato sull’incontro di Gesù con Nicodemo, il quale era andato a cercare Gesù, oggi riflettiamo su quei momenti in cui sembra proprio che Lui ci stesse aspettando proprio lì, in quell’incrocio della nostra vita. Sono incontri che ci sorprendono, e all’inizio forse siamo anche un po’ diffidenti: cerchiamo di essere prudenti e di capire che cosa sta succedendo.

Questa probabilmente è stata anche l’esperienza della donna samaritana, di cui si parla nel capitolo quarto del Vangelo di Giovanni (cfr 4,5-26). Lei non si aspettava di trovare un uomo al pozzo a mezzogiorno, anzi sperava di non trovare proprio nessuno. In effetti, va a prendere l’acqua al pozzo in un’ora insolita, quando è molto caldo. Forse questa donna si vergogna della sua vita, forse si è sentita giudicata, condannata, non compresa, e per questo si è isolata, ha rotto i rapporti con tutti.

Per andare in Galilea dalla Giudea, Gesù avrebbe potuto scegliere un’altra strada e non attraversare la Samaria. Sarebbe stato anche più sicuro, visti i rapporti tesi tra giudei e samaritani. Lui invece vuole passare da lì e si ferma a quel pozzo proprio a quell’ora! Gesù ci attende e si fa trovare proprio quando pensiamo che per noi non ci sia più speranza. Il pozzo, nel Medio Oriente antico, è un luogo di incontro, dove a volte si combinano matrimoni, è un luogo di fidanzamento. Gesù vuole aiutare questa donna a capire dove cercare la risposta vera al suo desiderio di essere amata.

Il tema del desiderio è fondamentale per capire questo incontro. Gesù è il primo a esprimere il suo desiderio: «Dammi da bere!» (v. 10). Pur di aprire un dialogo, Gesù si fa vedere debole, così mette l’altra persona a suo agio, fa in modo che non si spaventi. La sete è spesso, anche nella Bibbia, l’immagine del desiderio. Ma Gesù qui ha sete prima di tutto della salvezza di quella donna. «Colui che chiedeva da bere – dice Sant’Agostino – aveva sete della fede di questa donna». [1]

Se Nicodemo era andato da Gesù di notte, qui Gesù incontra la donna samaritana a mezzogiorno, il momento in cui c’è più luce. È infatti un momento di rivelazione. Gesù si fa conoscere da lei come il Messia e inoltre fa luce sulla sua vita. La aiuta a rileggere in modo nuovo la sua storia, che è complicata e dolorosa: ha avuto cinque mariti e adesso sta con un sesto che non è marito. Il numero sei non è casuale, ma indica di solito imperfezione. Forse è un’allusione al settimo sposo, quello che finalmente potrà saziare il desiderio di questa donna di essere amata veramente. E quello sposo può essere solo Gesù.

Quando si accorge che Gesù conosce la sua vita, la donna sposta il discorso sulla questione religiosa che divideva giudei e samaritani. Questo capita a volte anche a noi mentre preghiamo: nel momento in cui Dio sta toccando la nostra vita coi suoi problemi, ci perdiamo a volte in riflessioni che ci danno l’illusione di una preghiera riuscita. In realtà, abbiamo alzato delle barriere di protezione. Il Signore però è sempre più grande, e a quella donna samaritana, alla quale secondo gli schemi culturali non avrebbe dovuto neppure rivolgere la parola, regala la rivelazione più alta: le parla del Padre, che va adorato in spirito e verità. E quando lei, ancora una volta sorpresa, osserva che su queste cose è meglio aspettare il Messia, Lui le dice: «Sono io, che parlo con te» (v. 26). È come una dichiarazione d’amore: Colui che aspetti sono io; Colui che può rispondere finalmente al tuo desiderio di essere amata.

A quel punto la donna corre a chiamare la gente del villaggio, perché è proprio dall’esperienza di sentirsi amati che scaturisce la missione. E quale annuncio potrà mai aver portato se non la sua esperienza di essere capita, accolta, perdonata? È un’immagine che dovrebbe farci riflettere sulla nostra ricerca di nuovi modi per evangelizzare.

Proprio come una persona innamorata, la samaritana dimentica la sua anfora ai piedi di Gesù. Il peso di quell’anfora sulla sua testa, ogni volta che tornava a casa, le ricordava la sua condizione, la sua vita travagliata. Ma adesso l’anfora è deposta ai piedi di Gesù. Il passato non è più un peso; lei è riconciliata. Ed è così anche per noi: per andare ad annunciare il Vangelo, abbiamo bisogno prima di deporre il peso della nostra storia ai piedi del Signore, consegnare a Lui il peso del nostro passato. 
Solo persone riconciliate possono portare il Vangelo.

Cari fratelli e care sorelle, non perdiamo la speranza! Anche se la nostra storia ci appare pesante, complicata, forse addirittura rovinata, abbiamo sempre la possibilità di consegnarla a Dio e di ricominciare il nostro cammino. Dio è misericordia e ci attende sempre!

(Fonte: vatican.va)

Quell’odio che comanda il mondo di Massimo Recalcati

Quell’odio che comanda il mondo 
di Massimo Recalcati


La sconcertante attualità geopolitica ha situato la passione dell’odio come protagonista indiscussa della nostra vita collettiva. Si tratta di una passione che una volta Lacan ha definito come una «carriera senza limiti». Non c’è infatti limite all’umano nella sua versione di Polemos, di dio della guerra. Per questa ragione Freud ricordava che la passione dell’odio viene sempre prima di quella dell’amore.

Essa vorrebbe distruggere tutto ciò che ostacola la volontà di affermazione dell’Uno. Ma diversamente dall’aggressività, che è una risposta reattivamente immediata alle frustrazioni imposte dalla presenza dell’Altro, la passione dell’odio appare come una specie di passione a lungo respiro. Non si consuma in una reazione impulsiva, come accade invece nell’aggressività, ma tende a persistere, a istituirsi come una passione “fedele” e “solida”. Il suo obbiettivo non è tanto quello di rispondere violentemente a quella che viene percepita come una frustrazione, ma quella di programmare, con lucidità che può essere persino apatica, la propria affermazione incontrastata a scapito dell’Altro.

Se nel linguaggio comune si può dire che l’odio acceca, è bene sempre ricordare che l’odio non è un semplice tumulto emotivo destinato a disinfiammarsi nel tempo, ma una spinta pulsionale che mira a negare il diritto di esistenza a chi costituisce il limite della nostra espansione individuale o collettiva.

Diversamente dall’aggressività che può esplodere in circostanze imprevedibili per essere riassorbita anche in breve tempo, l’odio è una passione lucida che si sedimenta e si alimenta nel tempo. Questo perché attraverso l’odio è possibile perseguire un ideale di solidità identitaria. L’odio per l’ebreo, l’omosessuale, l’infedele, il negro, la donna, il palestinese, ecc., consente di guadagnare una propria consistenza, una propria natura, un proprio essere.

L’odio per l’impuro, infatti, è necessario a definire l’essere di chi si vuole considerare puro. È per esempio di questa natura l’odio che anima la furia morale degli ayatollah nei confronti delle donne iraniane. In questo caso non si tratta affatto di una semplice reazione aggressiva, ma di una visione del mondo che si manifesta proprio attraverso la passione dell’odio.

In questo senso l’odio non è mai un’alternativa emotiva alla programmazione o alla pianificazione dei suoi obiettivi. Tutto il contrario. La sua lucidità esige proprio la programmazione e la pianificazione. Si pensi al caso estremo della “soluzione finale” perseguita dai nazisti nei confronti degli ebrei. Se la reazione aggressiva si consuma in una esplosione violenta, finanche nella perdita di controllo, nell’incandescenza di un passaggio all’atto che può essere anche drammaticamente violento, la lucidità feroce dell’odio che vuole imporre l’identità dell’Uno su quella dell’Altro porta con sé una quota necessaria di impassibilità.

Per questa ragione, diversamente dall’impulso aggressivo, la passione lucida dell’odio dura nel tempo. E sempre per questa ragione esso non ha come meta solo la sconfitta dell’avversario e il proprio trionfo, ma il suo annientamento, la sua umiliazione, la negazione della sua stessa dignità. La carriera dell’odio è davvero, anche da questo punto di vista, destinata a non avere limiti. Non è allora affatto un caso se la sua natura ideologicamente fondamentalista e anti-laica sia ritornata a ispirare nel nostro tempo i rigurgiti drammatici di forme diverse di totalitarismo e di tendenze radicalmente anti-democratiche.

Se l’esperienza della democrazia si struttura sull’irriducibilità del Due — sull’impossibilità dell’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua, come ricorda la Torah a proposito dell’impresa delirante degli uomini della Torre di Babele — quella dei totalitarismi e delle spinte populiste antidemocratiche esige invece la soppressione del pluralismo del Due nel nome del fanatismo dell’Uno. Non stupisce che negli attuali conflitti bellici che dominano la scena della nostra vita collettiva e angosciano le nostre vite individuali troviamo tra i protagonisti maggiori i fondamentalismi che invocano il nome di Dio per suffragare il loro diritto a sterminare l’avversario.

L’odio di Dio diventa un alleato formidabile per rafforzare l’odio dell’uomo. Non a caso lo stesso tycoon Trump invoca la mano di Dio sulla sua testa come ispiratrice della sua missione di restaurazione della gloria perduta degli Stati Uniti d’America. Nondimeno, come insegna la psicoanalisi, il perseguimento dell’Uno senza considerare l’insopprimibilità del Due non può che generare morte e distruzione.

Il rifiuto di riconoscere l’esistenza separata del pluralismo del Due, la volontà ferrea di ricondurla al monolinguismo dell’Uno, struttura l’illusione di una comunità che si costituirebbe sull’annullamento delirante delle differenze, come una comunione che esclude ogni libertà. È il sogno che ha ispirato la terribile stagione novecentesca dei totalitarismi ideologici. Nondimeno, oggi possiamo osservare una variazione cruciale su questo tema che proviene proprio da Donald Trump. Lo aveva a suo modo anticipato Pasolini nel suo Salò: l’espressione autoritariatotalitaria del potere non è alternativa all’arbitrio anarchico della volontà individualista ma può costituirne il suo massimo compimento.

(Fonte: “la Repubblica” - 18 marzo 2025)

mercoledì 26 marzo 2025

#innamorarsi - Gianfranco Ravasi

#Innamorarsi 
Gianfranco Ravasi


Un uomo si innamora di un corpo, e poi scopre che c’è molto di più. Una donna s’innamora di un’anima e poi scopre che c’è molto di meno .

Mi sono imbattuto in questo acuto aforisma sfogliando una raccolta di detti e proverbi. L’attribuzione è ai miei occhi un po’ sospetta: «figli del deserto», una locuzione che può variare dai beduini del Vicino Oriente fino ai berberi dei monti dell’Atlante. In realtà, si ha l’impressione di una trascrizione secondo lo stile del pensiero occidentale. Ciò non toglie la verità profonda dell’asserto. Almeno a livello generale, è facile che il maschio cerchi una femmina attraente per poi scoprire una donna con una ricchezza di sentimenti e di esigenze d’amore che egli non sa soddisfare. Altrettanto fondato è l’inverso.

Un proverbio, questa volta veramente orientale, rileva che gli uomini s’innamorano con gli occhi, le donne con le orecchie, cioè con l’ascolto. Possono, perciò, essere conquistate dalle parole dolci, dalle promesse solenni, dai racconti fittizi. Una volta che si instaura un rapporto permanente, ecco la scoperta amara: quell’uomo è banale, superficiale, e forse alla fine persino prepotente, in pratica senz’anima.

Questa duplice lezione, al maschile e al femminile, custodisce una verità di cui molti sono stati testimoni e forse protagonisti. Ricordiamo che, a livello umano autentico, sono aperti tre gradi nell’esperienza della relazione uomo-donna. C’è l’indubbia sessualità primaria, necessario principio di vitalità che ci accomuna al mondo animale. C’è, però, una tappa successiva per l’umanità, ed è l’eros, ossia la scoperta della bellezza, del sentimento, della tenerezza, della passione. Ma il vertice della triade è nell’amore che trasfigura gli altri due livelli e che è donazione reciproca: «Il mio amato è mio e io sono del mio amato», dichiara la donna del Cantico dei cantici (2,16), convinta che «l’amore è forte come la morte» (8,6).

(Fonte:“Il Sole 24 Ore - Domenica” del 2 marzo 2025)

martedì 25 marzo 2025

NUNZIO GALANTINO: Genuinità. La fiducia che genera accoglienza

Genuinità.
La fiducia che genera accoglienza
di Nunzio Galantino


C’è senza dubbio un prima e un dopo l’avvento dell’era social. Anche quando ci si mette alla ricerca del significato di alcune parole. Compresa genuinità e il suo derivato genuino/a. Sia che si riferiscano a un prodotto sia che riguardino la persona. È certamente cresciuto il favore riservato a un prodotto pubblicizzato come genuino. Come pure è più alto il tasso di credibilità riconosciuta a una persona della quale si percepisce la genuinità, che si manifesta attraverso i sentimenti che l’animano e gli atteggiamenti, di conseguenza, messi in atto. Ciò fa della genuinità una dimensione della persona, ma anche una capacità empatica. Partendo da condizioni personali innate e grazie a una positiva interazione con chi e con ciò che la circonda, essa può crescere e affinarsi. Ma può anche deteriorarsi. Sgombrate false apparenze, la genuinità è l’intimo atteggiamento che permette il nascere e lo svilupparsi di relazioni basate sul reciproco leale riconoscimento.

Nonostante questo, bisogna ammettere che la parola genuinità, soprattutto riferita alle persone, resta piuttosto vaga e perde la chiarezza di significato che aveva in origine. Sembra infatti che il termine genuinità sia legato a un rito praticato nell’antica Roma. Qui, prima di essere pubblicamente accolto come figlio, il neonato doveva essere riconosciuto tale dal padre. Deposto ai suoi piedi, il figlio veniva accolto come tale nel momento in cui il padre, sollevatolo in alto, lo poneva sulle sue ginocchia (in latino genu). A questo rito sembra far riferimento anche il verbo latino gignere (generare). Il riferimento al rito di riconoscimento in uso nell’antica Roma e, per estensione, al verbo gignere, fa ritenere genuino, ancora oggi, tutto ciò che ha una origine certa. È autentico, non sofisticato, non adulterato, schietto. E per questo genera fiducia e merita accoglienza.

Non ci vuole molto per capire quanto particolarmente facile sia, al tempo dei social, attribuirsi e attribuire patente di genuinità; e quanto difficile sia diventato verificarne la veridicità. L’autenticità, da quella reale a quella percepita e messa in scena, cattura attenzione emotiva e consensi non sempre giustificati. Le difficoltà si moltiplicano quando si tratta di riconoscere la genuinità di pensieri e sentimenti. Qui la genuinità può facilmente corrompersi. Come avviene tutte le volte in cui pensieri, sguardi e sentimenti sono funzionali al raggiungimento di fini non dichiarati. O come quando, per orientare la costruzione della versione più spendibile di sé o di un prodotto, entrano in campo gli algoritmi che guidano piattaforme, agenzie pubblicitarie e brand.

(Fonte: “Il Sole 24 Ore” - 16 marzo 2025)

lunedì 24 marzo 2025

San Romero de America - Tonio Dell'Olio

San Romero de America
Tonio Dell'Olio



24 marzo 2025 - A mons. Romero era stato dato il privilegio altissimo del dono della profezia.
Oggi che ricorre il 45° anniversario del suo martirio ci si rende conto che quel dono era talmente prezioso che non poteva essere compensato che da un prezzo tanto alto come quello della vita stessa. E come vorremmo avere oggi una Chiesa intera, tante Chiese cristiane di varie denominazioni, denunciare con la stessa forza di Mons. Romero, le ingiustizie fondate sullo sfruttamento dei poveri e il ricorso alla violenza più efferata. Di fronte allo scempio di dignità che si abbatteva sul popolo salvadoregno Mons. Romero aveva abbandonato ogni cautela prudenziale e ogni formale ipocrisia diplomatica mimetizzata sotto il marchio del rispetto istituzionale. Pane al pane e vino al vino, voce di chi non aveva voce, Romero aveva assunto lo stile della denuncia come registro dell’annuncio cristiano. Oggi non esiterebbe a chiamare il genocidio in atto nella Striscia di Gaza col suo nome e a qualificare come tirannia tecnocratica la minaccia continua rivolta dai vari Musk all’umanità. Oggi Romero starebbe dalla parte dei disperati prima braccati e poi respinti in catene negli Stati Uniti d’America dalla follia disumana di Trump. Oggi conferirebbe ancora alle parole la dignità della profezia di cui ci sentiamo troppo spesso orfani.

(Fonte: Mosaico dei giorni del 24 marzo 2025)

Bentornato a casa! di Andrea Tornielli

Bentornato a casa! 
di Andrea Tornielli



Sono passati 38 giorni da quel 14 febbraio, quando Papa Francesco aveva lasciato il Vaticano per essere ricoverato al Policlinico Gemelli. Settimane complicate per un paziente di 88 anni colpito da una polmonite bilaterale: i bollettini medici non hanno taciuto la gravità della situazione, le crisi che ha attraversato, la complessità del quadro clinico. Ma i giorni trascorsi sono stati soprattutto accompagnati da un fiume di preghiere per la sua salute: preghiere personali, preghiere comunitarie, rosari, celebrazioni eucaristiche. Hanno pregato per Francesco non soltanto i cattolici, non soltanto i cristiani. Hanno pregato per il Papa anche donne e uomini appartenenti ad altre religioni. Gli hanno mandato pensieri buoni e auguri anche tante persone che non credono. È per tutto il popolo in preghiera che il breve saluto di oggi è stato voluto e pensato.

Abbiamo vissuto con il Vescovo di Roma questi lunghi giorni di sofferenza, abbiamo aspettato, pregato, ci siamo commossi quando il 6 marzo Francesco ha voluto far arrivare la sua flebile voce a tutti, per ringraziare i fedeli in preghiera in piazza San Pietro e collegati da tutto il mondo, unendosi a loro. Siamo stati confortati, la sera di domenica 16 marzo, quando per la prima volta lo abbiamo rivisto seppure ripreso di spalle, mentre pregava dopo aver concelebrato la messa nella cappellina del decimo piano del Gemelli.

Dopo tanta apprensione ma anche tanta fiducia e abbandono al progetto di Colui che ci dona la vita in ogni istante e che in ogni istante può chiamarci a sé, oggi lo abbiamo rivisto. Abbiamo ricevuto nuovamente la sua benedizione nel giorno del rientro in Vaticano. Dalla stanza d’ospedale, in queste settimane, Francesco ci ha ricordato che la vita è degna di essere vissuta in ogni istante e che in ogni istante ci può essere richiesta. Ci ha ricordato che la sofferenza e la debolezza possono diventare occasione di testimonianza evangelica, per l’annuncio di un Dio che si fa Uomo e soffre con noi accettando di essere annientato sulla croce.

Lo ringraziamo per averci detto che dalla stanza d’ospedale, la guerra gli è apparsa ancora più assurda; per averci detto che dobbiamo disarmare la terra e dunque non riarmarla inzeppando gli arsenali di nuovi strumenti di morte; per aver pregato e offerto le sue sofferenze per la pace, così minacciata oggi.

Bentornato a casa Santo Padre!

(Fonte; VaticanNews)

PAPA FRANCESCO: “Grazie a tutti” - Saluta dal Gemelli, poi lascia l'ospedale

PAPA FRANCESCO: 
“Grazie a tutti” 

Al termine dell’Angelus, il Santo Padre Francesco si è affacciato dal balcone del quinto piano del Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma per salutare e benedire i fedeli riuniti nel piazzale dell’ospedale.
Prima di rientrare a Casa Santa Marta, dopo la sua uscita dall’ospedale, Papa Francesco è andato a Santa Maria Maggiore e ha consegnato a Sua Eminenza il Cardinale Makrickas dei fiori da porre davanti all’icona della Vergine Salus Populi Romani. Al termine ha fatto rientro in Vaticano.



Testo preparato dal Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

La parabola che troviamo nel Vangelo di oggi ci parla della pazienza di Dio, che ci sprona a fare della nostra vita un tempo di conversione. Gesù usa l’immagine di un fico sterile, che non ha portato i frutti sperati e che, tuttavia, il contadino non vuole tagliare: vuole concimarlo ancora per vedere «se porterà frutti per l’avvenire» (Lc 13,9). Questo contadino paziente è il Signore, che lavora con premura il terreno della nostra vita e attende fiducioso il nostro ritorno a Lui.

In questo lungo tempo di ricovero, ho avuto modo di sperimentare la pazienza del Signore, che vedo anche riflessa nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati. Questa pazienza fiduciosa, ancorata all’amore di Dio che non viene meno, è davvero necessaria alla nostra vita, soprattutto per affrontare le situazioni più difficili e dolorose.

Mi ha addolorato la ripresa di pesanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, con tanti morti e feriti. Chiedo che tacciano subito le armi; e si abbia il coraggio di riprendere il dialogo, perché siano liberati tutti gli ostaggi e si arrivi a un cessate il fuoco definitivo. Nella Striscia la situazione umanitaria è di nuovo gravissima ed esige l’impegno urgente delle parti belligeranti e della comunità internazionale.

Sono lieto invece che l’Armenia e l’Azerbaigian abbiano concordato il testo definitivo dell’Accordo di pace. Auspico che esso sia firmato quanto prima e possa così contribuire a stabilire una pace duratura nel Caucaso meridionale.

Con tanta pazienza e perseveranza state continuando a pregare per me: vi ringrazio tanto! Anch’io prego per voi. E insieme imploriamo che si ponga fine alle guerre e si faccia pace, specialmente nella martoriata Ucraina, in Palestina, Israele, Libano, Myanmar, Sudan, Repubblica Democratica del Congo.

La Vergine Maria ci custodisca e continui ad accompagnarci nel cammino verso la Pasqua.


GUARDA IL VIDEO


domenica 23 marzo 2025

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - III DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


III DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C
23 marzo 2025

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, Dio si è rivelato a Mosé come il Dio-con-noi, che cammina con noi nei sentieri tortuosi della nostra storia, ascolta il grido degli oppressi, disegna un cammino di liberazione per il suo Popolo e mai lo abbandona. Nel suo Figlio Gesù egli ci ha mostrato quanto sia grande il suo amore e la sua misericordia per noi. Con questa certezza nel cuore, innalziamo a Lui le nostre preghiere ed insieme diciamo:

    R/ Convertici a Te, o Padre.


Lettore

- Tu, o Padre, hai voluto che la Chiesa, tuo Popolo, fosse come un prolungamento dell’umanità del tuo Figlio Gesù. Non distogliere da essa il tuo sguardo, perché non smetta di cercare il tuo Regno e di essere in mezzo ai popoli segno visibile della tua paternità e maternità, del tuo amore e della tua grandezza d’animo, perché Tu sempre perdoni e attendi con pazienza che tutti abbiano modo di convertirsi e di cambiare il loro modo di essere e di agire. Preghiamo.

- Tu, o Padre, conosci il dolore ed ascolti il grido di tanta umanità, di tanti popoli che aspirano a poter prendere parte alla mensa dei beni della terra. Suscita altri Mosè che sappiano parlare al cuore e alla mente dei potenti. Preghiamo.

- Tu, o Padre, che illumini le menti e sciogli i cuori induriti, ispira veri pensieri e progetti di pace, e non di riarmo, ai governanti dell’Europa e dell’Occidente, affinché si ponga termine alla guerra tra Ucraina e Russia, si fermi in Palestina l’orrendo massacro di vite umane, vittime sacrificali dell’egoismo nazionalistico. Preghiamo.

- Non distogliere, o Padre, il tuo sguardo dal nostro Paese. Ispira il nostro governo a non investire nell’aumento delle spese militari, ma nell’abbattimento delle crescenti disuguaglianze, nell’efficienza della giustizia, nella riqualificazione della sanità pubblica, in una scuola che formi ed educhi i giovani a comprendere il senso della vita e a guardare con speranza al loro futuro. Preghiamo.

- Davanti a Te, o Padre, Dio ricco di misericordia, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo ancora dei morti della guerra in Ucraina e in Palestina, di coloro che muoiono sul lavoro e delle vittime della violenza nelle famiglie. Mostra a tutti il tuo Volto accogliente di Misericordia e di Pace. Preghiamo.


Per chi presiede 
Ascolta ed esaudisci, o Padre, la preghiera della tua Chiesa qui raccolta davanti al tuo Volto. La Parola che abbiamo ascoltato e meditato, ci aiuti ad accogliere la tua Presenza negli avvenimenti della nostra vita e il tuo invito alla conversione. Te lo chiediamo per Cristo Gesù nostro Signore. AMEN

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 20 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C

Vangelo:

Tutto il capitolo tredici del Vangelo di Luca tratta delle Parabole del Regno, che sono incluse tra due episodi aventi come tema comune la morte (Lc 13,1-5 . 31-35).

I due fatti di cronaca descritti nel nostro brano richiamano con forza ciò che maggiormente scuote la nostra fragile fede: la morte causata dalla violenza dell'uomo e quella prodotta da cause naturali. Gesù non dà una spiegazione degli eventi, ma esorta a leggere i due tragici avvenimenti ad un livello differente, più profondo: in termini di perdizione e di salvezza. Il Maestro ci esorta a scendere fino alle radici del nostro cuore, ci invita a saper discernere quale mentalità sovraintende la nostra vita: quella del Regno o quella del divisore? La soluzione al male non sta tanto nel fare un'analisi più corretta degli eventi, quanto nel totale mutamento (metanòia) del nostro modo di sognare, progettare e vivere la vita, rinunciando ai nostri piani di morte per sposare il sogno d'amore del Padre. Se non abbandoniamo i nostri progetti di violenza e di morte, la morte stessa sarà il nostro salario. Solo scegliendo di servire la vita sempre e comunque, dal concepimento fino alla sua naturale fine, saremo in grado di produrre i dolci frutti che il Padrone della vigna attende da noi. Nel caso contrario, saremo solo vuota apparenza, inutile fogliame spazzato via dal vento della vita, sterile albero che non produce frutti e rende improduttiva la terra che occupa, che a nulla serve se non ad essere tagliato e gettato nel fuoco.